
«Poiché è giunto il tempo che il giudizio cominci dalla casa di Dio»
23 Marzo 2017
Si crede a ciò che si è disposti a vedere: e noi moderni non siamo disposti a vedere il diavolo
24 Marzo 2017Conosciamo persone che non amano particolarmente i libri o la lettura, ma che, nella loro casa, su di uno scaffale, hanno tutti i romanzi della serie del commissario Maigret, o almeno una buona parte di essi. Tutti, è un po’ difficile: sono settantacinque, più ventotto racconti: in totale, oltre 100 storie dedicate al più celebre commissario di polizia di ogni tempo. Conosciamo persone che si annoierebbero dopo aver letto poche pagine di qualunque altro libro, o quasi; ma che non sanno resistere al richiamo di quei volumi di Georges Simenon; sì, proprio quelli, perché degli "altri" romanzi dello scrittore belga, diciamo la verità, non importa quasi niente a nessuno. Simenon è Maigret, e Maigret è Simenon, questa è la verità; inutile girarci attorno. Simenon è uno di quegli scrittori che sono rimasto intrappolati — felicemente intrappolati, senza dubbio, come Ulisse presso la maga Circe – in uno dei personaggi che hanno creato; e che, in seguito, non hanno fatto altro che tornare incessantemente su di lui, sulle sue avventure, inaugurando un filone. I critici letterari, in questi casi, storcono istintivamente il naso. Già storcono il naso davanti alla letteratura "di genere", come quella poliziesca; figuriamoci davanti a una serie di romanzi che paiono una sorta di Commedia umana balzachiana, tutta ruotante intorno allo stesso poliziotto, allo stesso ricercatore della verità nel mondo dei delitti.
Di fronte a una "serie", a un personaggio che diventa il centro di decine e decine di romanzi – il caso di Maigret, peraltro, è quasi un unicum, per quantità dei romanzi a lui dedicato e per la longevità della sua carriera: nato nel 1931, con Pietro il Lettone, ha concluso la sua ultima avventura nel 1972, con Maigret e Monsieur Charles; e parliamo del Maigret di Simenon, ovviamente, non del Maigret come personaggio a sé stante: le date sono quelle dei romanzi del suo autore — la critica non può che mostrarsi estremamente perplessa, diffidente, istintivamente maldisposta. Fiuta odore di successo commerciale, quindi di scrittura commerciale Che uno scrittore di genere, per giunta "seriale", possa aver successo semplicemente perché è bravo, questo i signori critici non lo crederanno mai: sarebbe come sottoscrivere un oltraggio alla letteratura seria, impegnata e d’autore. Dal 1931 al 1972, dunque: sono più di quarant’anni della storia francese ed europea, che scorrono sullo sfondo delle inchieste di Maigret: dagli anni della Grande Depressione a quelli della contestazione giovanile, e, nel mezzo, il dramma della Seconda guerra mondiale. Maigret ha attraversato un arco di tempo così lungo, che diventa ancor più lungo, smisurato, se si pensa alla velocità, sempre più incalzante, al ritmo sempre più congestionato, con cui si è sviluppata la storia d’Europa e del mondo in quel quarantennio: dal tempo dei grandi dittatori, Stalin, Mussolini e Hitler, a quello del disgelo fra Stati Uniti e Cina, dell’eurocomunismo, delle ultime battute della guerra del Vietnam. E come sono cambiate la cultura, la filosofia, l’arte, il cinema, la medicina, la biologia, la chimica, l’astronomia; come sono nati i viaggi nello spazio, fino all’atterraggio sulla Luna, nel 1969 (sull’onda del V2 tedesche della guerra): dal surrealismo all’esistenzialismo, dal neorealismo al post-moderno, passando per il cubismo, l’astrattismo, il funzionalismo, il modernismo, il neopositivismo, e Dio sa quante altre avanguardie, esperimenti, gruppi, movimenti, tentativi. Per non parlare dei miti e delle illusioni (e delusioni) politiche: il comunismo, il fascismo, il nazismo, il roosveltismo, il laburismo, di nuovo il comunismo, in veste più o meno umana, più o meno liberale, nonché il trotzkismo, il peronismo, il castrismo, il maoismo, il terzomondismo, il nasserismo, il panarabismo, il sionismo, e perfino lo scontro fra comunismo sovietico e comunismo cinese.
Nel frattempo, come siamo cambiati noi tutti, e specialmente noi occidentali, noi europei. Si pensi alla nostra Italia: nel 1931 si combattevano ancora le ultime battute della battaglia del grano, si bonificavano le Paludi Pontine, si fondavano nuove città (nel 1932, Littoria, oggi Latina); erano ancora vive le polemiche sul disastro della spedizione del dirigibile Italia al Polo Nord, e la Regia Aeronautica, in compenso, si rendeva protagonista di due imprese memorabili, che infiammarono la fantasia di mezzo mondo: la trasvolata del Medio e Sud Atlantico, nel 1931-32, e quella del Nord Atlantico, nel 1933. Ma il nostro Paese, nel complesso, era ancora una nazione contadina e proletaria, con uno sviluppo industriale concentrato quasi solo nel triangolo Torino-Milano-Genova. Nel 1972 l’Italia era diventata una grande potenza industriale, fra le maggiori del mondo, anche se il suo peso politico era invece diminuito (cin la perdita dell’Impero, delle colonie e della potente Marina da guerra), e si accingeva a sedere nel G6 (nel 1975), che diverrà poi G7, col Canada (nel 1976) e infine G8, con la Russia post-comunista (nel 1999). Nel frattempo, si era diffuso lo stile di vita consumista e americaneggiante, veicolato soprattutto dalle televisioni commerciali; ma, fino a tutti gli anni ’60, la RAI esercitava ancora il monopolio sulle trasmissioni televisive e selezionava i programmi in un’ottica di tipo pedagogico. Enrico Mattei, nel frattempo, perseguiva, tra gli anni ’50 e i primi anni ’60 (sarebbe morto, in un misterioso incidente aereo, nel 1962), un disegno di autonomia energetica dal sapore quasi risorgimentale.
C’è una foto di Georges Simenon – che, in Italia, aveva diversi amici, tra i quali il regista Federico Fellini -, che lo ritrae a Milano, nell’inverno del 1957, mentre percorre a passo svelto, indossando un lungo cappotto e stringendo la pipa fra i denti, proprio come il suo commissario preferito, nel Vicolo dei Lavandai, presso Porta Ticinese. Pare una cartolina d’altri tempi: alcune donne del popolo, sullo sfondo, con il fazzoletto in testa, stanno lavando i panni sotto la tettoia che offre un riparo ai loro grandi mastelli di legno, allineati uno dietro l’altro; le case a due piani sono vecchie, cadenti, con i muri sbrecciati, i fumaioli che orlano i tetti coperti di tegole, il fondo della strada in terra battuta, proprio come si fosse in un villaggio, nella piazza d’un paesino sperduto chissà dove, forse in riva al Po, o in qualche valle prealpina: e invece siamo a due passi dal centro di Milano, la metropoli industriale della Valle Padana, cuore economico e finanziario dell’Italia. Che strana scena. Eppure ci ricorda come eravamo, quali immense trasformazioni stava attraversando la nostra società, nel passaggio dalla dimensione rurale a quella industriale avanzata: fra poco, Adriano Celentano avrebbe cantato, ne Il ragazzo della Via Gluck, del 1968, l’elegia del mondo contadino che stava scomparendo a ritmo impressionante, sotto colate e colate di cemento; mentre, nello stesso anno, il regista Carlo Lizzani raccontava, nel film Banditi a Milano, le imprese criminali della banda Cavallero, nel 1967, in una Milano già del tutto trasformata in una grande e moderna città industriale, con le sue banche ben fornite di denaro che facevano gola ai malviventi più audaci e senza scrupoli: l’altra faccia, per così dire, del "miracolo economico".
Maigret, dunque, è Simenon, e Simenon è Maigret. Tutto qui? No, naturalmente: ci sono anche il cinema e la televisione. La televisione, soprattutto, che ha portato il volto, la pipia e le inchieste del commissario Maigret fin dentro le case di milioni di persone, comprese quelle che non solo non leggono libri, ma non hanno mai letto, e neanche leggerebbero, perfino gli altri romanzi di Simenon. Senza dubbio è stata la televisione a consacrare definitivamente la celebrità di questo personaggio, che ormai fa parte le nostro immaginario letterario, alla pari con i più famosi personaggi della letteratura (e del teatro) di ogni tempo: da don Chisciotte ad Amleto, da Robinson Crusoe a Oliver Twist, da Lucia Mondella a Emma Bovary. Per milioni d’italiani, il commissario Maigret ha avuto il volto, i gesti, l’accento del bravo attore Gino Cervi, apparso nell’arco di ben trentacinque puntate (ma per sedici sceneggiati) fra il 1964 e il 1972, per la regia di Mario Landi, sotto il titolo di Le inchieste del commissario Maigret; tanto che le copertine degli Oscar Mondadori, subito uscite in edicola e in libreria per sfruttare l’enorme successo di ascolti, riprendevano quel volto, e nessun altro, per dare una fisionomia all’eroe di Simenon. In Francia, invece, e in altri Paesi, come il Belgio e la Svizzera, il volto di Maigret è indissolubilmente legato a quello dell’attore Bruno Crémer, protagonista della co-produzione franco-belga-svizzera (della Svizzera Romanda), che, sotto la direzione di parecchi registi, è andata in onda dal 1991 al 2005, anche in Italia naturalmente, per un totale di ben 54 episodi completi, da 90 minuti ciascuno, col più spiccio titolo di Maigret (in Italia, Il commissario Maigret). Eppure, come si vede, siamo ancora ben lontani dall’aver visto, in televisione, tutta la serie di Maigret, così come Simenon l’ha messa per iscritto: appena la metà del centinaio di storie che formano l’intero corpus.
Ma qual è il segreto di un successo così straordinario e così duraturo, in una fase storica in cui sia la letteratura, sia la televisione, "bruciano" in fretta i loro personaggi e le loro trovate, più o meno commerciali, più o meno "seriali"? In realtà, né il cinema, né la televisione, sono sufficienti a spiegare il fenomeno Maigret, poiché Simenon era già solidamente affermato, come autore del celebre commissario, ben prima che la televisione facesse la sua apparizione. I suoi romanzi si vendevano benissimo e il cinema li portava sul grande schermo fin dagli anni Quaranta: Cécile est morte, per esempio, scritto nel 1942, in piena occupazione tedesca (e Simenon, sia detto fra parentesi, avrà poi il suo bel lavoro a spiegare ai suoi connazionali come mai facesse così buoni affari in regime di occupazione nazista, tanto più con un fratello collaborazionista ricercato dalla giustizia e costretto ad arruolarsi nella Legione Straniera, per poi morire in combattimento, in Indocina), già nel 1942 era tradotto sul grande schermo dal regista Maurice Tourneur, con l’attore Albert Préjean nei panni del protagonista (film che, però, non è mai stato distribuito nel nostro Paese). Dove è evidente che Maigret piaceva già al pubblico dei lettori, se il cinema ha avuto il suo tornaconto ad interessarsene e portarlo nelle sale.
Ora, la nostra domanda è questa: perché Maigret piace così tanto ai suoi lettori? Come mai le case editrici continuano a ristampare le sue avventure, pardon, le sue inchieste? Come si spiega che ci siano persone le quali non leggono mai un libro, o lo fanno solo se proprio ci son costrette, ma possiedono e hanno letto l’intera serie del commissario Maigret? E questo anche oggi, nell’era di internet e dei giochi elettronici, quando esistono passatempi che, qualche anno fa, nessun neanche s’immaginava (all’epoca del Maigret di Mario Landi, ad esempio, la RAI aveva solo due canali e non c’erano le televisioni private, per cui la fascia degli ascoltatori era enorme). Quale è, precisamente, il fattore che rende questi romanzi così amati dal pubblico: il personaggio del commissario, oppure le storie stesse? Oppure ancora, non le storie in se stesse, ma qualcosa che si trova in esse, e che fa parte di esse, anche se non ha a che fare, o meglio, non ha a che fare solamente, con l’eterna domanda dei lettori di ogni romanzo "giallo": chi è stato a compiere il delitto? In che cosa consiste, in definitiva, la bravura di Georges Simenon; in che cosa egli ha saputo andare incontro a qualcosa che al pubblico interessa veramente, che al pubblico piace, che insomma lo affascina?
Ebbene, cominciamo col dire che non è lo stile, non è l’arte della scrittura. E questo non perché Simenon scriva male, o scriva in modo troppo giornalistico (anche Hemingway lo faceva, ed era considerato dai signori critici un grande scrittore), o perché scriva troppo in fretta, magari per motivi decisamente economici, con il tipo di vita che doveva sostenere (due mogli, alcuni figli, una legione incalcolabile d’amanti, e viaggi e soggiorni all’estero in continuazione, Stati Uniti e Canada compresi). Anche Dostoevskij scriveva troppo in fretta, anzi, a un certo punto non scriveva, dettava e faceva stenografare: e precisamente per la stessa ragione; anche se, meno abile di Simenon, più che godersi la vita, doveva placare l’insaziabile avidità degli editori. Che cosa, allora? Probabilmente, la sua umanità. Maigret è umano: tutto qui. Non ha un metodo, tanto meno un metodo scientifico, alla Sherlock Holmes: per lui le inchieste non sono una forma di scienza, ma di arte. Cerca di mettersi nei panni delle vittime, e, più ancora, in quelli degli assassini. Così, entra nelle loro psicologia e comincia a vedere le cose sotto una luce nuova: gli si aprono spiragli che prima non c’erano. Intuisce, improvvisa, azzarda: ma non a casaccio, bensì seguendo un fiuto lungamente allenato. Si muove con disinvoltura nei quartieri alti di Parigi come in quelli bassi, nei paesini di provincia come all’esterno (in Olanda, negli Stati Uniti). Non giudica: si sforza di capire. Ha una dose formidabile di solido buon senso e non si lascia distrarre dalle cose esteriori, anche se vistose o rumorose. Non si lascia confondere le idee: va dritto punto. E il punto non è il delitto in sé, ma l’uomo: il carnefice non meno della vittima. Maigret è interessato, vorremmo dire che è enormemente affascinato, dalle vaste caverne oscure che si aprono nell’anima umana. Anche, o forse specialmente, nelle esistenze più tranquille, più grigie, più "normali". Sa che l’eccezionale può prodursi in un attimo, anche là dove memo lo si crederebbe. Nessuno è immunizzati dal mistero della vita; nessuno può dire di se stesso: A me non accadrà mai. In questo senso, Maigret è anche, a suo modo, religioso: sa che c’è un mistero così grande, che bisogna accostarlo in punta di piedi…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels