L’eresia di Teilhard, che esalta l’uomo e minimizza il peccato, sarà la futura ortodossia?
14 Marzo 2017
L’urlo del silenzio sulla Chiesa di Cristo
15 Marzo 2017
L’eresia di Teilhard, che esalta l’uomo e minimizza il peccato, sarà la futura ortodossia?
14 Marzo 2017
L’urlo del silenzio sulla Chiesa di Cristo
15 Marzo 2017
Mostra tutto

C’è bisogno di operatori di pace per ritessere la tela della vita dopo la tempesta

La cultura moderna, specialmente a partire dal principio del XX secolo, ha sistematicamente ascoltato, lodato, magnificato gl’intellettuali che sanno solo criticare, sospettare, demolire; e ignorato, o, in alcuni casi, dileggiato, disprezzato e sminuito, in ogni modo possibile, quelli che si sono sforzati di gettare un ponte sull’abisso, di indicare la strada della speranza in mezzo al caos, di rifondare i valori umani sui quali sia possibile costruire una vita responsabile, coerente, dignitosa, e, soprattutto, orientata verso il bene.

Abbiamo già sostenuto questo punto di vista in più occasioni, e cercato di riportare l’attenzione su di alcuni scrittori, pensatori, artisti, cantanti e registi cinematografici, i quali, nelle tenebre della modernità, in piena cultura nichilista, al culmine del cupio dissolvi, mentre i più preferivano sguazzare in una palude di morte, hanno voluto, invece, andare coraggiosamente controcorrente e parlare del bene, dell’amore, della vera umanità, della dimensione spirituale. Abbiamo anche parlato del tradimento dei "chierici" e constatato quanto si sia degradata e corrotta, specialmente a partire dall’illuminismo, la figura dell’uomo di cultura, trasformatosi in "intellettuale", in preteso filosofo, in preteso sapiente, in tuttologo presuntuoso e arrogante, quasi sempre al servizio di qualche potere, occulto o palese, quasi sempre sul libro paga del più forte, del vincitore di turno; sempre pronto, in caso d’imprevisto, a saltare sopra un altro carro, e seguitare, in perfetta mala fede, a sputare sentenze e a indicare cattive strade, come se nulla fosse cambiato e come se la sua coscienza, o almeno il senso della decenza, non avessero nulla da rimproverargli, e come se nessuno avesse assistito alla sua giravolta, alla sua repentina inversione di marcia.

Così, il mondo della cultura italiano ha celebrato i Gadda, i Moravia, i Pasolini, i Penna, vale a dire i nichilisti, i pornografi, gl’invertiti, i velleitari, gli egoisti, i predicatori da strapazzo, i luterani improvvisati, i rivoluzionari da salotto, i saggi a un tanto il chilo, i moralisti autoreferenziali, i furbi travestiti da ingenui, gli sporchi camuffati da puri; e ha bellamente ignorato i Tecchi, i Lisi, i Casini, i Giuliotti, i quali, di cose da dire, ne avevano assai di più, e migliori, e scritte anche meglio, ma avevamo il torto imperdonabile di non corteggiare il potere o le mode che andavamo per la maggiore, di non cantare sempre dentro il coro, ma di seguire la via della coscienza, in una esigente ricerca di onestà e di verità, ma sempre nella pulizia e giammai compiacendosi di avvoltolarsi nel fango, insieme ai personaggi dei loro romanzi e racconti. Per la stessa ragione, in Francia sono stati acclamati fino alle stelle Éluard, Prévert, Aragon, Sartre, e sono stati trascurati e lasciati in penombra Claudel, Maurois, Cesbron, Bosco. In Russia, allora Unione Sovietica, hanno goduto di una celebrità sproporzionata Solochov, Blok, Babel’, Ehrenburg, e sono stati emarginati o perseguitati Pasternak, Bulgakov, Solgenitsyn, Zinov’ev. In Germania e in Austria, si sono venduti a milioni di copie i libri di Brecht, Grass, Süskind, Jelinek, e sono scivolati nel dimenticatoio quelli di Carossa, Lernet-Holenia, Rezzori, Wiechert.

Già: Wiechert: lo scrittore "semplice", lo scrittore "buono", lo scrittore "borghese", così poco simpatico alla cultura di sinistra, perché cattolico; così poco stimato dalla cultura cosmopolita, perché troppo "tedesco"; eppure, patriota senza nazionalismo, tedesco fino al midollo, ma senza pangermanismo; nemico della modernità disumana e spersonalizzante, legato alle sue radici (di tedesco delle province orientali, costretto a lasciare la terra natia dopo il 1945). Quanta ironia, quanta sufficienza, fra i suoi colleghi di sinistra, marxisti e socialisti, verso quelli come lui, che avevano fatto la cosiddetta "emigrazione interna", cioè che durante il nazismo non se n’erano andati all’estero (Wiechert, peraltro, non aveva soggiornato in albergo, ma era finito a Buchenwald), ma, rimanendo in patria, avevano cercato di testimoniare, con la loro vita e con le loro opere, la coerenza, la dignità, e anche la fierezza di essere tedeschi senza cedimenti verso Hitler, senza fanatismo, ma anche senza lo scetticismo e lo spirito internazionalista della cultura comunista. Ci par di vederli, gli scrittori e soprattutto i critici di sinistra, ironizzare su questo scrittore "mite", "intimista", "tendente all’evasione nostalgica e sentimentale", e guardarlo sfottenti dall’alto in basso, più o meno come i Sanguineti e gli scrittori del Gruppo 63 guardavano dall’alto in basso Cassola e Bassani, chiamandoli "le Liale" del 1963, solo perché avevano il "vizio" di parlare più dei sentimenti delle persone, che della rivoluzione prossima ventura.

Abbiamo già parlato di Wiechert in alcuni precedenti articoli (cfr. Nei libri di Ernst Wiechert l’ardente nostalgia dell’Assoluto, in un tempo fuori del tempo, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 15/02/2012; e Un eroe del nostro tempo, pubblicato su Il Corriere delle Regioni il 21/04/2016); pure, sentiamo di non aver ancora detto tutto, o, almeno, di non aver detto tutto l’essenziale. Perché Wiechert, come Pascoli, cui per certi aspetto somiglia — anche se l’uno è romanziere, l’altro poeta — ha creduto nella vita semplice, nella vita sana, nella vita buona; ha visto la campagna – che ha saputo descrivere con un tocco di autentica poesia — la medicina alla malattia dell’urbanesimo; ha celebrato la famiglia, il matrimonio, il vero amore, il lavoro, la fedeltà, la rettitudine, quando gli altri giocavamo a fare i maoisti, i vietcong, i rigeneratori del mondo mediante il nuovo verbo incarnato (però con la minuscola) di Marx e compagni. Come Pascoli, Wiechert ha creduto che dalla vita sana, fisicamente e moralmente sana, possa nascere un mondo migliore, o, almeno — perché, in fondo, era un pessimista, o forse semplicemente un realista — sia possibile attingere le energie per difendere uno spazio intimo di libertà e dignità, di bontà e responsabilità, senza sottostare a ricatti e pressioni, e senza cedere ad allettamenti o lusinghe. Uno scrittore che, come Hans Carossa (cattolico lui pure, e del quale ci ripromettiamo di tornare a parlare, perché anch’egli merita di essere ripescato dall’ingiusto oblio in cui sono cadute le sue opere), mostra doti eccezionali di umanità, di saggezza, di sensibilità, di delicatezza, e una straordinaria capacità nel saper cogliere l’eccezionale nel quotidiano, il miracoloso nell’abitudinario, e, quindi, di saper ascoltare nelle cose di ogni giorno la voce di Dio.

Ha scritto di lui, e degli scrittori a lui simili, il critico e musicologo Massimo Mila, che pure era schierato su un altro versante ideologico, ma che seppe cogliere più di tanti germanisti forse un po’ distratti, o in altre faccende affaccendati, la cifra squisitamente poetica e umanistica di questo delicato e tuttavia forte scrittore tedesco, sorretto da una intensa fede religiosa (nella Prefazione a Ernst Wiechert, Ognuno. Storia d’un senza nome; titolo originale: Jedermann. Geschichte eines Namenlosen, 1931; traduzione dal tedesco di Massimo Mila, Torino, Frassinelli, 1951, pp. IX-XI):

L’arte narrativa tedesca vive in gran parte sotto il segno di Goethe. La sua meravigliosa sapienza umana non ha cessato di dar frutti, e il romanzo tedesco contemporaneo, da Mann a Carossa, da Wiechert a Thiess, è tutto un approfondimento dei valori umani e morali rilevati dall’arte e dalla vita stessa di Goethe. La curiosità e avidità d’esperienza d’un Wilhelm Meister; l’ansia faustiana di edificazione interiore. Questa meravigliosa organizzazione e cultura della propria umanità, conducono per forza ad una specie di superiore individualismo. Codeste personalità perfette, tutte intrise di esperienza umana, appunto perché così accuratamente compiute in sé, sono sferiche e non comunicanti come le monadi leibniziane. Anche se, appunto come le monadi, hanno la capacità e soprattutto l’aspirazione di rispecchiare ed accogliere in sé l’universo. "In un gran cuore c’è posto per tutto il mondo", afferma uno dei personaggi del più recente romanzo di Wiechert, "Das einfache Leben" ["La vita semplice", 1939].

In tempo di pacifica convivenza sociale e politica, l’esistenza di questi sacerdoti dello spirito, che vivono in disparte dalle passioni del mondo, pensosi dei problemi ultimi e dei destini dell’umanità, è relativamente agevole. La nobiltà — se non l’importanza — della loro missione è facilmente riconosciuta. Ma ci sono le guerre, le crisi, le rivoluzioni, Quasi tutti i romanzi di Wiechert che il pubblico italiano conosce, ci mostrano lo sforzo tenace d’uno di questi uomini "goethiani", per ristabilire almeno in sé e nella propria immediata sfera d’influenza le condizioni dell’equilibrio spirituale ed etico sconvolto dalla tremenda burrasca della guerra mondiale. Come ragni perseveranti si appartano in un angolo, il più riservato possibile, per ritesserla bella tela distrutta. Il protagonista di "La vita semplice" "pensava che…per l’uomo non vi fosse nulla di più alto che operare il giusto nel piccolo ambito della propria vita, prendendo per mano due o tre persone perché stessero a vedere come si fa". Isolati, sanno di non essere soli. Sanno che in altri angoli appartati del mondo vivono, pensano ed operano altri uomini come loro, fidenti che un giorno potranno stringere le loro mani e tendere attorno al mondo la loro benefica rete, celebrando il trionfo dei valori dello spirito salvaguardati attraverso l’imperversare della materia scatenata. Come in quella pagina del "Medico Gion" di Carossa, dove un medico spiega il modo che si tiene per rimpiazzare nell’organismo umano un largo pezzo di pelle asportata: si chiede ad un secondo individuo non già l’intero lembo d’epidermide da sostituire, ma solo alcuni frammenti che il medico distribuisce sparsamente sulla piaga spalancata. Il resto lo fa la natura, e i frammenti germogliano, si estendono, si protendono l’uno verso l’altro fino a raggiungersi e confondersi in unica superficie.

Massimo Mila parla di uomini "goethiani"; noi preferiamo parlare, semplicemente, di uomini buoni e intelligenti. L’intelligenza è importante, ma non salverà il mondo, con le sue sole forze. Nemmeno la bontà, da sola: quanti danni fanno certi uomini "buoni", o comunque bene intenzionati, però terribilmente stupidi! Forse ancor più di quanti ne facciano i malvagi…

Più in generale, la nostra società avrebbe bisogno di uomini di cultura, che siano anche buoni: precisando, ancora una volta, che "buono" non è sinonimo, o quasi sinonimo, di "buonista", ma il suo opposto: perché il buonista vede il bene dappertutto, anche dove non c’è, e quindi mette sullo stesso piano il giusto e l’ingiusto, il che è la peggior forma d’ingiustizia; mentre l’uomo buono sa vedere e giudicare con verità e saggezza, ma, nello stesso tempo, cerca di valorizzare, in se stesso e negli altri, la parte buona, la parte migliore, la più generosa, la più disinteressata, anche se ciò non rientra nel suo interesse immediato, e, anzi, perfino se ciò, per lui, può significare un aggravio di fatica, di pena, di sacrificio.

In altre parole, il vero uomo di cultura è colui che, ispirandosi a ciò che di più alto è umanamente pensabile, desiderabile e realizzabile, tende generosamente verso quel fine, preoccupandosi anche di elevare il livello intellettuale e morale degli altri: perché, anche se vive da solitario, si sente, nondimeno, fratello di tutti gli uomini, e, pur vedendo le miserie, le meschinità, le invidie, le piccinerie degli uomini, non li disprezza, non li odia, non serba loro rancore, ma lotta e s’impegna al massimo per contribuire, nella misura delle sue possibilità, a far emergere la loro parte migliore, e a distoglierli da quella peggiore. Inutile dire che, così facendo, non solo non si preoccuperà del proprio successo, della propria carriera, dei propri interessi, ma metterà nel conto il fatto di essere ricambiato con l’invidia, la diffidenza, il sospetto e la malevolenza; lo metterà nel conto e, pur non andando in cerca del martirio, non si lascerà spaventare, o deprimere, o scoraggiare, e soprattutto non si lascerà amareggiare, incattivire, disilludere. 

Ernst Wiechert è stato, o si è sforzato di essere, un uomo di cultura di questo tipo; e la stessa cosa si può dire di Hans Carossa. Sono uomini preziosi, perché rari; ogni società, ogni popolo, ogni cultura ne avrebbero un gran bisogno, perché essi sono i custodi dei veri valori umani, in un mondo sempre più dominato dagli appetiti disordinati, dalla concupiscenza, dall’avarizia e dalla superbia. Sono uomini che portano una ventata di aria fresca dentro una stanza chiusa, dall’atmosfera soffocante; sono le guide che indicano il sentiero giusto, quando si direbbe che i più si siamo smarriti nel labirinto della vita, abbagliati e frastornati da mille cose inutili, da mille gioielli falsi, che splendono e affascinano, ma che, in realtà, non hanno alcun valore.

Un uomo di cultura, che sia anche buono, oltre che intelligente, è una risorsa preziosa, inestimabile, per i suoi contemporanei e anche per le generazioni future: egli pianta alberi che daranno ombra a innumerevoli altri, anche se non li conoscerà mai – in questa vita. Certo che la cultura non è tutto, e l’intelligenza neppure; la bontà, la capacità di amare, ma di amare con saggezza e con equilibrio, di amare ciò che deve essere amato e non ciò che è solo ingannevolmente amabile, è una virtù ancora più preziosa. E ve ne sono, di persone semplici, che possiedono questo genere di bontà, pur senza aver fatto grandi letture nella loro vita, e pur senza brillare in modo particolare quanto a doti intellettuali. Non può essere, però, uno sciocco: uno sciocco non sarà mai realmente buono, al massimo sarà buonista. E il buonismo è il cancro che sta divorando la nostra società e la sta conducendo verso la disintegrazione. Ciò è normale: le società decadenti diventano sempre più tolleranti – è una osservazione di Aristotele -, ma solo perché non sanno più seguire la via della virtù, e così gli uomini (e anche gli uomini di cultura, o meglio quella degenerazione dell’uomo di cultura che è l’intellettuale), scusando negli altri ogni sorta di vizi e debolezze, li scusano anche in se stessi.

C’è, e ci sarà sempre, un immenso bisogno di bontà, nel mondo, perché il mondo, per non impazzire, deve reggersi sull’amore; ma non c’è alcun bisogno di quella finta forma di bontà che sfocia nel relativismo, nel permissivismo e, alla fine, inevitabilmente, nel nichilismo. Una cultura nichilista mostra alla società la via dell’autodistruzione; una società nichilista è una società che ha smesso di amare la vita (e che infatti si interessa molto di più all’aborto e all’eutanasia, nonché ai cosiddetti matrimoni omosessuali, che alla nascita dei bambini) e si è messa a corteggiare la morte. Ma l’uomo buono, che è anche saggio, conosce il rimedio contro la pazzia del nichilismo: la preghiera, l’amore di Dio, l’invocazione della sua grazia – con timore e tremore – per supplire alla insufficienza e alla debolezza umana. Egli è, per usare un’espressione evangelica, un operatore di pace: quel tipo d’uomo che Gesù Cristo, nel discorso della montagna, ha dichiarato "beato": Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.