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La teologia postconciliare è una forza fuori controllo che sta divorando la fede cattolica?

La cattedrale di Santa Maria Assunta a Troia, in provincia di Foggia, concattedrale della diocesi di Lucera-Troia, è un vero e proprio scrigno di gioielli preziosi in fatto di architettura, scultura e pittura romanica, al quale ci si avvicina con riverenza e ammirazione, tanto che l’occhio, fin dall’esterno, fin dalla facciata con il grande rosone a traforo, e dallo splendido portale in bronzo, suddiviso in 28 formelle scolpite, non sa dove posarsi, dove sostare più a lungo, perché tutto è una meraviglia; ed entrando, poi, nell’edificio a tre navate, l’ammirazione aumenta, e la mente non può fare a meno di pensare quanto sciocchi, ingiusti e unilaterali sono i giudizi di quegli storici, e anche di quegli storici dell’are, i quali vedono nel Medioevo una civiltà semibarbarica, superstiziosa, ignorante e oscurantista, mentre qui, in questo luogo antico di otto secoli, tutto parla di fede, di spiritualità, di forza, di bellezza, di slancio dell’anima verso la dimensione celeste: ma senza ignorare i drammi e le lotte della vita terrena, i quali, anzi, trovano una rappresentazione decisamente realistica, talvolta perfino cruda.

A quest’ultimo proposito, spicca, fra tanti altri, un bassorilievo del pulpito, in pietra, raffigurante un leone che ghermisce un agnello e lo sta divorando, ancor vivo; mentre un cane, in alto, a sinistra, si avventa sul leone e lo azzanna alle terga, apparentemente per salvare l’agnello, ma, a quel che è dato vedere e capire, con ben pochi risultati, a causa della sproporzione fra la mole e la pericolosità del leone e quella del tardivo soccorritore, il quale, forse, finirà sbranato a sua volta. È una scena altamente drammatica e impressionante, che lascia addirittura perplessi, non solo per la forza espressiva e la tensione spirituale che sottintende, ma anche per la problematicità del significato allegorico, che non risulta affatto evidente di primo acchito. Bisognerebbe andarci piano con l’affermare con troppa sicurezza e disinvoltura, come abitualmente si fa, che le decorazioni, le sculture e le vetrate delle cattedrali medievali erano la Biblia pauperum, la Bibbia dei poveri, se ad una tale espressione si annette il significato di una trasmissione del tutto esplicita, e auto-evidente, dei principali contenuti della fede cattolica.

Forse l’uomo medievale, benché ignorante, e sovente analfabeta, non era, però, così rozzo e grossolano come piace immaginarselo ai tanti  lettori di romanzi come Il nome della rosa e agli spettatori di film come quello omonimo; e forse non era nemmeno un uomo così "semplice" come comunemente si crede, se per semplice s’intende una persona sostanzialmente ignara della complessità della vita. Il che ci porterebbe a un ripensamento di uno dei nostri convincimenti più largamente diffusi, ma anche dei meno verificati, e cioè che la vita dell’uomo moderno sia immensamente più complessa di quella dell’uomo pre-moderno: a meno, naturalmente, che ci si limiti a giudicare una cosa "semplice" o "complessa" unicamente in base ai suoi aspetti esteriori, quantitativi e misurabili sull’ordine materiale. Forse l’uomo medievale era, molto più di noi, abituato a "leggere" le opere dell’arte sacra come introduzione a dei significati profondi, che vanno desunti non solo in base a collegamenti e relazioni di ordine storico, logico e naturale, ma, e in misura assai maggiore, lasciandosi interrogare dalla dimensione stessa della fede, la quale "sa" in quale senso indirizzare l’anima, purché essa possieda l’umiltà necessaria per spogliarsi della sua pretesa di sapere già tutto, e si ponga in atteggiamento di umiltà, di ascolto, di contemplazione e di adorazione del divino. Ma questa linea di ragionamento ci porterebbe troppo lontano e richiederebbe un approfondimento ulteriore, che, forse, svolgeremo un’altra volta, e che in parte abbiamo già svolto in precedenti occasioni (cfr. l’articolo Il mondo dell’uomo medievale è popolato di presenze invisibili, perché soprannaturali, pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 08/09/2014, e ripubblicato su Il Corriere delle Regioni il 30/11/2015); per cui ci fermiamo qui e torniamo ai nostri tre animali dal significato piuttosto misterioso.

Il bassorilievo sul pulpito della cattedrale di Troia, comunque, ha attirato a suo tempo l’attenzione di un osservatore assai colto, fine e intelligente, come il papa Benedetto XVI, che ne è rimasto talmente colpito, e talmente pensieroso, da dedicarvi una riflessione scritta, che vale la pena di riportare per esteso (da: Joseph Ratzinger, Collaboratori della verità. Un pensiero al giorno; titolo originale: Mitarbeiter der Wahrheit: Gerdanken für jeden Tag, Würzburg, Verlag Johann Wilhelm Naumann, 1990; traduzione dal tedesco a cura di suor Irene Grassi, Libreria Editrice Vaticana, 2005, pp. 265-267):

Nella magnifica cattedrale romanica della piccola cittadina pugliese di Troia sono rimasto affascinato soprattutto da un bassorilievo sul pulpito, datato 1158 e un po’ enigmatico. Esso rappresenta tre animali, nella cui correlazione reciproca l’artista ha voluto manifestamente rappresentare la condizione della Chiesa nel suo tempo. In basso si vede un agnello, su cui si è gettato avidamente un eone possente. Questi lo tiene fermo tra le sue zampe poderose e con i denti. Il corpo dell’agnello è ormai dilaniato: si vedono le ossa e si vede che ne sono già stati mangiati dei brani. Solo lo sguardo infinitamente triste dell’animale assicura l’osservatore che l’agnello, per metà sbranato, è ancora vivo.

A confronto con l’impotenza dell’agnello, il leone è espressione di violenza brutale, alla quale l’agnello non può opporre altro che la sua inerme angoscia. È chiaro che l’agnello rappresenta la Chiesa, o meglio: la fede della Chiesa e nella Chiesa. Così in questa scultura abbiamo a che fare con una specie di "rapporto sulla fede" in apparenza molto pessimista: la vera Chiesa, la Chiesa della fede sembra già per metà divorata dal leone del potere, nelle cui grinfie è finita. Essa può solo subire il proprio destino nell’impotenza del dolore.

Ma la scultura, che raffigura con il necessario realismo la condizione umanamente disperata della Chiesa, è anche espressione di quella speranza, che sa dell’invincibilità della fede. Questa speranza prende forma in maniera singolare: sul leone si getta un terzo animale, un piccolo cane bianco. A giudicare dalle sue forze, esso appare del tutto impari rispetto al leone, ma, ciò nonostante, morde coi denti e con le unghie il mostro rapace. Forse cadrà esso stesso vittima del felino, tuttavia la sua intromissione costringerà il leone a mollare l’agnello.

Se il significato simbolico dell’agnello è in certa misura chiaro, altrettanto non è degli altri due animali. Resta dunque aperto l’interrogativo: Chi è il leone? Chi è il piccolo cane bianco? In proposito non ho ancora potuto consultare alcun manuale di storia dell’arte, e nemmeno io lo so. Resta allora da farsi una domanda: dov’è il posto della teologia in questa drammatica contrapposizione di tre realtà?

Quanto più vi rifletto, tanto più mi sembra che la raffigurazione non sia un’esaltazione della teologia, bensì una provocazione, un invito all’esame di coscienza, una questione aperta. Chiaramente circoscritto è solo il significato simbolico dell’agnello. Ma gli altri due animali, il leone e il cagnolino, non rappresentano forse i due possibili orientamenti della reologia, i due opposto itinerari? Il leone, non impersona forse la tentazione cui la teologia va incontro nella storia, di erigersi a "padrona" della fede? Non incarna forse quella "violentia rationis", quella ragione dispotica e violenta, di cui un secolo più avanti Bonaventura doveva parlare come di una forma deviata del pensiero teologico? E il cagnolino coraggioso, non rappresenta la via opposta, cioè una teologia che si sa al servizio della fede e che perciò accetta di rendersi ridicola, mostrando però nei suoi evidenti limiti la perdita di unità di misura e l’autoglorificazione della "ragion pura"?

Se le cose stanno così, quale provocazione il bassorilievo di quel pulpito rivolge a predicatori e a teologi d’ogni tempo! Esso fa da specchio a colui che parla così come a colui che ascolta. Per i pastori e i teologi è un esame di coscienza, poiché entrambi possono essere "predatori" o "custodi". E in questo modo — come interrogativo che come tale non è mai definitivamente risolto — tale raffigurazione ci tocca tutti personalmente.

L’interpretazione di Benedetto XVI, molto originale e molto suggestiva, è, nello stesso tempo, un riflesso delle sue preoccupazioni nei confronti di una teologia fuori controllo, la quale, dimentica del suo statuto originario, resa folle dalla superbia intellettuale, pretenda di stravolgere le verità della fede e diventi, pertanto, simile a una belva feroce, che divora la sua stessa Chiesa. Questa preoccupazione traspare da numerosissimi scritti e discorsi di papa Benedetto XVI, il quale, da teologo, e da fine teologo, ha vissuto dall’interno la stagione del Concilio Vaticano II e ha visto coi suoi occhi quanto potere, sia pure in forma non riconosciuta ufficialmente, hanno avuto i teologi nel determinare gli orientamenti dei lavori conciliari e, in definitiva, nell’imprimere a quel grande avvenimento una direzione precisa, che non era, forse, quella pensata e desiderata dalla grande maggioranza dei vescovi che vi presero parte. Fatto nuovo, sorprendente, inaudito, perché mai, nei venti concili precedenti della storia della Chiesa, i teologi, alcuni dei quali laici (come Jacques Maritain) avevano preteso di orientare i lavori in una direzione nuova; ma sempre avevano posto la loro competenza scientifica al servizio del Magistero e contro gli errori, le interpretazioni ambigue, le dottrine eretiche: si erano sempre posti, cioè, nel ruolo di umili difensori della fede, e mai in quello di coloro che vogliono aprire alla fede nuovi orizzonti, nuove prospettive e perfino nuovi modi di pensare. E proprio perché Benedetto XVI ha mutato sostanzialmente parere sugli anni del Concilio, guardando in maniera critica alle speranze e alle attese che lui stesso aveva, in un primo tempo, condiviso, distaccandosi però, abbastanza presto, da quei suoi confratelli che vedeva avviati verso una teologia superba, spregiudicata e potenzialmente pericolosa per la fede, in lui è così viva e frequente la riflessione sui limiti e sulla natura stessa della teologia, in rapporto alla fede e in rapporto alla vita della Chiesa, così come è assai frequente la riflessione sul significato del Concilio e sul dopo Concilio. Egli ha sempre ribadito che il Concilio, evento in se stesso benefico e provvidenziale, non va confuso con gli abusi e gli errori che ne sono seguiti, e che ad esso, impropriamente, pretendono di rifarsi; tuttavia, a parte l’obiezione di ordine logico che si può muovere alla sua posizione – come può, l’albero buono, dare frutti tanto cattivi? – la stessa frequenza ed insistenza delle riflessioni di Benedetto XVI su questa spinosa questione offre un indizio, a nostro parere difficilmente equivocabile, di quanto egli fosse – e senza dubbio sia tuttora, da "papa emerito" -, tormentato dal dubbio che, sì, una cattiva teologia si fosse intrufolata nel Concilio e avesse gettato i semi di quegli abusi, anzi, di quei disastri, come egli stesso li chiama, e riconosce che vi furono; abusi la cui pessima influenza continua a farsi sentire sino ad oggi, e oggi pare, anzi, aver raggiunto una dimensione ancor più minacciosa e incontrollabile. Ad esempio, una volta egli ebbe ad osservare: Il cattolico che lucidamente — e di conseguenza con sofferenza — vede i guasti prodotti nella sua Chiesa dalle false interpretazioni del concilio Vaticano II, deve scoprire proprio in quel medesimo concilio Vaticano II le possibilità di un’autentica ripresa. Il concilio è SUO, non di coloro che vogliono dirottarlo per una via, i cui sbocchi sarebbero catastrofici (in: Rapporto sulla fede, p. 37). Eppure non doveva essere del tutto convinto nemmeno lui, se tornava ancora, e ancora, a interrogarsi su questo punto: i guasti della liturgia, della pastorale e della teologia post-conciliari sono stati causati da una errata interpretazione del concilio, o hanno trovato il loro terreno d’incubazione nel concilio stesso?

Una cosa è certa: quando la teologia si dimentica di essere solo una stampella della fede; quando si dimentica che la sua ragion d’essere, il suo scopo, la sua natura, sono di promuovere, sostenere, chiarificare e incoraggiare la fede, e di consolare e fortificare il credente; quando, invece, pretende di farsi autrice, in prima persona, di una "svolta" della fede, di una nuova maniera di leggere le Scritture, e di porre la Tradizione in soffitta, tra le vecchie cose inutili, che non si osa gettar via solo per un ultimo residuo, peraltro ipocrita, di umano rispetto: ebbene, a quel punto la teologia diventa cattiva teologia e falsa teologia, ed è simile a una bestia feroce, a un leone famelico, che si getta sull’agnello della Chiesa, lo azzanna, lo dilania; mentre la sana teologia, ridotta a poca cosa, tenta coraggiosamente, ma forse invano, di salvare l’agnello, distraendo l’attenzione della terribile fiera. Ah, se i vari teologi e pastori "novatori", i Walter Kasper, i Carlo Maria Martini, gli Enzo Bianchi, i Vincenzo Paglia, i Nunzio Galantino, gli Arturo Sosa Abascal, i James Martin, e lo stesso papa Francesco: se costoro, salendo sul pulpito, o parlando alla televisione, o rilasciando interviste, o scrivendo libri ed articoli, si fossero ricordati, se avessero tenuto presente il saggio e severo ammonimento contenuto nel bassorilievo della cattedrale di Troia! Non sono forse essi simili a quel leone ruggente, che si getta sull’agnello e ne fa a brani le tenere carni, straziando proprio quella fede dei piccoli, dei semplici, che Cristo aveva tanto raccomandato di custodire, e di non scandalizzare, mai, assolutamente mai, per nessuna ragione al mondo? E invece essi, gonfi di umana superbia, di malcelato compiacimento, di narcisismo a fatica dissimulato, desiderosi di approvazione, di elogi, di consensi (e da parte di chi, poi? da parte dei nemici secolari della Chiesa!), di auto glorificazione, avessero ricordato almeno le parole di Cristo, e avessero preso a modello il Buon Pastore, colui che è pronto a dare la propria vita per la difesa del gregge! Al contrario, essi non si turbano minimamente per il fatto di allontanare tante e tante pecorelle, di lasciare ch’esse vadano a smarrirsi chissà dove, lontano dall’ovile della Chiesa fondata da Gesù Cristo!

Tale è il destino di una teologia superba, dominata dalla violentia rationis: da una ragione tutta umana e insuperbita, che, con la scusa e la pretesa di capire "meglio", e di più, di quel che ha capito fino ad oggi la fede, vuole andare avanti, vuole andare oltre, vuole delineare cieli nuovi e terre nuove, fosse pure sulla rovina della fede e sulle ceneri della Chiesa, della cui sopravvivenza, e della cui fedeltà alla Parola divina non sembrano davvero curarsi molto, certo non quanto degli umani riconoscimenti e delle umane, e mondane, gratificazioni…

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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