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A che fine si viene al modo? E a che scopo si vuol dare un’istruzione, e, attraverso l’istruzione, una educazione, ai bambini ed ai giovani? Se non ci si è mai posti queste due semplici domande, forse è meglio rinunciare a far gli educatori e cercarsi un altro mestiere o un’altra occupazione. Non si dovrebbe fare né i maestri, né i professori, e tanto meno i genitori: perché i primi educatori in assoluto sono i genitori.
Se non si crede che la vita abbia un fine e che l’educazione abbia uno scopo; se non si crede che la vita ci fornisca i mezzi per realizzare felicemente il suo fine, e che l’educazione ci fornisca gli strumenti per realizzare, altrettanto felicemente, il suo scopo, non si è degni di fare gli educatori, e a stento si è degni di vivere ancora da uomini e non da bruti.
Il problema dell’educazione, oggi, è, in primissimo luogo, il problema degli educatori. Ci sono troppi educatori per caso (e ciò vale sia per gli insegnanti, sia per gli stessi genitori), e troppi educatori che non dirigono la loro azione verso alcuno scopo, se non quello di tirare a campare, loro e i loro allievi (o figli). Troppo poco. Con siffatti educatori e con siffatti obiettivi, o piuttosto mancanza di obiettivi, non si costruisce nulla; tanto meno un progetto educativo. E questa è la ragione fondamentale per cui manca del tutto, oggi, un progetto educativo, anche se i progetti didattici si sprecano addirittura, e anche se le riviste specializzate e le aule per conferenze sono piene zeppe di sedicenti esperti di educazione. Quale progetto educativo potrebbe mai esserci, se gli educatori non sanno che ci stanno a fare dietro la cattedra (o anche in mezzo ai banchi: il punto non è questo, don Milani & C. ci perdonino), e se non hanno alcuna fede nella necessità e nell’efficacia dell’educazione educativa, né nella vita stessa? In simili condizioni, i bambini possono venire ammaestrati: ammaestrati a leggere, a scrivere, alla lingua inglese, alla matematica, all’informatica, in maniera, in fondo, non troppo dissimile — quanto agli obiettivi — a quella con cui si addestrano i cani, o i cavalli, o gli orsi del circo. Senza offesa per nessuno (e specialmente per i cani, i cavalli, gli orsi e i loro rispettivi addestratori). Ma educare è un’altra cosa.
Educare significa trasmettere non solo tecniche di apprendimento e contenuti didattici specifici, ma anche, contemporaneamente, trasmettere valori, a cominciare dall’amore per il sapere, e dalla consapevolezza della dignità della vita. E tali cose non basta dirle ai bambini e ai ragazzi, bisogna viverle, altrimenti non si conferisce ad esse la minima credibilità. In altre parole: se c’è una professione, al mondo, nella quale è impossibile bluffare, e spacciarsi per quel che non si è, quella è l’insegnamento. Un insegnante disamorato della vita, e scettico sull’efficacia e sull’utilità della sua stessa azione educativa, è un insegnante fallito: farebbe meglio a cambiar mestiere, perché la sua presenza, a scuola, è di danno ai discenti. E questo discorso vale a fortiori per i genitori, i quali, come abbiamo detto, sono i primi educatori del bambino. Dei genitori che non credono nella vita e che non credono di avere qualcosa da trasmettere ai loro figli, qualcosa di essenziale e d’insostituibile, non son degni di essere genitori: lo sono diventati per sbaglio, ma lo sono solo in senso anagrafico e statistico.
Un pedagogista contemporaneo che si è specialmente interessato a questo aspetto, preliminare ma indispensabile, dell’azione educativa, è stato il barnabita Domenico Bassi (Piancastagnaio, Siena, 1875-Firenze, 1940), che fu un oppositore del naturalismo pedagogico in nome di un’educazione cristianamente ispirata e orientata; una interessante e validissima figura di sacerdote e di studioso, del quale ci ripromettiamo di tornare occuparci altra volta, e più a lungo.
Scriveva, dunque, il padre Bassi nel suo libro Il Maestro e i maestri (Roma, Associazione Cattolica Italiana, 1939, pp. 224-226; 227-228):
NECESSITÀ DI UNA FEDE. Bisogna combattere lo SCETTICISMO che non prende sul serio la vita, e piglia sul serio l’egoismo; che non crede al dovere, ma crede all’interesse; che in fondo non intende servire gli altri, ma servirsi degli altri; non essere utile, quanto rendersi utili gli uomini. E prima di tutto: com’è possibile che c’interessiamo a formare gli altri secondo un ARCHETIPO od ideale a cui dobbiamo avvicinarli, se noi stessi non ci propiniamo questo archetipo; non abbiamo questo ideale che determina ogni nostra azione, regola la nostra vita e le impone il sacrificio di tutto ciò che lo contraria, ed il possesso con ogni sacrificio di tutto ciò che è indispensabile per attuarlo? È possibile spronare gli altri ad una meta che non è la nostra, ottenere dagli altri quello che non otteniamo da noi? Le contraddizioni e le stranezze degli uomini sono tante; ma ve n’è una che le supera tutte. Noi talvolta ci guardiamo bene di fare ciò che raccomandiamo agli altri; FACCIAMO LA PARTE di virtuosi, a parole, anche con l’intento che altri vi abbocchi… O non è necessario che altri pigli sul serio la generosità, il disinteresse, la virtù, perché noi posiamo con maggiore probabilità far ei nostri affari, e il nostro egoismo trovi pane per saziarsi? Padri e madri, che raccomandano ai figli e alle figlie ciò che non fanno, ed a cui è rimasta lì ipocrisia del bene per essere meno disturbati nelle loro voglie!
LA VITA NON È UNA PARTE DA RAPPRESENTARE. Ho detto "facciamo la parte". Fare una parte, o la parte, non implica che noi siamo in realtà quello che rappresentiamo. Possiamo essere degli scettici e fare la pare di virtuosi; essere avari e fare la parte dei prodighi; in una parola assumere atteggiamenti che non sono la nostra vocazione, perché necessità di vita – necessità finanziarie — ce lo impongono; e perché un posto qualsiasi di lavoro è necessario occuparlo. E noi l’abbiamo occupato non per compiere un dovere, ma per disimpegnare una parte. Siamo nel gioco, nella commedia. Terribile questo scetticismo religioso e morale che ci getta nella più profonda solitudine; che crea dentro di noi un vuoto che le vane e multiple agitazioni cercano inutilmente colmare.
SCETTICISMO NEL POTERE EDUCATIVO DELLA SCUOLA. Ma v’è un secondo scetticismo che ingenera scoraggiamento, e nasce dalla convinzione che l’educazione non fa nulla e non riesce a nulla; fa consumare le energie migliori, senza compensare con adeguati risultati. Qui non si tratta di vuoto interno, ma di fatalità di cose; la famiglia, la società rovinano tutto ciò che possiamo fare. Di fronte ad una impresa esigua di ricostruzione ci troviamo ad urtare con forze formidabili devastatrici. C’è la persuasione che ciascuno nasca con il suo destino contro il quale è inutile reagire… Fiori gentili spuntano tra i roveti, e nelle aiuole più coltivate e curate nascono erbacce. In ambienti viziosi, trascurati si ammirano tesori di bontà; in famiglie buone, costumate, vigilanti fermentano germi di corruzione. Ed allora che fare? Il ragazzo, che sa di non sapere fare il compito, lo tira giù o non lo fa per nulla. Se noi in antecedenza svalutiamo il nostro lavoro, come sarà fatto? È facile comprenderlo. Il lavoro è un gesto, una parte che facciamo; i risultati sono indicati, veduti come cose dipinte, come sogni, come fantasmi che ci passano innanzi per accogliere con sorriso ironico ed amaro la nostra azione. Sia con lo scetticismo morale e religioso; sia con lo scetticismo con l’inutilità dell’opera, si paralizza ogni attività educatrice e ci si riduce a fare delle manovre e non altro. Pochi raggiungeranno i limiti estremi di questo duplice scetticismo; ma tutti più o meno possiamo esserne infetti. Il primo passo per intonarci al nostro compito dovrà essere la fede nella finalità della vita, e la fede nella utilità della nostra opera per creare quello stato d’entusiasmo, per formare quella temperatura di calore che attiva le nostre energie. […]
L’ISTRUZIONE È UN MEZZO PER IL FINE DELLA VITA. Se l’istruzione si prefigge di attrezzarmi, non devo domandare a che dirigerò la mia attrezzatura? Se l’istruzione mi mette in mano un’arma, non mi domanderò a che cosa servirà quest’arma? Se l’istruzione, rendendomi capace di una data carriera e professione, mi aiuta a vivere, mi dà i mezzi per la vita, non sarà naturale che poi mi domandi: perché vivo? Rispondere: vivo per vivere, è lo stesso che dire la vita non ha nessuna finalità, non c’è la ragione di vivere. Vivo per vivere è lo stesso che dire faccio una veste per fare una veste, edifico una casa per edificare una casa; ma la veste non è per nessuno, la casa non è costruita per essere un’abitazione. Vivere è un gioco, un divertimento più o meno piacevole; se pure non è, come purtroppo lo è per molti, una marcia penosa, tormentosa, seminata di spine, cosparsa di lacrime. Comprendete benissimo che se c’è una ragione di vivere, questa importa di più dei mezzi; o meglio i mezzi avranno la loro importanza, perché ci permetteranno di attuare tale ragione. Insegnare a leggere e scrivere, insegnare il calcolo, dare cognizioni storiche fare conoscere la nostra nazione e la nostra terra, non è un segnalare lo scopo della vita od insegnare a vivere; salvo se di tutto questo noi ci serviamo per illustrare le ragioni della vita e l’indirizziamo ad aiutarci per assolverne il compito più e meglio. Io ho privato il bambino dell’elemento vitale e sostanziale, se tutto gli ho insegnato, ma non lo ho illuminato sulle ragioni della vita; se a tutto lo ho diligentemente preparato, ma non lo ho preparato a saper vivere come si deve.
Come si vede e si capisce, Domenico Bassi ha sempre in mente tre grandi figure di educatori, al cui insegnamento e al cui modello costantemente si ispira. Uno è sant’Agostino, l’altro è Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719), il grande educatore della gioventù povera di Francia; il terzo è il Maestro per antonomasia, l’unico che si deve scrivere con la lettera maiuscola, come si evince anche dal titolo del suo libro. Gesù è sempre al centro della riflessione pedagogica di padre Bassi; e poiché il cuore del Vangelo è l’amore di carità, tale è anche la prospettiva educativa del Nostro. Se non c’è amore, non c’è educazione: questo è il punto. Del resto, padre Bassi non è stato solamente un teorico; non è stato affatto un "pedagogista" alla Rousseau, uno che scriveva pretenziosi trattati teorici sull’educazione e poi metteva i suoi stessi figli all’orfanotrofio. Padre Bassi si era formato come educatore "sul campo". Era stato professore di latino e greco al liceo Le Querce di Firenze; poi era stato aiuto cappellano militare all’ospedale della Croce Rossa di Firenze, durante la Prima guerra mondiale; infine era stato rettore dello stesso liceo Le Querce e, per quasi dieci anni, membro del Consiglio superiore della Pubblica istruzione. La sua formula educativa si può riassumere in questi termini: autorità del maestro e libertà del discepolo: l’una insieme all’altra, l’una in relazione all’altra. Il maestro non può essere autorevole se il discepolo non è libero; ma la libertà del discepolo consiste nel riconoscere l’autorità del maestro e nel lasciarsi guidare da lui. La molla che fa scattare la relazione virtuosa fra uno e l’altro, e che vivifica il rapporto educativo, è, ancora e sempre, l’amore. Senza amore non si fa scuola; senza amore non si prepara alcuno alla vita; senza amore non si costruisce nulla di solido, né di durevole.
Accanto al concetto-chiave dell’amore – che parrebbe così semplice e quasi scontato, mentre non lo è affatto, e basta dare un’occhiata in giro, sia nelle scuole che nelle famiglie, per rendersene pienamente conto — l’altro concetto fondamentale della pedagogia di don Bassi è ciò che potremmo chiamare la serietà e, allo stesso tempo, la bellezza della vita. Pochi altri autori di argomento pedagogico hanno sentito con altrettanta forza la bellezza e la poesia della vita, e, nello stesso tempo, la sua profonda, estrema serietà, così come può sentirla un cristiano che tiene costantemente lo sguardo rivolto verso il Redentore degli uomini, crocifisso come un malfattore per amor loro. Eppure, il suo essere cattolico, il suo essere prete, non intralcia, non appesantisce il suo discorso come educatore: osiamo pensare che pochi altri autori sono così universali, quando parlano del maestro e dell’educazione, così schietti, così immediati, così veri e convincenti, quanto lo è lui, che pure non parte da una prospettiva laica e neutrale, e che non guarda alla vita come al luogo di una libertà umana incondizionata, ove ciascuno si forgia i propri ideali. Eppure, don Bassi sa vedere i fermenti di verità presenti in qualsiasi ambito: quando si confronta con autori latini come Seneca e Quintiliano, per esempio, o con autori greci come Plutarco, egli sa riconoscere e valorizzare in essi quelle doti di umanità, di saggezza, di bontà naturale, che sono comunque validi anche per un educatore cristiano, benché si tratti di scrittori pagani. Questo per dire che nell’atteggiamento spirituale e intellettuale di padre Bassi non vi è nulla di chiuso, di angusto, di bigotto, ma, al contrario, nei suoi scritti si respira una religiosità straordinariamente fresca e sincera, senza ombra di forzatura o di affettazione. Le sue pagine hanno l’entusiasmo e l’accento di verità di quelle d’un altro insigne sacerdote ed educatore vissuto in Toscana, Raffaello Lambruschini (1788-1873).
Fra parentesi, padre Bassi è stato uno di quegli italiani e di quei sacerdoti che hanno valutato positivamente il fenomeno fascista e vi hanno aderito, senza eccessi e senza enfasi, conservando, da buon cattolico, il senso di una differenza tra la sfera della vita politica e quella della vita religiosa e morale, ma anche sapendo vedere – cosa che dopo il 1943, retroattivamente, si è voluta negare, anzi, far sparire addirittura – una certa quale compatibilità di fondo tra il progetto "pedagogico" del fascismo, quello di fare gli italiani, e quello della Chiesa cattolica, cioè di fare dei buoni cristiani che fossero anche dei buoni italiani. Nessuno scandalo, in questo, checché ne dica la vulgata resistenziale e pseudo democratica instauratasi nella repubblica di Pulcinella a partire dal 1946, e rimasta poi sempre seduta in cattedra nella società e nella cultura italiane. Sarà per questo che i preti di sinistra, come don Primo Mazzolari, che non solo partecipò alla cosiddetta Resistenza, ma incitò anche i giovani a parteciparvi, cioè a macchiarsi le mani di sangue fraterno in una atroce guerra civile, sono ancora oggi ricordati con squilli di tromba e rullo di tamburi, come degli eroi, dei profeti e dei veri cristiani (Giovanni XXIII lo chiamò la "tromba dello Spirito Santo" in terra mantovana); mentre sui sacerdoti come don Domenico Bassi, che vivessero nel nascondimento e insegnarono, anche come teorici dell’educazione, le virtù del silenzio, della contemplazione, della dolcezza, dell’obbedienza, della discrezione, nell’umiltà e della prudenza, ma che ebbero il torto imperdonabile di schierarsi dalla parte "sbagliata" della barricata ideologica negli anni Venti e Trenta (che furono gli anni decisivi per la sopravvivenza dell’Italia come Stato libero e sovrano, dopo i quali l’Italia è finita, come scriveva Giuseppe Prezzolini, e poco ne è rimasto, anche se gli intellettuali di sinistra hanno fatto finta di non accorgersene), è stata stesa un’ingiusta e ipocrita cortina di silenzio?
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