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Se le donne tornassero a volersi bene

La donna che è appena entrata nel bar di periferia, è una italiana, non bella, ma a suo modo piacente, o almeno interessante, quella che si direbbe una donna di mezz’età: porta bene i suoi anni, che devono essere almeno una cinquantina: semmai qualcuno in più che in meno. Non è venuta per consumare qualcosa e non siede a un tavolino, ma va dritta al bancone per acquistare le sigarette. Si trattiene pochi secondi, giusto il tempo di ordinare la sua marca preferita, metterla nella  borsetta, pagare e uscire, con aria piuttosto indaffarata, come se avesse poco tempo a disposizione; eppure, in quei pochi secondi, ha attirato l’attenzione degli avventori, quasi tutti uomini venuti per fare colazione e dare un’occhiata al giornale, qualcuno già alle prese con il suo bicchiere di vino, benché siano appena le nove del mattino.

Bisogna dire che nessuno è stato così maleducato da fissarla in maniera sfacciata, o anche solo troppo insistente; anzi, quasi tutti hanno fatto finta di nulla e si sono perfino sforzati di guardare altrove, continuando a chiacchierare tranquillamente fra loro, come se nulla fosse. Difficile dire se si sia trattato di un residuo sentimento di cavalleria, di un riflesso istintivo dell’educazione ricevuta da bambini, o se il loro aplomb sia dovuto al fatto che la conoscono: sono quasi tutti clienti abituali, non gente di passaggio, e anche lei viene sempre qui a comprar le sigarette, dato che deve abitare nel quartiere. Comunque sono stati bravi quegli operai, quei camionisti, e anche quei pensionati, a non puntarle apertamente gli occhi addosso, perché la donna è un tipo che si fa notare; è un tipo che non passerebbe facilmente inosservata in nessun posto, e che, senza alcun dubbio, desidera essere notata. Perfino di questi tempi, nei quali il confine tra ciò che viene considerato normale e ciò che non lo è sta letteralmente evaporando, un tipo come lei riesce ad attirare l’attenzione, pur rimanendo al di qua, ma proprio per un capello, di ciò che resta di quel famoso confine. Abbiamo detto che non è bella: non è bella di viso, intendiamo, pur non essendo nemmeno brutta; è bionda, chissà se vera, e porta gli occhiali da vista, la montatura grande, appariscente. La statura è media, piuttosto alta che bassa, la figura è proporzionata, non magra, ma neanche troppo robusta: quanto basta per indossare un giaccone di lana color beige, di buon taglio, che sembra nuovo, e portarlo con una certa eleganza. Il giaccone le arriva appena sotto i fianchi; e appena sotto il giaccone spunta la gonna, o piuttosto la minigonna, stretta e di color marrone: vale a dire che la donna mostra le gambe quasi nude. Quando cammina, dà l’impressione che s’intravveda la biancheria intima; difficile immaginare cosa succederebbe qualora decida di sedersi, e dove andrebbero a rifugiarsi gli sguardi dei clienti. Anche se non accavallasse mai le gambe, ma rimanesse dritta e compita, con le ginocchia strette, come una collegiale d’altri tempi.

L’impressione complessiva è potenziata di molto dagli stivali marrone che indossa, in tinta con la gonna: alti, alla cowboy, con uno spacco arcuato che conferisce al tutto un’aria sbarazzina e quasi scherzosa — homo ludens, anzi femina ludens, direbbe Huizinga -; il tacco di misura media sa di praticità e di sportività, più che di eleganza pretenziosa: del resto gli stivali no, si vede che non sono nuovi, e neanche troppo lucidati. L’accoppiata minigonna-stivali risulta, più che stuzzicante, alquanto incongrua e quasi imbarazzante, perché è la tipica accoppiata che ci si aspetterebbe nell’abbigliamento di una liceale o di una donna molto giovane, non di una ultracinquantenne, la quale, nonostante il bel tailleur e i grandi occhiali, ha un viso da contadina più che da intellettuale — e ciò sia detto per rendere l’idea e senza la benché minima sfumatura di disprezzo verso le persone che vivono lavorando nell’agricoltura. Se gli occhiali potrebbero far pensare a un tipo un po’ pensoso, e l’ottimo soprabito a una donna dai gusti raffinati, la minigonna vertiginosa e gli stivali da cowboy sono molto "democratici", per non dire pacchiani, specialmente indossati da una donna che ha più di cinquant’anni e che pertanto, anche se probabilmente non ha un marito, potrebbe tuttavia benissimo essere nonna e aver dei nipotini.

Forse è proprio questa incongruenza, questa forte sfasatura fra l’età della donna e il suo modo di vestire, che ha fatto correre quell’impercettibile fremito d’imbarazzo negli avventori del locale; forse è per quello che nessuno le ha incollato gli occhi addosso, anche se le sue gambe, a dire il vero, sono belle, o comunque passabili, senza contare il fatto che è impossibile non notarle a causa di tutti quei decimetri di stoffa che mancano alla gonna. Ci si sente imbarazzati davanti a qualcosa che è troppo diversa da come dovrebbe essere, e per giunta che lascia intuire una sofferenza, una infelicità, uno squilibrio interiore: questa, almeno, è la chiave del sentimento del contrario, direbbe Pirandello, cioè dell’umorismo. Quella donna dovrebbe avere trent’anni di meno, per vestire così, oppure dovrebbe coprirsi un poco: questo è ciò che devono aver pensato, d’istinto, tutti quegli uomini, che pure non hanno l’aria di essere degli stinchi di santi, e neppure dei gentiluomini, come si diceva un tempo. Se non l’hanno guardata, se non si sono mangiati con gli occhi lo spettacolo di quelle gambe nude fin sopra le cosce, è perché si sono sentiti a disagio, hanno avuto la sensazione che qualcosa non andava, che qualcosa rovinava la festa.

Gli uomini, in genere, non si fanno pregare per guardare una donna piacente; se poi quella donna metta in evidenza le proprie grazie, si fanno ancor meno riguardi. E una donna che si mettesse in mostra con tanta generosità, e non riuscisse a strappar loro neppure un’occhiata di desiderio, si sentirebbe — checché ne dicano, indignate, le femministe, le quali hanno orrore della donna-oggetto, ma solo se a vederla come tale è il maschio, non se ella stessa vuole così — rifiutata e svalutata e disprezzata; di più: si sentirebbe insopportabilmente ferita e umiliata. Pertanto, si può dire che esiste un accordo, in natura, fra il desiderio dell’uomo di sentirsi cacciatore e quello della donna di sentirsi preda, perché essere preda vuol dire esser desiderata, ed esser desiderata vuol dire aver un posto nel mondo, avere un significato e coltivare la stima di sé; poco importa se si tratta d’una stima mal riposta e d’un significato fasullo. Chi non è capace di coltivare il proprio essere, coltiva il proprio apparire: e il desiderio nello sguardo altrui è la conferma che si è desiderabili, dunque che si esiste. Gli uomini mi desiderano, dunque sono, potrebbe dire la nostra sconosciuta, parafrasando Cartesio.

Però, c’è qualcosa che non torna. Qui abbiamo una donna che vuol essere guardata, che vuole attirar el’attenzione, e che lo fa puntando sulla sola cosa bella che possieda fisicamente: le gambe, che non sembrano quelle di una donna in età, ma che hanno conservato una certa freschezza. Eppure, benché le sue gambe siano, effettivamente, guardabili, e forse anche desiderabili, la gente non le guarda le gambe, e tanto meno guarda lei Un senso di gelo s’interpone fra lei e gli altri, la isola, come una barriera invisibile, e la rende una estranea, quasi una lebbrosa. Tutto ciò è peggio che imbarazzante: è patetico, e persino un po’ drammatico. Fa venire in mente uno che abbia la passione del canto e che si metta a cantare sempre a voce spiegata, ma davanti al quale tutti si allontanano, perché trovano il suo canto stonato e fastidioso; ma lui, imperterrito, continua a cantare. Possibile che non si accorga che gli altri scappano, pur di non sentirlo? Possibile che la nostra sconosciuta non si accorga che gli altri guardano altrove, quando entra lei nel locale? Possibile che non si accorga che, se pure qualcuno la guarda, le guarda solamente le gambe, ma le guarda per un istinto animale, così come si è costretti a guardare ciò che ci si para davanti, ma senza provare alcuna gioia? Questa è la cosa più misteriosa: se il suo scopo è quello di farsi ammirare, è evidente che non ci riesce, o, se ci riesce, gli altri la guardano in un una maniera molto diversa da quella che lei vorrebbe. La guardano cin istinto animalesco, ma senza rendere omaggio alla sua femminilità;: la guardano come si guarda una cavalla, come si guarda una bella bistecca, un oggetto del desiderio, ma praticamente senza vedere lei come essere umano.

La cosa è paradossale. Lei vorrebbe attirare l’attenzione su di sé, e ci riesce, ma non è l’attenzione che qualsiasi donna, per quanto di animo rozzo e grossolano, potrebbe mai desiderare; non è l’attenzione di chi viene costretto a rendere omaggio a qualcosa di bello: è l’attenzione vagamente disgustata di chi viene provocato a guardare, e guarda, ma con un segreto disprezzo, con un’intima e invincibile disapprovazione. In altre parole, la poveretta riesce ad attirare l’attenzione su di sé, ma al prezzo di essere silenziosamente disprezzata: un prezzo esorbitante, anche per la donna meno sensibile di questo mondo. Non sono sguardi di ammirazione, sono sguardi di disprezzo quelli che ella attira; oppure, peggio ancora, sono sguardi che si volgono altrove, per non vedere. Sono sguardi che paiono dire: Di questo spettacolo avremmo fatto volentieri a meno. Deve essere semplicemente terribile: come quando, magari in un brutto sogno, un attore si presenta sul palcoscenico e il pubblico gira la testa dall’altra parte per non dover neanche vederlo. È un paragone appropriato: l’attore desidera gli sguardi del pubblico, la sua ammirazione; desidera sentirsi importante, veder riconosciuta la propria bravura: e anche la donna, senza dubbio, ha un bisogno vitale, disperato, di essere ammirata, approvata. Pure, dovrebbe essere cieca per non accorgersi che l’effetto del suo modo di porsi è esattamene l’opposto di quello che qualsiasi donna, al suo posto, riterrebbe gratificante. Allora perché insiste? Perché la si vede sempre andare per la strada, entrare nei bar, vestita più o meno allo stesso modo: con delle minigonne vertiginose e gli stivali provocanti. Quasi due metà diverse nella stessa persona: signora dalla vita in su, prostituta dalla vita in giù. Perché, è inutile nasconderselo, questo è lo stile inconfondibile delle donne di strada: se andasse abbigliata così sulla statale, le macchine si fermerebbero e il finestrino si abbasserebbe. Ma si dà il caso che non sia una prostituta, e forse non cerca nemmeno delle facili avventure: non la si vede mai in compagnia di un uomo; e neppure di una donna, se è per questo. La si vede sempre sola come un cane; stavamo per dire: come una cagna, ma qualcosa ci ha trattenuti. Un senso di compassione, di pietà: perché infierire su una persona che si vuole così poco bene?

Ecco: questo è il punto. Anche se sembra perfettamente padrona di sé, anche se non appare visibilmente disturbata, quella donna appartiene alla larghissima schiera degli infelici che non si vogliono bene, e che si vanno a cacciare sistematicamente in situazioni nelle quali il loro ego subisce schiaffi e umiliazioni, laddove esse vorrebbero attenzione e apprezzamento. La cosa è tutt’altro che comica: è tragica. Ed è una schiera formata più da donne che da uomini; inoltre, è una schiera relativamente recente. Donne così, che vorrebbero essere ammirate ma si rendono ridicole, o sgradevoli, o patetiche, perché non accettano il fatto d’invecchiare, e vogliono ostinarsi a fare le eterne ragazzine, ce ne sono sempre state: ma negli ultimi anni il loro numero è raddoppiato, triplicato, quadruplicato. È la donna l’anello debole della catena, in questa società impazzita della tarda modernità; è la donna che vaga fuori controllo, facendosi del male, perché ha smarrito la sua identità e non è riuscita a costruirsene una nuova. In un tempo non lontano, diciamo una ventina o una trentina d’anni fa, una donna come questa avrebbe trovato le sue soddisfazioni nella cura della casa, del marito (se l’aveva) e dei nipoti; si sarebbe occupata del giardino, della cucina, di cucire i vestiti; sarebbe stata in casa, o sarebbe andata in parrocchia, o avrebbe frequentato un paio di amiche fidate; oppure si sarebbe iscritta a qualche gruppo, a qualche associazione, avrebbe fatto delle gite turistiche, magari un po’ di palestra. Ora se ne va in giro, sola come un cane, raffinata e volgarotta, senza pace, come un’anima in pena: compra le sigarette, poi va in un altro bar, più centrale, a fare colazione, sempre sola; poi sparisce fino al giorno dopo. Difficile che sia già in pensione; e allora, di che vive? E con che cosa riempie la sua vita?

Ciò che colpisce di più è il contrasto stridente fra il suo desiderio evidente d’essere ammirata e la reazione degli altri, che girano lo sguardo per non vederla. Deve essere un castigo terribile cercare l’attenzione altrui e ritrovarsi ad essere pressoché invisibile. C’è una sola spiegazione possibile a una contraddizione così lampante: il disamore di sé. Non solo quella donna non deve volersi bene, ma deve volersi proprio male. Fa in modo di procurarsi altre ferite, altre umiliazioni; e non cambia mai strategia. Si è chiusa da se stessa nel cerchio stregato della reiterazione dei propri comportamenti autolesionistici. Non è affatto pazza, ma si comporta come se lo fosse: proprio come fanno milioni di persone, sia maschi che femmine; anche se — ripetiamo — più femmine che maschi. Se la donna rientrasse un po’in se stessa, ricomincerebbe anche a volersi bene; e una persona che si vuol bene, ma nella maniera giusta, diventa per ciò stesso desiderabile. Noi troviamo scostanti e spiacevoli quelle persone, magari anche belle, dalle quali traspare il disamore e il disprezzo di sé: nessuno può amare colui, o colei, che non si vuole neanche un po’ di bene. C’è una gran differenza tra il bramare disperatamente l’attenzione e il desiderio altrui, e il volersi bene. Cercare di rendersi attraenti non equivale affatto a star bene con se stessi; e solo chi ha raggiunto un equilibrio interiore emana un qualcosa che lo rende amabile. Perciò, gira e rigira, si arriva sempre alla stessa conclusione: per vivere bene, bisogna vivere come si deve. E ciò accade quando si scopre il Bene…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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