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2 Aprile 2017
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2 Aprile 2017Un tempo, la domanda che tormentava gli storici della tarda antichità era: di che cosa è morto l’Impero romano? Gibbon diceva: lo hanno travolto i barbari e la religione cristiana. Questa "risposta", la risposta dell’illuminismo, ha dominato a lungo nella pubblicistica e anche nelle aule universitarie, ma, a un certo punto, è apparso evidente a tutti, perfino ai più accaniti intellettuali anticristiani, che erano insoddisfacente. Era incompleta: in particolare, non teneva alcun conto della crisi monetaria, dei fattori economici, delle trasformazioni sociali. Del resto, anche il concetto di "invasioni barbariche" si è gradualmente modificato, ed è stato in sostanza sostituito da quello, elaborato dagli storci tedeschi, di Völkerwanderung, "migrazione di popoli". Il cristianesimo, poi, non aveva minato le basi sociali dell’economia schiavista, perché quelle basi erano già franate; Ettore Ciccotti ha evidenziato che l’abbandono della schiavitù e il passaggio alla servitù della gleba è stato, sì, accompagnato dalla nuova mentalità "democratica" introdotta dal cristianesimo, ma sostanzialmente determinato da fattori economici che erano già in atto per conto proprio, e che i grandi proprietari stavano gestendo autonomamente.
Un po’ alla volta, la vecchia domanda di che cosa è morto l’Impero romano? ha smesso di appassionare gli storici, ed è stata sostituita dalla domanda: quali fattori hanno determinato la fine del mondo antico? Laddove, come si vede, il concetto di "mondo antico" è molto più ampio (e non solo in senso geografico) di quello di Impero romano, e il concetto di fine è più ampio, più sfumato, più complesso e problematico di quello di morte. La morte è un evento, la fine è un processo: un processo che parte assai da lontano. Bisognava capire da quanto lontano; fin dove si doveva arretrare per cogliere l’inizio del processo dissolutivo. Ma anche questo era un interrogativo mal posto. Alcuni storici, come Peter Brown e Santo Mazzarino, partendo da approcci diversi, hanno elaborato una nuova prospettiva da cui porre il problema: infatti hanno compreso che il mondo antico non è finito, ma si è trasformato. A questa "scoperta" si è giunti facendo della tarda antichità un concetto storiografico autonomo. Il tardo antico non era, semplicemente, il periodo terminale dell’antichità, come il corpo di un malato in agonia; e non era neppure, soltanto, la sua degenerazione, la sua nemesi; bensì una categoria a sé stante, e, forse, la definizione di un particolare tipo di civiltà; certo, di un particolare momento storico, che non poteva essere valutato unicamente confrontandolo con la "piena" antichità, ossia con l’antichità "classica". Altrimenti, si sarebbe caduti nella stessa miopia con cui gli umanisti, e poi tutti gli intellettuali venuti nei secoli successivi (con poche, geniali eccezioni, come G. B. Vico), avevano "liquidato" come una specie di errore, di ritardo, di aberrazione, i dieci secoli che vanno dalla fine dell’Impero Romano d’Occidente alla scoperta dell’America: medio evo, "età di mezzo". Alla categoria storiografica del tardo antico si è giunti soprattutto per merito degli storici dell’arte, che lo hanno riconosciuto e definito nelle plastiche e figurative dei secoli dal III al VII dopo Cristo: un arco di tempo notevolissimo, quindi, nel corso del quale l’architettura, la scultura, la pittura, non mostrano semplicemente segni di "involuzione" rispetto al’arte classica, ma anche la tendenza a cercare, e talvolta a realizzare, delle soluzioni originali, delle forme e degli stili sempre più autonomi, che preparano la "svolta" della civiltà medievale.
Ora, se il tardo antico era stato un momento storico ricco di fermenti, e non solo un periodo di decadenza e agonia della civiltà, esso non era "finito", perché le civiltà non "finiscono" mai in senso assoluto (neppure quando vengono colpite da una catastrofe repentina, come quella che si abbatté sulle civiltà precolombiane dell’America all’arrivo dei conquistadores), bensì era "evoluto", si era "trasformato" e aveva gettato le premesse per una civiltà nuova, quella cristiano-germanica dell’Europa medievale. E allora la domanda che cominciarono a porsi gli stoici, in anni a noi più recenti, è stata, sempre più spesso: come è avvenuto questo trapasso dal mondo antico al mondo medievale, e perché? E, in particolare, si è affacciata la sotto-domanda (posta in maniera esplicita da Santo Mazzarino): si può parlare di una rivoluzione sociale, per la tarda antichità? E una sotto, sotto domanda, si può formulare in questi termini: vi è stata una convergenza, una sorta di "alleanza", sia pure indiretta, fra la barbarie "esterna" – i popoli germanici e iranici migranti dalle steppe orientali verso il Reno e il Danubio, ed oltre – e la barbarie "interna" , formata dagli schiavi e sopratutto dai popoli pre-romani le cui società non erano state del tutto assimilate dalla civiltà romana, come accadde in vaste regioni interne delle Gallie, della Penisola Iberica, dell’Africa settentrionale, e nella Britannia?
A questa domandagli storici hanno dato risposte diverse. Non vi è accordo, anche perché la documentazione è particolarmente incerta e confusa: in pratica, questo è uno di quei classici casi nei quali la curiosità degli storici non può essere appagata convenientemente dai dati di fatto in loro possesso, e gli interrogativi continuano a tormentare il loro desiderio di sapere. Come dice il gran padre Dante (Purgatorio, III, 40-42): E disiar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe loro disio quetato, / ch’etternalmente è dato lor per lutto. Lo storico Vito Antonio Sirago, nel suo libro Galla Placidia e la trasformazione politica dell’Occidente, un grosso volume di oltre 550 pagine, pubblicato nel 1961, sostiene che vi fu, effettivamente, una sorta di collaborazione fra i laeti, ossia i Germani che si insediavano nelle province di confine dell’Impero, con l’autorizzazione delle autorità romane, in cambio dell’impegno di fornire contingenti armati per l’esercito, e le popolazioni scarsamente romanizzate delle regioni più interne dell’Occidente, presso le quali erano sorti dei movimenti endemici di rivolta sociale, come nel caso dei Bagaudi della Gallia occidentale (sono, lo notiamo di sfuggita, le stesse terre e le stesse popolazioni che conosceranno le jacqueries del XIV secolo e la ribellione anti-repubblicana del 1793), o in quello dei donatisti, prima, e poi dei circumcellioni, nell’Africa settentrionale, questi ultimi caratterizzati molto più in senso religioso (ma bisognerebbe vedere quanto la religione fosse una specie di maschera per l’espressione di un malessere di tipo sociale ed economico; cosa che vale, del resto, per tutti i movimenti ereticali della tarda antichità e del medioevo, e anche per l’adesione dei barbari Germani all’eresia ariana, invece che al cattolicesimo ortodosso praticato dalle popolazioni latinizzate).
Lucien Musset non è assolutamente d’accordo con questa tesi, che definisce aberrante e del tutto campata per aria, e che, afferma, non merita neppure di essere confutata. Al di là delle dispute fra accademici, talvolta un po’ velenosette, resta il fatto che è difficile trovare, nelle scarse fonti di questo periodo – vite di santi o libelli di sacerdoti un po’ millenaristi, come Salviano da Marsiglia – un appiglio alla tesi di Sirago. I barbari che si insediarono nell’Impero romano, quando la fase iniziale delle incursioni e delle invasioni si fu un po’ placata, non chiedevano altro che di assestarsi nella cornice socio-politica di esso; furono la sua anemia, la sua sempre più grave debolezza, che li costrinsero, quasi, ad agire in maniera via, via, più autonoma, e infine a dar vita a dei veri e propri regni, nei quali, peraltro, la popolazione romanizzata restava separata da essi, giuridicamente e culturalmente, quanto la luna dista dalla terra. Con qualche rara eccezione, la distanza fra le due civiltà era troppo grande e le ragioni di scontento erano troppo diverse: i barbari provavano un certo qual rispetto per la civiltà di Roma, della quale, a un certo momento, ritennero di esser divenuti i legittimi eredi (vedi la politica di Teodosio in Italia dopo la fondazione del regno ostrogoto), mentre i Bagaudi e gli altri gruppi, o popolazioni, ribelli, non desideravano altro che di sottrarsi a quella civiltà, che essi odiavano, e che desideravano, semmai, veder distrutta. Paradossalmente, delle due componenti barbariche, quelle esterna e quella interna, fu la seconda, che, se pure diede il colpo di grazia all’autorità politica degli imperatori d’Occidente, si fece carico di tramandarne la civiltà, affiancata, in questo, e sia pure in maniera del tutto indipendente, dall’opera vigorosa della Chiesa cattolica, e specialmente dal movimento monastico; mentre quella interna risultò "inutilizzabile" ai fini della sopravvivenza di quella civiltà e, alla fine, sterile e inconcludente, tanto è vero che, a partire dal 460 circa, cioè ancor prima della fine politica dell’Impero, i Bagaudi cessano di far parlare di sé, come se fossero scomparsi.
Vale la pena di prendere atto delle riflessioni svolte in proposito dal già citato storico francese René Musset (Rennes, 26 agosto 1922-Caen, 15 dicembre 2004) nella sua celebre monografia Le invasioni barbariche. Le ondate germaniche (titolo originale: Les invasions: les vagues germaniques, Presses Universitaires de France, 1955; traduzione di Giulio Ricchezza, Milano, Ugo Mursia Editore, 1989, pp. 219-221):
Ogniqualvolta si verificano delle invasioni, si pone un medesimo problema: in qual misura il nemico esterno ha potuto trovare delle complicità, più o meno consapevoli, all’interno? Le classi sociali oppresse non hanno per caso approfittato della situazione per prendersi la loro rivincita? Degli elementi infidi non hanno sfruttato il disordine a proprio beneficio? E come si fa ad assegnare agli uni o agli altri — invasori e no – la responsabilità delle rovine?
L’ampiezza dei movimenti sociali che interessa l’Occidente latino nel V secolo è semplicemente impressionante. Mettono a soqquadro tutte le regioni e in particolar modo la Bretagna, la Gallia occidentale, la Spagna settentrionale e i territori africani. È difficile esprimersi su di essi data la laconicità delle fonti e la mancanza di obiettività.
È certo che vi dovette essere prima di tutto un enorme estendersi del brigantaggio, flagello che si aggravò dopo ogni calata dei barbari. A partire dalla fine del IV secolo i codici riportano innumerevoli leggi, durissime contro i briganti e i loro complici. Nonostante l’atmosfera di diffidenza del Basso Impero i civili vennero autorizzati per due volte, nel 391 e nel 403, a dar a caccia, armi in ugno, ai "latrones publici". Questi ultimi si erano organizzati in vere corporazioni, comprando dei ragazzi per insegnar loro il mestiere (occorse proibirlo nel 409 e nel 451) e avevano loro reti di ricettazione per i proventi dei furti. Trasformarsi in un brigante era la risorsa più immediata per chiunque si trovasse sul lastrico, fosse minacciato o volesse più semplicemente fare una rapida carriera.
A un livello superiore si collocavano quei misteriosi ribelli africani, delle persone che certo bazzicavano nelle cantine. Il loro caso è complesso: disoccupazione agricola e miseria. Da una pare, fanatismo religioso di stampo donatista dall’altra, spiegano le violente reazioni di queste bande berbere. Esse hanno contribuito a distruggere l’ordinamento romano in buona parte della Numidia dopo la metà del IV secolo.
In Gallia e nella Spagna settentrionale , si aveva un movimento al tempo stesso sociale e politico, i "Bacaudae". Il termine, come il significato, sembrano esser derivati dall’ambiente celta di una Gallia occidentale non del tutto romanizzata. Non era, al V secolo, una novità: i "Bacaudae" avevano una tradizione che risaliva al III secolo, quando, in seguito alle invasioni del 406, rifecero la loro compara. Dopo diverse fasi alterne, il loro movimento, improvvisamente, rappresentò un gravissimo pericolo. Un certo Tibatto, trascinò dietro a s i diseredati di quasi tutta la Gallia in una ribellione aperta, decisamente separatista ("a romana societate discessit", dice una cronaca). Sedata con grande sforzo nel nord dei Pirenei, la rivolta si riaccese quasi subito, nel Sud, nella Tarraconensis, fino al 443. Un secondo sussulto si ebbe verso il 448: un intellettuale, il medico Eudossio, si mise alla testa di "Bacaudae" della Gallia, fallì nell’intento e finì per rifugiarsi presso gli Unni; l’anno successivo, i "Bacaudae" spagnoli uccisero il vescovo di Tarazona (nei pressi di Saragozza); non è che nel 454 che quest’ultimo sussulto dovette soccombere sotto i colpi dei Goti inviati da Aezio. Dopo il 456, i "Bacaudae" scomparvero.
Ma rimangono ancora da capire. Il carattere sociale del movimento è confermato dalla "Vita Germani" e da Salviano: si tratta di un’insurrezione delle vittime dell’oppressione totalitaria dell’Impero in agonia, rivolta contro l’oppressione fiscale e contro i magistrati. Nulla indica che abbia coinvolto soltanto dei contadini. Si pensa piuttosto a qualche fenomeno assai vicino alle manifestazioni di autonomismo esacerbato alle quali si abbandonavano nello stessi periodo le città della Bretagna sotto la guida di capi locali. Occorre andar più in là e cercar di vedere sotto il movimento dei "Bacaudae" , in particolare spagnoli, delle tendenze eretiche (nella fattispecie priscillianiste), come si è pensato di trovare qualche volta sotto l’autonomismo brettone delle manifestazioni del pelagianesimo? È poco probabile. Quanto alle collusioni tra "Bacaudae" e Barbari, esse furono puramente occasionali e controbilanciate da scontri non meno frequenti.
La concausa dei disordini sociali nella rovina dell’ordine romano è dunque accertata. Ma sarebbe ingiusto credere a una cosciente intesa fra un nemico all’internon e i Barbari. I Barbari non hanno, almeno così sembra, né ricercato l’appoggio di questi movimenti sociali, né ne hanno veramente compreso la portata. I re vandali, che pure l’avevano a morte con gli elementi cattolici in Africa, non hanno teso la mano ai circoncellioni. Goti ed Alani non hanno visto nei "Bacaudae" che una occasione per "noleggiare" a caro prezzo dei soldati a Roma per la repressione. La sola eccezione notevole sembra esser stata quella del penultimo re ostrogoto d’Italia, Totila, che in un’epoca in cui il suo popolo non aveva più nulla da perdere, avrebbe condotto una politica "spartachista", tendendo la mano agli schiavi contro i potenti. Ma Totila fallì nell’intento, forse per la saldezza dei legami clientelari tra contadini e grandi proprietari. Nell’insieme, i Germani si schierarono dalla parte dei conservatori. Il sistema dell’"hospitalitas", poi l’accesso dei loro capi alla grande proprietà fondiaria li resero solidali con gli interessi dell’aristocrazia.
Possiamo interrogarci in modo ancor più ampio e fare dei confronti con altre situazioni in cui l’invasore esterno si è trovato ad avere degli obiettivi comuni con le minoranze interne non assimilate, o eccessivamente sfruttate, o, comunque, malcontente della propria situazione e piene di risentimento contro la società. Quasi ovunque si assiste ala stessa dinamica: la convergenza d’interessi è più apparente che reale, perché l’obiettivo dei conquistatori non è sfasciare la società esistente, ma impadronirsene a dominarla, mentre quello delle minoranze ribelli è di distruggerla o di separarsene in maniera radicale. Se l’invasore è meno "civile" del popolo conquistato (ma questo è un terreno minato, per ragioni ideologiche: limitiamoci a osservare che i greci e i romani, quando chiamavano "barbari" gli altri popoli, anche quelli evoluti, come i Persiani, non lo facevano con implicazioni psicologiche di tipo "razzista", nel senso moderno della parola, ma in senso, per così dire, "tecnico" e oggettivo, come del resto i cinesi con gli europei nel XVIII secolo), prima o dopo finisce per subirne l’influsso e per farsi erede, in qualche modo, della sua civiltà, identificandosi – ma è un processo che può richiedere secoli – nei suoi valori, compresa la sua religione. Se, viceversa, il conquistatore è, o ritiene di essere (il che, ai fini pratici del nostro discorso, è più o meno la stessa cosa) più civile, allora il processo di assimilazione culturale non si verifica.
I baroni tedeschi del Baltico disprezzavano doppiamente i loro sudditi lettoni e lituani, perché meno civili e perché di razza inferiore, e mai ne subirono l’influsso, in secoli e secoli; i Cavalieri teutonici praticamente sterminarono gli antichi Prussiani, servendosi ampiamente della crociata religiosa per attuare una politica di espansione territoriale, demografica e strategica. Le autorità britanniche in India tennero una linea di condotta estremamente cauta verso le popolazioni sottomesse, evitando d’immischiarsi nelle loro faccende religiose (i Thugs vennero repressi per ragioni di ordine pubblico e di sicurezza dello stato, non per motivi religiosi), salvo sfruttare la divisione fra indù e musulmani nella logica del divide et impera (cosa che avrebbe portato alla nascita di due Stati indipendenti e nemici, l’India e il Pakistan, nel 1947). Nel Canada, dove gli amerindi erano poco numerosi e non avevano il prestigio di un’antica civiltà alle spalle, i britannici usarono meno riguardi: del resto, si erano allenati nella repressione e nella dominazione coloniale, per più di un secolo, nella "palestra" dell’Irlanda, e si erano mantenuti in forma con la deportazione dei francesi in Acadia e con la loro sottomissione nel Québec. In Australia lasciarono cadere del tutto la maschera del white man’s burden e agirono verso gli aborigeni come si agisce con la selvaggina: li cacciarono e, se necessario, come in Tasmania (dove i pascoli erano buoni e lo spazio era troppo poco per scacciarli in un deserto) li sterminarono, deliberatamene e metodicamente. Peraltro, i conquistatori europei sfruttarono costantemente le rivalità e le inimicizie fra i popoli indigeni, così come i romani avevano fatto con i barbari viventi al di là del limes: Huroni e Irochesi furono manipolati nel gioco della conquista coloniale, gli uni contro gli altri, come Cortés aveva fatto con i popoli messicani confinanti con gli aztechi, e come i belgi fecero, nel Ruanda-Urundi, con Hutu e Tutsi. Rarissimi furono gli episodi di alleanza fra barbari esterni e barbari interni: nel mar dei Caraibi vi furono saltuari episodi di collaborazione fra i bucanieri europei e le tribù indigene in lotta con gli Spagnoli; nella Florida del XIX secolo si realizzò una inedita alleanza fra i Seminole che resistevano all’avanzata dei bianchi, e gli schiavi neri fuggiti dalle piantagioni. Anche nel Brasile portoghese e schiavista vi fu una situazione del genere, che portò addirittura alla nascita di una "repubblica" indipendente nell’interno, la cosiddetta repubblica di Palmares. La regola, però, è che non esistono spazi d’intesa fra la barbarie esterna e quella interna. Gli schiavi che aprirono le porte di Roma ad Alarico, il 24 agosto del 408 d. C., erano di razza germanica, molti appartenevamo alle famiglie dei soldati del defunto Stilicone, il generale vandalo che aveva servito sotto l’imperatore Onorio, e vedevano nei Visigoti accampati fuori le mura i loro fratelli di razza e i loro vendicatori. I plebei di Roma non avevano nulla da guadagnare dal sacco di Alarico e non risulta che si siano alleati agli invasori, né che questi abbiano loro proposto una cosa del genere.
Una questione imbarazzane e una domanda molto politicamente scorretta riguarderebbero la situazione dell’Europa oggi, davanti alle ondate di cosiddetti profughi, o migranti, o come li si vuol chiamare, ma in effetti invasori a tutti gli effetti, e, perciò, conquistatori. Noi siamo ancora legati all’immagine "classica" del conquistatore, cioè a quella di un conquistatore armato, che avanza fra le macerie sul suo cavallo bianco: ma i milioni di islamici che oggi vengono in Europa pretendono di essere accolti, senza volersi affatto integrare, anzi, covando, sovente (non sempre) una profonda ostilità per la civiltà dell’Occidente e un profondo odio e disprezzo per la religione cristiana (benché questa sia ormai praticata da una minoranza della popolazione), e stanno conquistando il nostro continente non con la forza delle armi, come tentarono di fare, ma invano, nel corso dei secoli, bensì con la fecondità delle loro donne. Il concetto, semplice e brutale, già espresso dal premier algerino Boumedienne, è stato di nuovo sbandierato dal turco Erdogan, e in chiave apertamente minacciosa, in occasione dell’incidente diplomatico con l’Olanda del marzo 2017. Erdogan ha esortato le donne turche ed islamiche viventi in Europa a fare almeno cinque figli per ciascuna, il che permetterà la "conquista" dell’Europa stessa, la cui crescita demografica è pari a poco più di zero, nel giro di neppur due generazioni. Gli immigrati di religione musulmana provenienti dall’Africa settentrionale e centrale e dal Vicino Oriente non nutrono alcuna ammirazione, né alcun rispetto per la civiltà europea; in compenso sono animati dalla coscienza di esercitare un diritto, quello di essere accolti, e di non avere alcun dovere da rispettare, se non esteriormente, in attesa di essere abbastanza forti da spazzare via la società ospitante, come fa il cuculo con gli uccellini del nido che ha occupato. Sappiamo bene che non tutti gli immigrati sono animati da tali sentimenti; che esistono, al loro interno, notevoli differenze; e che, proprio per questo, l’Europa avrebbe il diritto e il dovere di operare una selezione, di discriminare fra quanti sono disponibili ad assimilarsi, o, almeno, a vivere da leali cittadini, e quanti non offrono simili garanzie, ma piuttosto sognano di far saltare il Ponte di Rialto, a Venezia, insieme a qualche centinaio di "miscredenti", per conquistarsi così il loro paradiso. Solo se prenderemo tali precauzioni, riservandoci il diritto di accogliere chi vogliamo, e nella misura da noi stabilita, sarà possibile assicurare un futuro alla civiltà europea e ai nostri figli e nipoti. Altrimenti, essi verranno sommersi e scompariranno, non senza prima aver subito ciò che da secoli subiscono i copti in Egitto: una lenta, spossante, tenace discriminazione, che spesso degenera in persecuzione aperta.
Quanto alla possibilità che la barbarie interna possa collegarsi a quella esterna, la cosa, per l’Europa di oggi, si presenta in maniera completamente diversa da com’era nella tarda antichità. Gli europei poveri sono ormai parecchi milioni, ma sono sempre figli della nostra civiltà, che non rinnegano affatto, semmai si sentono traditi dai suoi rappresentanti istituzionali, a cominciare dagli uomini di governo. I "barbari" interni sono pochi, come i rom e i sinti che ancora stentano a sedentarizzarsi e a inserirsi nel tessuto sociale mediante l’assunzione di un lavoro stabile. Si potrebbe pensare, semmai, alle minoranze "ideologiche", quelle scontente e aggressive, che rivendicano sempre nuovi diritti, come i militanti LGBT: ma dubitiamo assai che una alleanza con gl’immigrati islamici sia possibile su questo terreno, visto come la pensano i seguaci del Corano a proposito dei sodomiti…
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