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Chi fece piovere sulle truppe di Marco Aurelio?

C’è, sui rilievi della Colonna di Marco Aurelio, ora situata in Piazza Colonna, a Roma, vicino a Montecitorio, una scena che ha sempre incuriosito e fatto discutere non solo gli storici dell’arte, ma anche gli storici della Roma imperiale, per il carattere insolito dell’episodio raffigurato: il cosiddetto Miracolo della pioggia. Durante la guerra condotta dall’imperatore sul Danubio nel 171-174 d. C., contro le popolazioni minacciose dei Quadi e dei Marcomanni, che avevano compiuto perfino una scorreria in Italia, un reparto dell’esercito romano, circondato dai barbari, si era trovato in pericolo di morire di sete, ma era stato salvato da una pioggia torrenziale, più che provvidenziale, la che aveva rianimato i legionari e li aveva messi in grado di rompere l’accerchiamento e sbaragliare i nemici, dispersi anche da una tempesta con tuoni e fulmini. Il punto è che non si sarebbe trattato di un evento meteorologici naturale, ma di un autentico prodigio, o, se si vuole, di un miracolo, appositamente invocato dalle truppe, o da qualcuno fra esse, allorché la tortura della sete era giunta al culmine, sia per gli uomini che per i cavalli.

L’episodio è riferito da Cassio Dione, uno storico greco vissuto fra il 155 e il 235, autore di una Storia romana in ottanta libri, che abbracciava l’arco temporale fra l’arrivo in Italia di Enea e l’anno 229, cioè fino al regno di Alessandro Severo; un’opera di scarso valore nella prima parte, più interessante, invece, per il periodo successivo al regno di Marco Aurelio, ma della quale ci sono pervenuti solo frammenti, specialmente dei primi trentasei libri. Possediamo inoltre un riassunto fatto in epoca successiva dal monaco bizantino Giovanni Xifilino, vissuto a Costantinopoli nella seconda metà dell’XI secolo. Questi, per ordine dell’imperatore Michele VII Parapinace, scrisse una epitome dell’opera di Cassio Dione, che a sua volta ci è pervenuta incompleta, e relativa ai libri dal trentaseiesimo all’ottantesimo; ma che è di scarso valore filologico, perché il buon monaco non aveva alcuna attitudine storiografica, era poco scrupoloso nel maneggiar l’originale e si prendeva anche qualche libertà nel riportare i fatti. Questa è la disperazione degli studiosi moderni della tarda antichità: dispongono di fonti originali di poco valore storico, e di epitomi che sono di valore ancor più scarso; il tutto ridotto a frammenti più o meno slegati (cfr. in proposito il nostro saggio: Elenco degli autori principali greci e latini per la storia del tardo Impero Romano (180-476 d. C.), già pubblicato su vari siti, e ripubblicato su Il Corriere delle Regioni il 24/02/2017).

Ora, tornando al Miracolo della pioggia, raffigurato sulla Colonna di Marco Aurelio, con tanto di divinità barbuta che fa cadere la pioggia sui legionari assetati, il problema è proprio questo: che Cassio Dione attribuisce la pioggia salvatrice all’opera di un mago egiziano di nome Arnouphis, amico di Marco Aurelio, che si trovava al seguito delle truppe, e che avrebbe invocato il soccorso delle sue divinità pagane; mentre la tradizione cristiana, ripresa da Xifilino, ma, in effetti, diffusa quasi contemporaneamente a quella "pagana", e cioè a pochi anni di distanza dai fatti, attribuisce il miracolo al Dio dei cristiani, invocato dai legionari cristiani della XII Legione. Ed ecco che il contrasto fra pagani e cristiani, assai vivo all’epoca di Marco Aurelio (durante il cui regno ci fu una vera persecuzione anticristiana, durata diversi anni, il cui episodio forse più conosciuto è quello dei martiri di Lione, del 177 d. C.) si sposta anche sul terreno del soprannaturale, ed entrambi rivendicano il merito di aver salvato l’esercito romano, impegnato in una campagna difficilissima contro i Marcomanni, da una catastrofe simile a quella subita dalle legioni di Publio Quintilio Varo nella Selva di Teutoburgo nel 9 d.C., ad opera di Arminio, durante il regno di Ottaviano Augusto. Una specie di guerra di propaganda fra pagani e cristiani, che si svolse parallela a quella sul piano strettamente religioso, e che si sarebbe prolungata per altri due secoli e mezzo, visto che ancora al tempo del sacco di Roma da parte dei Visigoti di Alarico, nel 410, cristiani e pagani si palleggiavano la responsabilità di quanto era accaduto, con i secondi che attribuivano la catastrofe all’abbandono del culto delle antiche divinità protettrici dell’Urbe.

Così l’eminente storico inglese Anthony Richard Birley (nato nel 1937 e figlio dell’archeologo Eric Birley) ha riassunto la questione del Miracolo della pioggia, nella sua esauriente e scrupolosa monografia dedicata all’imperatore Marco Aurelio (in: A. Birley, Marco Aurelio; titolo originale: Marcus Aurelius. A Biography, Londra, Batsford, 1966, 1987; traduzione dall’inglese di Cristina De Grandis, Milano, Rusconi Editore, 1990, pp. 215-217):

Un resoconto dettagliato di una battaglia molto insolita viene fornito da Dione, che il suo trascrittore, il monaco bizantino Xifilino, giudicò inadeguato e quindi arricchì di osservazioni personali. Vari altri cronisti forniscono ulteriori particolari. Si tratta della famosa battaglia del Miracolo della Pioggia.

"Una grande guerra contro un popolo chiamato Quadi venne sostenuta dalla sua gente e fu la buona stella di Marco che gli fece cogliere una vittoria inaspettata, o meglio la vittoria gli venne concessa da Dio. Poiché quando i Romani nel corso della battaglia furono in pericolo, il potere divino li salvò nel modo più straordinario. I Quadi li avevano circondati in un luogo favorevole per loro e i Romani stavano combattendo coraggiosamente con gli scudi stretti l’uno accanto all’altro. I Barbari smisero per un attimo di combattere, sicuri di poter facilmente sopraffare i Romani, logorati dal caldo e dalla sete. Li circondarono da ogni parte, in modo che non riuscissero a procurarsi acqua in nessun luogo. Poiché erano molto superiori numericamente. Di conseguenza i romani erano in una brutta situazione, per la stanchezza, le ferite, il sole e la sete e non potevano né combattere né ritirarsi, ma si mantenevano schierati sulle loro posizioni, bruciati dal sole, quando improvvisamente molte nuvole si accumularono e una gran pioggia cadde su di loro, non senza l’aiuto degli dei. In realtà, c’è una storia che racconta che Arnouphis, un mago egiziano, amico di Marco, aveva invocato con degli incantesimo varie divinità, in particolare Ermes Aerios (Mercurio, il dio dell’aria) e in questo modo fece venire la pioggia… Quando la pioggia cominciò a cadere, dapprima tutti volsero la faccia all’insù e lasciarono che acqua entrasse in bocca, quindi stesero scudi ed elmi per raccoglierla e non solo ne bevvero grandi sorsate, ma la diedero anche ai cavalli da bere. Quando i Barbari li caricarono, bevevano e combattevano al tempo stesso. Alcuni, già ferirti, inghiottivano anche il sangue che era colato nei loro elmi insieme all’acqua. In realtà, molti di loro erano cos’ assetati che avrebbero sofferto seriamente per l’assalto nemico, se un violento temporale e numerosi fulmini non fossero caduti sul nemico…".

Dione continua con un brano movimentato in cui descrive la conseguenza di questa confusione fra le file dei barbari Xifilino, come già detto, considerò insufficiente il resoconto di Dione. Il motivo era che a pochi ani di distanza dall’avvenimento si era stabilita una solida tradizione per cui sarebbero state le preghiere dei soldati cristiani XII legione che avevano fatto piovere, non gli sforzi del sacerdote egiziano Harnouphis. Xifilino ci dà la versione cristiana. Sfortunatamente, una delle prove che egli cita, non ha valore. La XII legione si chiamava "Fulminata", "portatrice di fulmini", probabilmente perché aveva come emblema la folgore di Giove. La legione si chiamava così da più di un secolo, ma Xifilino e altri scrittori cristiani affermano che si meritò quel nome dopo la battaglia. Questo è falso. La XII Fulminata era un realtà una legione della Cappadocia e non è del tutto certo che stesse combattendo nelle guerre settentrionali (benché sia possibile). Inoltre, era più probabile che i legionari orientali fossero cristiani all’epoca. Può darsi quindi che ci siano stati davvero soldati cristiani impegnati nella battaglia. Sfortunatamente non c’è motivo per credere che essi acquistassero un maggior credito, da parte di Marco, per la vittoria, come si afferma. Al contrario, monete dell’anno 173 ritraggono il dio Ermes e appare probabile che Marco facesse costruire un tempio a questa divinità per gratitudine. Un medaglione mostra Giove su un carro trinato da quattro cavalli mentre distrugge i barbari con la sua folgore. Sulla colonna Aureliana l’avvenimento viene illustrato con gran dovizia di particolari. Gli stanchi romani sono mostrati mentre marciano. Un legionario indica il cielo e subito sulla destra si vede la pioggia che cade. Un uomo abbevera il suo cavallo, un altro beve, alcuni sollevano gli scudi per accogliere l’acqua. La pioggia è personificata da una figura semi-umana e terrificante, con una faccia scura e una lunga barba, con i capelli che si fondono nei rivoli d”acqua. Lo spirito della pioggia passa sopra uomini e animali, mentre sotto di lui appaiono in prospettiva barbari morti e cavalli fulminati. Se la personificazione aveva un nome, questo poteva essere solo il nome di uno degli dei il cui aiuto viene riconosciuto dalle monete, presumibilmente Ermes Aerios, benché la figura cupa e minacciosa sia molto dissimile dall’immagine consueta legata al dio Ermes o Mercurio dai piedi alati. Il dio descritto da Dione come "Ermes Aerios" è apparentemente una divinità originaria dell’Egitto, Thoth-Shou, il cui aiuto era stato invocato dal sacerdote egiziano Harnouphis. Ci fu, in realtà, un rivale non cristiano che pretendeva di aver ottenuto l’assistenza divina, il "Caldeo" Giuliano. In ogni caso, Marco riconobbe solamente l’aiuto di divinità pagane. Né la colonna né il resoconto di Dione-Xifilino indicano che Marco fosse presente al Miracolo della Pioggia. In realtà, se il rifacimento dello storico cristiano del quinto secolo Orosio, secondo il quale solo un piccolo manipolo di Romani era impegnato nella battaglia, può essere accolto, può darsi che si sia trattato di un’azione minore, senza il coinvolgimento del grosso dell’esercito. La "Cronaca" di Eusebio afferma che il comandante romano era Petrinace, e si è tentati di crederlo — è difficile, infatti, che un particolare del genere possa essere stato inventato. Inoltre, la falsa lettera cristiana (inclusa nel manoscritto dell’"Apologia" di Giustino) in cui si suppone che Marco abbia attribuito il Miracolo, in una lettera al popolo e al senato, alle preghiere dei soldati cristiani, localizza l’avvenimento "a Cotinum", in altre parole, fra i Cotini. Questo particolare, verosimile, suggerisce che ci si sia basati su un resoconto autentico. I Cotini, dopo il trattamento inflitto all’"ab epistulis" Paterno [il voltafaccia anti-romano, dopo aver promesso di combattere contro i Marcomanni], avrebbero meritato senz’altro una spedizione punitiva. Tuttavia, la citazione che Dione-Xifilino fa dei Quadi [anziché dei Marcomanni] non può essere liquidata come un errore. La conclusione dev’essere che, dopo la sconfitta dei Marcomanni, Marco si rivolse subito verso i Quadi che, come scrive Dione in un altro punto, "avevano ricevuto nelle loro terre alcuni Marcomanni in fuga che si trovavano in difficoltà mentre la loro tribù era ancora in guerra contro Roma".

Come si vede, la questione è alquanto ingarbugliata e, se uno storico coscienzioso ed equanime come il Birley, oltretutto fornito di una mentalità "archeologica", molto attenta ai dati concreti e alle fonti, sospende il giudizio, non saremo certo noi a pretendere di dipanarla. Ci basta aver mostrato che l’epitome di Xifilino ha avvalorato la versione cristiana del Miracolo della pioggia, ma che non l’ha affatto inventata, sovrapponendola, per bieco fanatismo religioso, a quella pagana; piuttosto, entrambe le tradizioni sono molto antiche, quasi contemporanee agli avvenimenti o di pochissimo posteriori. C’è una sola spiegazione possibile, in tali casi: ch’esse siano vere — non necessariamente le interpretazione dei fatti, ma le tradizioni in sé, tanto la pagana che la cristiana -, per il semplice motivo che una leggenda ha bisogno di molto tempo per svilupparsi e, soprattutto, ha bisogno di nascere a una certa distanza di tempo dagli eventi che l’hanno originata. Infatti, se fossero ancora in vita i contemporanei, gli eventuali testimoni potrebbero impugnarla e smentirne la veridicità. Del resto, proprio il fatto che esistano due tradizioni parallele, pagana e cristiana, della medesima leggenda, attesta che essa deve avere un fondo di verità: la leggenda, ripetiamo, e non il fatto che ne costituisce il nucleo. Gli antropologi, quando si trovano davanti a una credenza, non stanno a verificare se essa abbia una base storica o meno; in ogni caso, non è questa la loro preoccupazione principale, bensì quella di capire come e perché si nata, e di prendere atto che essa esiste ed esercita un influsso, maggiore o minore, sul modo di vivere di quelle popolazioni.

Tutto ciò non ci vieta, peraltro, di fare un passo avanti e di entrare proprio nel terreno minato di quel nucleo fattuale che avrebbe originato la credenza. I romani, sia pagani che cristiani, credevano che un loro esercito fosse stato salvato dalla distruzione, durante le guerre marcomanniche, da una pioggia provvidenziale, scesa su di esso mentre i soldati stavano morendo di sete, per l’intervento della divinità, quale risposta alle preghiere devote. Se vi erano dei romani che non credevano a questa storia, dovevano essere una minoranza; in linea di massima, comunque, pare che tutti fossero disposti a trovarla verosimile, anche se non per forza vera. In altre parole, nell’orizzonte concettuale e culturale dell’uomo antico, quindi anche del romano, vi era ampio spazio per credenze del genere; più ancora: vi era spazio per ritenere che non esiste un confine preciso fra la storia degli uomini, fatta dagli uomini e con mezzi puramente umani, e la sfera del divino, che può interferire con le vicende umane sia in seguito alle preghiere di qualche sacerdote o di qualche fedele (nel caso di Arnouphis, così si direbbe, di qualche mago), sia di propria iniziativa. Proprio come nel racconto della guerra di Troia dell’Iliade, dove gli dei intervengono al fianco dei rispettivi popoli ed eserciti, gli antichi erano disposti a credere che il soprannaturale si mescola alle vicende storiche e le guida, o le indirizza, o, in ogni caso, le influenza; e che gli uomini possono fare qualcosa, rivolgendosi agli dei, perché ciò accada, beninteso nel senso da loro desiderato. I romani erano particolarmente superstiziosi, se vogliamo chiamare tale credenza "superstizione", e l’avevano ricevuta, a loro volta, dagli etruschi. Sappiamo quale importanza riservassero agli oracoli dei Libri Sibillini; quali precauzioni prendessero i loro consoli e i loro condottieri, prima di attaccar battaglia, nel consultare prima i responsi celesti; sappiamo che ancora nel 410, durante l’assedio di Roma da parte dei Visigoti, il senato autorizzò dei sacerdoti etruschi a compiere certi riti magici per allontanare la minaccia dalla città. Del resto, la civiltà medievale ha ereditato da quella classica la credenza nel soprannaturale, perciò anche la convinzione che Dio può intervenire nelle vicende umane, non solo individuali, ma altresì collettive, secondo la sua volontà, ma anche in base alle preghiere dei santi: si tratta di una linea di pensiero che parte da La città di Dio di sant’Agostino e che arriva fino alle soglie dell’Umanesimo, passando per testi come la Legenda aurea di Jacopo da Varazze, ma anche come la Divina Commedia di Dante, per non parlare dei filosofi e dei teologi della Scolastica, e di tutti gli artisti che hanno concepito e decorato le cattedrali romaniche e gotiche, con le innumerevoli opere aventi per soggetto la storia sacra e il suo intreccio con quella profana. Anzi, per essere precisi, la storia per l’uomo medievale è tutta sacra, perché è tutta nelle mani di Dio; anche quella che gli uomini non percepiscono immediatamente come tale. Si pensi, tanto per fare un esempio fra mille, alla Cacciata dei diavoli da Arezzo, nel ciclo delle Storie di san Francesco dipinte da Giotto nella basilica superiore di Assisi: si tratta di un evento storico o soprannaturale? Per l’uomo medievale, questa domanda, posta in simili termini, non avrebbe avuto senso: l’evento dipinto da Giotto era sia storico che soprannaturale; non esisteva un confine netto tra le due dimensioni. In buona sostanza, sarà Machiavelli a recidere il legame tra il mondo della storia e quello del divino, facendo di quella il regno delle cose puramente umane, e ripristinando così, di fatto, quell’ateismo pratico che già si era manifestato con la filosofia epicurea: la divinità esiste, ma è come se non ci fosse, perché non interviene nelle vicende umane; ed è curioso, ma altamente significativo, che la cosiddetta "teologia negativa " del XX secolo, di un Bonhoeffer, per esempio, secondo la quale Dio vuole che l’uomo si comporti da cristiano "adulto", cioè che faccia come se Lui non ci fosse, sia approdata alle stesse conclusomi, sia pure muovendo da presupposti apparentemente diversi.

Ma allora, che cosa dovremmo pensare, noi moderni: che Dio abbia realmente mandato la pioggia sui soldati di Marco Aurelio, in quella landa desolata della odierna Slovacchia, mentre essi rischiavano di morir di sete o essere travolti dal nemico? Che abbia realmente ascoltato le preghiere degli uomini? Il lettore che ci abbia seguito fin qui, e che abbia seguito anche altre nostre precedenti riflessioni sul tema, non resterà del tutto sorpreso, crediamo, da una nostra riposta tendenzialmente affermativa. Sì: è possibile che ciò sia accaduto; non è detto che sia vero, ma possibile. Non solo: è doppiamente possibile. Primo, perché è possibile con la magia. Chi è vissuto in Africa, osservando da vicino la vita dei popoli tribali, sa che gli stregoni sono capaci di evocare fenomeni naturali come la pioggia: si tratta di tecniche, dopotutto, estremamente antiche, e che certo i sacerdoti egiziani si tramandavano da migliaia d’anni, quando Arnouphis fece la sua invocazione, nell’esercito romano circondato e assetato. Secondo, perché se la magia cerimoniale produce dei risultati, la fede religiosa ne può produrre di molto più grandi: ovviamente non la fede d’una religione qualsiasi, ma dell’unica vera. A Dio tutto è possibile, dice Gesù nel Vangelo; e chi Lo prega con fede assoluta, può ottenere che le montagne si spostino nel mare. Come potrebbe non ottenere un po’ di pioggia per delle persone che stanno morendo di sete? Ah, sì; dimenticavamo: tutto ciò non è moderno. Non si accorda con la mentalità scientifica, o meglio, con la moderna idea di scienza. Ebbene: tanto peggio per la scienza moderna. Non si deve mai dar torto ai fatti per amore d’una qualche ideologia; né sacrificare il verosimile a un’idea puramente astratta del "vero", forgiata sui pregiudizi scientisti.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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