
«Un sacerdote eccezionale», di Hans Carossa (2)
16 Marzo 2017
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17 Marzo 2017Accade a tutti noi, nella vita, purché abbiamo occhi per vedere e orecchi per udire, di incontrare almeno un individuo eccezionale, e di restarne affascinati e di accorgerci che la nostra esistenza non è più la stessa di prima, dopo quell’incontro. Può essere una persona a noi molto vicina, per esempio nostro padre o nostra madre; e può anche succedere che ce ne rendiamo conto solo molti anni dopo, addirittura dopo la sua morte.
Può capitare, inoltre, che non riusciamo a individuare la ragione precisa di quella eccezionalità e di quel fascino; che, pur domandandocelo, non riusciamo a collegarlo a un particolare aspetto della sua personalità, e che siamo infine costretti ad ammettere che si tratta di un qualcosa che proviene dall’insieme della sua anima, come un profumo d’infinito e di eternità. Ora, nessun uomo o donna, in quanto tali, possono emanare una simile sensazione, un simile profumo, se non hanno stabilito un qualche collegamento con le altezze. Giungiamo così alla ulteriore conclusione che simili uomini sono stati mandato in mezzo a noi dalla Provvidenza divina, per farci assaporare un anticipo del cielo e per spronarci ad imitarli, cercando, a nostra volta, la strada che conduce verso la pienezza dell’esistenza, cioè verso Dio. Uno di questi incontri accadde, durante la Prima guerra mondiale, ad Hans Carossa (Bad Tölz, Baviera, 15 dicembre 1878-Rittsteig, Baviera, 12 settembre 1956), uno dei migliori scrittori tedeschi del Novecento, abbastanza conosciuto in Germania e in Europa fino alla metà del secolo, e poi bruscamente obliato: forse perché nei suoi libri c’è, appunto, molto profumo d’infinito, e ciò poco interessa alla società consumista, che di quel profumo ha quasi fastidio, preferendo ad esso l’odore, assai meno gradevole, dell’avidità, della concupiscenza, delle passioni disordinate, dell’io narcisista e incontentabile.
Quando si pensa all’esercito del kaiser Guglielmo II, l’immaginazione corre ai fanti dall’elmo a chiodo, tutti uguali come soldatini di piombo, ritti, impalati, quasi automatici, vagamente disumani nella loro micidiale efficienza e precisione. Si pensa anche ai barbari boches che tagliavano le mani ai bambini del Belgio; ai sommergibilisti spietati che affondavano le navi cariche di civili innocenti; ai primi che fecero uso dei gas asfissianti, per bruciare gli occhi e i polmoni dei nemici inermi. E invece, sorpresa!, anche fra loro c’erano i poeti, le anime delicate, gli uomini colti e pensosi, che deploravano, in cuor loro, le atrocità della guerra, e che desideravano solo poter tornare al più presto alle loro famiglie, ai loro campi, ai loro borghi e città dall’aspetto ancora quasi medievale, con gli alti campanili aguzzi e le torri dell’orologio che scandivano le ore come secoli e secoli innanzi. Uno di questi uomini pensosi e dall’animo gentile, intriso di spiritualità, e pur capaci di lavorare, soffrire e affrontare virilmente sacrifici e pericoli, per fedeltà al dovere e per amore della patria, fu appunto Hans Carossa, un medico la cui famiglia aveva ascendenze italiane, precisamente veronesi (come nel caso del filosofo Romano Guardini).
Sul fronte francese Carossa, che era ufficiale medico, conobbe un uomo eccezionale, un prete, il cappellano della sua divisione. Trasferiti sul fronte orientale, in Romania, alle pedici dei Carpazi, lo ebbe ancora vicino e fu testimone del suo incredibile spirito di abnegazione, oltre che della sua intensa, possente spiritualità, che ne faceva un individuo unico, sovrastante le brutture e le miserie della guerra. Gli fu al fianco quando una granata gli spappolò una gamba, ed egli stava per morire dissanguato: l’emorragia venne fermata solo all’ultimo istante, dopo una coraggiosa marcia dei soldati della sanità, con la barella, lungo un sentiero coperto di neve ed esposto al tiro delle artiglierie nemiche, le quali però rimasero in silenzio, quasi rispettando il trasporto di quell’anima straordinaria, il cui destino era di restare nel mondo per fare ancora del bene a quanti l’avessero incontrata, sia pure dopo l’amputazione della gamba. Ecco come lo scrittore descrive quell’incontro decisivo della sua vita (da: Hans Carossa, Guide e compagni; titolo originale: Führung und Geleit, 1933; traduzione dal tedesco di Lavinia Mazzucchetti, Milano, Mondadori, 1935; cit. in Luigi Rusca, Il secondo breviario dei laici, Milano, Rizzoli, 1961, pp. 17-19):
Un aiuto, pure necessarissimo, che ebbi in quel tempo, fu piuttosto di natura spirituale, e colui che me lo diede non ne sa forse nulla ancor oggi. La prima mattina dopo l’arrivo andai alle nostre posizioni di Noyon. Il colonnello mi aveva assegnato un’ordinanza e noi, a seconda che potessimo o no venire scorti dai palloni frenati dei francesi, ci tenevamo all’aperto o seguivamo una delle profonde trincee che solcavamo come catacombe quella zona brulla. Eran forse le cinque del mattino. Venere splendeva come una piccola luna, indugiando sopra pallide strisce risate. Davanti annoi si stendeva il grigiore della nebbia mattutina, da cui emergevamo cime scure, che, quando giungevamo vicini, si rivelavano invece che colline folti gruppi di olmi, di pioppi e di robinie. Un cartello indicatore ci avvertì che eravamo a meno di novanta chilometri da Parigi. Passavamo appunto rapidi per la località di Amy, quando ci venne incontro un uomo su un cavallo ero. "Il cappellano della divisione in giro anche oggi di buon mattino", osservò la mia guida. Era il primo sacerdote che incontrassi al campo. La sua uniforme era di un grigio diverso dal nostro, le mostrine avevano il color viola quasi identico ai cardi selvatici che sbocciavano proprio in quel tempo nei dintorni di Amy. Il suo volto dai lineamenti decisi mi avrebbe fatto impressione non soltanto là sullo sfondo monotono di quella pianura, ma anche in ogni adunata di molta gente. A quella luce scialba appariva di un pallore giallastro, scarno aguzzo, con gli occhi grigi infossati, non sena tracce di stanchezza, ma la persona era nell’insieme così austera e dignitosa, così sorretta dal buon volere, ed insieme così serena ed agile, che certo non doveva lasciarsi prendere facilmente a crisi di rilassatezza. Il sacerdote fermò il cavallo, chiese se fossi il nuovo medico di battaglione, sui curvò per stringermi la mano, mi augurò buona fortuna e riprese la via. Mi parve sua cortese attenzione l’avermi parlato con un chiaro accento svevo, così da esser di nuovo richiamato al ricordo degli amici di Augusta.
Molti rivelano con la loro fisionomia di aver un giorno sostato all’incrocio di due vie, e a seconda di quella prescelta si è poi plasmata tutta la loro personalità, verso la terra o verso la luce. Qui ne era risultata una sintesi di sacerdote e di soldato che, in forma così spontanea e spirituale, mi riusciva affatto nuova. S’intuiva un uomo cui non doveva più tornar difficile anche l’osservanza dei voti più aspri. Se pure il mio accompagnatore non mi avesse detto che padre Rupert Mayer apparteneva alla Compagnia di Gesù, il mio pensiero sarebbe ugualmente corso ad Ignazio di Loyola. Anche costui era stato soldato ed era divenuto monaco nella cittadella di Pamplona solo dopo che una palla gli ebbe sfracellato una gamba. La mia ordinanza appariva felice mentre mi parlava del cappellano. Era piuttosto malato, mi disse, ma non voleva saperne dell’ospedale, non sui aveva alcun riguardo, prendeva su di sé ogni peso, e c’era da stupirsi che fosse ancora al mondo. Nei combattimenti della Somme si era esposto al pericolo più delle truppe, rifiutando di cerca riparo anche allo scoppio dei proiettili di grosso calibro, e, quasi fosse invulnerabile, aveva cercato e confortato dovunque i moribondi.
Quelle parole di lode non m’uscirono mai dal capo nel tempo che seguì, e soprattutto nelle settimane di un’infermità da cui fui ferocemente colpito, in seguito al mutato tenore di vita. Pareva ch’io dovessi rivelarmi davvero impari alle fatiche di guerra. Lo stomaco si ammalò, ogni cibo mi dava nausea, la dissenteria mi toglieva le forze e tutto era tanto più grave, perché proprio allora dovevo seguire una violenta scuola di equitazione. Dopo i primi bivacchi sulle montagne di Romania, si aggiunsero i forti dolori in fasci muscolari diversi, una concomitanza così rara ad osservarsi che meritava di scriverci sopra un saggio clinico. Ogni giorno si rinnovava la tentazione di invocare dal medico superiore un trattamento in ospedale, ma ogni volta ch ero sul punto di farlo preferivo ingollare in un sol colpo una piccola manciata di aspirina e di oppio, piuttosto che adattarmi a quella vergogna; infatti un dottore malato è al fronte la più malinconica figura che si possa immaginare. Quei veleni però toglievano il dolore solo per qualche ora e in compenso aggravavano lo stomaco. Alla lunga era certo più efficace pensare intensamente a quel prete tranquillo e silenzioso che, a quanto si sentiva dire da tutti, aveva sopportato di peggio senza diminuire di un grado la propria attività. Al suo esempio si aggrappava la mia disperazione: lo costringevo in certo modo a farmi giungere nuove energie dall’invisibile e con ciò riuscivo pur sempre a superare ancora un giorno, ancora una notte. Ci incontravamo talvolta, dormivamo anche sotto la stessa tenda o ci sedevamo di fronte alla mensa del reggimento, ma i nostri discorsi non andavano mai oltre le consuete cortesie. La sua presenza mi metteva sempre un poco in imbarazzo, forse avevo la sensazione di un ladro che, con un sorriso innocente, s’intrattiene con la persona da lui derubata in segreto; quando un giorno mi parlò della mia brutta cera, la quale era forse migliore della sua, gli assicurai che non avevo nulla di grave, ma mi accorsi di dover arrossire. Con lui mi capitò come con altri uomini d’eccezione: la sua forza salutare e magnetica agiva da lontano con più efficacia che in vicinanza immediata; in fondo assomigliamo più o meno tutti alla lucciola, che, tenuta in mano, è un povero insetto oscuro, mentre nel libero volo emana una bella luce. Spesso parlando coi mie soldati mi sfiorava il suo spirito e doveva constatare che nel nostro reggimento molte cose sarebbero andate meno bene senza di lui. Contro i miei disturbi valsero a poco a poco pure dei rimedi molto semplici forniti dalla farmacia da campo e specialmente la vecchia decozione, preparata con etere ed acquavite dalla corteccia di china: così le crisi vennero superate senza ospedale e senza licenza, e col passare del temo finii col sentirmi più sano che non fossi mai stato.
Padre Mayer non si era mai avvalso dei miei uffici di sanitario, e quando ciò accadde, fu una triste ora per tutta la nostra divisione. Nel penultimo giorno dell’anno 1916 dovevamo strappare ai russi la cima del monte Vadas, dove essi tenevano salde posizioni proprio sopra le nostre teste. L’artiglieria aveva preparati per due ore l’attacco e la reazione nemica si faceva sempre più forte, quando la mia ordinanza, con volto smarrito, venne a dirmi che il cappellano giaceva nella valle di Sulta con una grave ferita alla gamba, ancora in vita ma già con l’aspetto di un morto. Debbo dire che a quella notizia il mio primo pensiero corse stranamente alla gamba sfracellata di sant’Ignazio di Loyola. Mi avviai verso la vallata, lungo le falde del monte Vadas, insieme col mio assistente dottor Ronge, un conterraneo bavarese. Il tempo e il paesaggio di quell’ora sono indelebili nel mio ricordo. Spirava lo scirocco e l’aria appariva trasparentissima sotto il chiuso grigiore del cielo; una cascata congelata sul pendio occidentale, simile ad una scala due volte interritta, aveva cominciato a sciogliersi ai suoi margini di madreperla; fra cespi di felci scolorite simili a fogli di carta ritagliata, occhieggiavano funghi violacei in aspetto di fiori.
Hans Carossa, qui, fra le altre cose, accenna ad un fenomeno caratteristico che si osserva in presenza di codeste personalità eccezionali: il fluire di una misteriosa, ma inequivocabile, energia vitale, da esse a coloro che le attorniano, anche a distanza, e specialmente quando qualcuno si trova in una situazione di stanchezza, o di scoraggiamento, o di pericolo, sia in senso fisico che spirituale. In altre parole, esse agiscono, apparentemente senza intervenire e senza il concorso della volontà, come ci si aspetta che agiscano gi angeli, e più precisamente gli angeli custodi, nei confronti degli esseri umani che hanno la funzione di proteggere incoraggiare, sostenere. Addirittura vi sono persone che cercano la loro compagnia o che, pensando intensamente a loro, le visualizzano e ne traggono un qualche beneficio, nelle angustie in cui si trovano, come si ricevessero una potente iniezione di coraggio, ottimismo e forza d’animo. E il bello è che mentre irradiano tali energie, coscientemente o inconsapevolmente, questi uomini benefici sono alle prese essi stessi con il sovraffaticamento, con la malattia, con la tensione nervosa; eppure non si lamentano mai, anzi, nascondono a tutti la gravità dei loro disturbi, evidentemente perché hanno già trovato una sorgente perenne cui dissetarsi, medicare le loro ferite e rinnovare le loro energie, il che le rende capaci di superare la stanchezza meglio di chiunque altro, come se fossero fatti non di carne e sangue, ma di ferro o di qualche altra sostanza sconosciuta e inesistente, in natura, su questa terra, che li rende addirittura invulnerabili.
Non sempre chi ha avuto in sorte d’incrociare i suoi passi con uno di tali uomini superiori si rende conto della fortuna che gli è toccata, vuoi perché abituato a valutare le persone in base a un altro metro, di tipo assai più grossolano e materiale, vuoi perché gli uomini eccezionali, proprio perché tali, sono naturalmente schivi e modesti e non si mettono mai in mostra, semmai si nascondono, perché non si ritengono affatto meritevoli di lodi, ma, al contrario, si sentono per lo più inadeguati e insufficienti, dal momento che il modello a cui s’ispirano non è di questo mondo. Nondimeno, la loro estrema scrupolosità, il loro sentimento d’inadeguatezza, non degenerano mai in amarezza e frustrazione, perché, essendo aperti all’azione purificatrice e fortificante della grazia divina, in loro si versano, per via soprannaturale, quei doni di serenità, equilibrio e senso della misura, che li aiutano a vivere bene, pur nella consapevolezza di non essere come essi vorrebbero, e di avere ancora molta strada da fare per perfezionarsi. Si direbbe, inoltre, che tutto quel che fanno, riescano a condurlo a buon fine; che li animi e li accompagni costantemente una sicurezza straordinaria, non umana; che ogni cosa, sotto le loro mani, diventi facile e trasparente, che i nodi più aggrovigliati si sciolgano, che le difficoltà più ardue si smorzino. E tuttavia si sente che tutto questo non avviene semplicemente ad opera della fortuna, come si sarebbe portati a credere se si guardasse solamente ai risultati; perché la facilità apparente con cui si muovono, parlano ed agiscono, e la loro serenità imperturbabile, che non li abbandona neppure nelle prove più faticose e angoscianti, ed è di esempio e di conforto agli altri, chiaramente scaturiscono da una sorgente che non è di quaggiù, e che non è soggetta al capriccio del caso.
Se poi ci si domanda quale sia il segreto di questi uomini forti, di queste anime infaticabili e coraggiose, non si tarda a scoprire che esso è relativamente semplice: l’aver saputo sbarazzarsi del superfluo, cioè del fardello dell’io. Costoro si sono spogliati del proprio ego insaziabile, che sempre brama qualcosa e sempre spera, o teme, qualcos’altro; si sono liberati dalla schiavitù dell’avere, dell’apparire, del competere sempre con qualcuno o per qualcosa; e hanno capito che, per essere veramente liberi, bisogna prima vincere se stessi, indi bisogna affidarsi a Qualcuno che, solo, può riempire di luce la vita di un essere umano, può donarle un senso, una meta e uno scopo, e può anche fornire tutti i mezzi necessari per percorre quella strada, rinnovando le forze ogni qualvolta esse paiono sul punto di esaurirsi. In breve, essi hanno scoperto che cosa significa veramente essere figli di Dio, e hanno fatto di tutta la loro esistenza una continua, incessante, fervorosa preghiera. Il loro segreto è tutto qui. In teoria, chiunque può imitarli. E proprio in questo essi svolgono la più benefica di tutte le missioni: quella di mostrare a chiunque, ma proprio a chiunque, perfino ai più miseri, ai più infelici, ai più soli, l’unica strada che conduce verso la pienezza dell’essere, in mezzo all’intrico di strade sbagliate che seducono, al principio, con la fragranza dei loro fiori variopinti, ma poi, mano a mano che le si percorre, ci si addentra sempre più in un regno soffocante, oscuro, minaccioso, dal quale è sempre più difficile tornare indietro.
Sia resa lode, pertanto, agli uomini straordinari, come il cappellano militare Rupert Mayer, che hanno fatto dell’amore per Dio e per il prossimo lo scopo della loro vita, e che donano ai loro simili, senza nulla chiedere in cambio, senza vantarsene, con molta semplicità, dei benefici spirituali che sono di poco inferiori a quelli recati dagli angeli.
E sia lode anche a coloro i quali, come lo scrittore Hans Carossa, medico militare e attento osservatore dell’anima umana e del suo profondo, insondabile mistero, sanno vederli, riconoscerli, attingere alla loro fora, utilizzare i loro doni; e che sanno poi diffondere agli altri uomini la gioiosa scoperta che creature del genere esistono, e che tutti le possono incontrare, se solo imparano a guardarsi intorno con lo sguardo più limpido.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels