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14 Marzo 2017Sappiamo, o crediamo di sapere, più o meno tutti quanti, che i romani, nella costruzione e nella amministrazione del loro vasto impero, si mostrarono singolarmente rispettosi delle religioni dei popoli soggetti, e tolleranti verso ogni culto che confluiva a Roma, purché questo fosse, a sua volta, rispettoso delle leggi e dell’ordine sociale da loro imposto. Sarebbe stata questa, si dice, la ragione specifica della scarsa tolleranza mostrata dagli imperatori verso i cristiani: il fatto che la religione venuta dalla Palestina minava le basi politiche e sociali dello Stato, in particolare con il rifiuto di prestare omaggio al sovrano come ad un essere divino, pur se, per tutto il resto, come sappiamo già dalle lettere di san Paolo, i cristiani non avevano alcuna intenzione eversiva nei confronti dello Stato e, anzi, s’impegnavano ad essere sudditi (poi cittadini, quando, con Caracalla, tutti gli abitanti dell’Impero ottennero la cittadinanza romana, mediante la Constitutio Antoniniana del 212) leali verso di esso. Ma è proprio così? Sappiamo, ad esempio, che anche le relazioni di Roma con il giudaismo conobbero una serie di alti e bassi, e non solo a causa delle tre guerre giudaiche (del 66-70; del 115-117; e del 132-135), ma anche per i disordini causati dai giudei in Roma, che ne provocarono l’espulsione, nel 49, mediante un editto di Claudio (che coinvolse anche i cristiani, coi quali erano spesso confusi all’inizio). Una precedente espulsione si sarebbe verificata nel 139 a. C. e avrebbe riguardato, oltre ai giudei, anche i caldei; la notizia è riferita da Valerio Massimo, ma non trova consenzienti tutti gli storici moderni.
In effetti, tanto nel caso dei cristiani — i quali non furono espulsi, ma perseguitati a morte, sia pure a intermittenza, da Nerone fino al tempo di Diocleziano (nel 303-305), di Galerio (che cessò la persecuzione nel 311, con un editto di tolleranza) e di Massimino Daia (nel 311-313, l’ultima) — sia in quello dei giudei, i quali, a differenza dei cristiani, non vennero perseguitati a causa della loro religione, ma subirono alcuni provvedimenti di polizia per la loro riottosità ad accettare l’ordine romano — sembra che la linea tenuta dalle autorità imperiali sia stata quella di non immischiarsi nei culti dei popoli stranieri, a meno che questi, direttamente o indirettamente, non apparissero ai loro occhi come pericolosi per la loro autorità o per il mantenimento dell’ordine pubblico. Anche la condanna a morte di Gesù Cristo, per quel che ci è dato capire dalle fonti in nostro possesso, a cominciare dai Vangeli, ebbe come causa principale, se non esclusiva, il timore del prefetto Ponzio Pilato di essere denunciato a Tiberio, dal sinedrio di Gerusalemme, come poco sollecito nel vigilare sulla fedeltà dei giudei all’imperatore. In effetti, lo Stato romano divenne "intollerante", nel senso moderno (cioè illuminista) della parola, solo dopo l’avvento del cristianesimo al rango di religione ufficiale, e precisamente con l’editto di Tessalonica del 380, quando Graziano e Teodosio affermarono la loro volontà di unificare tutti gli abitanti dello Stato sotto la religione cristiana, e inaugurarono una politica repressiva nei confronti dei pagani, dei giudei e di quei cristiani che aderivano alle svariate sette condannate come eretiche dalla Chiesa di Roma.
C’è almeno un altro caso, tuttavia, nel quale le autorità romane si erano mostrate intolleranti, assai prima della cristianizzazione dell’Impero, addirittura fin dal suo sorgere, con Ottaviano Augusto; e cioè quello della religione druidica, praticata dai Celti sia nelle Gallie che in Britannia, oltre che nel Galles, dove però il dominio romano fu sempre incerto, e in Irlanda, ove non giunse affatto (cfr. il nostro articolo Il Vallo di Severo: un enigma archeologico fra le colline e i boschi del Galles, pubblicato su Il Corriere delle Regioni il 26/02/2016). In effetti, durante le campagne di "assestamento" successive alla conquista della Britannia, il druidismo divenne un fattore di resistenza delle popolazioni britanne all’invasore, talché il governatore Gaio Svetonio Paolino condusse le sue truppe contro il centro religioso dei Druidi, sull’isola di Anglesey, nel 60 o 61 d. C., dove si praticavano numerosi sacrifici umani, anche utilizzando come vittime i prigionieri romani: i sacerdoti vennero sterminati, gli altari distrutti e i sacri boschi incendiati (cfr. il nostro articolo Svetonio Paolino distrugge il "santuario" della resistenza druidica sull’isola di Mona, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 25/02/2008). Le popolazioni del Sud-est dell’isola ne approfittarono per ribellarsi, sotto la guida della regina Boudicca, ma Svetonio Paolino, dopo alterne e drammatiche vicende, che videro anche l’abbandono temporaneo e la distruzione di Londra, riuscì a prevalere e ad infliggere loro una sconfitta decisiva in quella che era stata la più grande sollevazione antiromana dell’isola. Dopo di allora il druidismo venne sradicato e cessò di esistere come religione organizzata e come elemento unificante, nonché, forse (perché il termine è decisamente anacronistico) anche come substrato "nazionalistico" delle tribù celtiche.
Riportiamo da una pagina della monografia Il mistero dei Druidi, sacri maghi dell’antichità, dell’archeologo britannico Stuart Piggott (1910-1996), uno dei più autorevoli nel suo Paese (titolo originale: The Druids, London, Thames & Hudson, 1968; traduzione dall’inglese di Bianca Franco, Roma, Newton & Compton Editori, 1982, pp.98-101):
Com’è noto i Druidi e la religione da essi rappresentata erano, agli inizi del primo secolo d. C., oggetto di successive misure repressive da parte delle autorità romane. Secondo Svetonio, Augusto fece dei passi per proibire la "religio Druidarum" a chi era divenuto cittadino romano; Plinio riferisce che sotto Tiberio un decreto del senato fu emanato contro i Druidi gallici ("e tutta quella razza di indovini e guaritori" ("et hoc genus vatum medicorumque"). Svetonio ripete che Claudio nel 54 d. C. "abolì completamente la religione barbara e inumana dei Druidi nella Gallia". Il nome "druido", nel significato dispregiativo di mago o profeta, sopravvisse, come è dimostrato dalle storie di profezie fatte da donne druidiche ad Alessandro Severo nella "Historia Augusta", ad Aureliano e a Diocleziano. Lo ricorda anche, facendone un uso forse più rispettoso, Ausonio nel quarto secolo, quando descrive un notabile del suo tempo "discendente dalla stirpe dei Druidi di Bayeux".
Dopo aver menzionato il decreto di Tiberio, Plinio continua: "Ma perché diciamo tutto questo di una pratica che ha varcato l’oceano ed ha raggiunto le parti più remote della terra? Al giorno d’oggi ("hodie") la Britannia è ancora affascinata dalla magia e svolge i suoi riti con tali cerimonie che sembrerebbe quasi che fosse stata essa ad impartire il culto ai Persiani". Plinio continua a rivedere il suo libro fino alla morte, avvenuta durane l’eruzione del Vesuvio nel 79 d. C., ma probabilmente qui si riferisce ad un’epoca situata agli inizi oppure alla metà del primo secolo,. L’azione contro i Druidi ad opera di Tiberio (il quale morì nel 37 d. C.) non avrebbe toccato la Britannia, la cui conquista non ebbe inizio prima del 43 d. C., e sembra che l’abolizione di Claudio abbia interessato solo la Gallia. Quando parla dei Druidi britannici, Tacito descrive eventi del 61 d. C., implicando che in quell’epoca la religione era soggetta a repressioni.
I motivi di queste misure legislative hanno formato oggetto di discussioni: secondo un punto di vista, particolarmente condiviso dal Last, furono le intollerabili barbarie dei sacrifici umani celtici che scandalizzarono la sensibilità romana e provocarono le repressioni violente. Il sacrificio umano era stato abolito nel mondo romano da un decreto del senato del 97 a. C. e sia Augusto che Tiberio avevano tentato di mitigare la bestialità degli spettacoli dei gladiatori. "Ciò che Roma condannava nella Gallia era la barbarie, specialmente quale si manifestava nei riti dei sacrifici umani… Per i Romani sopprimere la ferocia era un servigio reso all’umanità"..
Questa appare un’interpretazione plausibile, ma è stata suggerita un’alternativa, cioè che l’opposizione romana avesse luogo perché (citiamo le parole di Collingwood) "la religione celtica assumeva un aspetto intollerante e nazionalistico, espresso dal druidismo". La signora Chadwick si è dichiarata parzialmente d’accordo con questa opinione; tuttavia richiama l’attenzione sul fatto che, benché quando cita da Posidionio Cesare meta anche tropo l’accento sul potere dei Drudi, "i Druidi non ebbero mai, in nessun momento delle campagne di Cesare, una considerevole forza nella politica della Gallia". Questo tema è stato elaborato dal De Witt, il quale sostiene in modo convincente che i testi di Cesare offrono una visione ormai obsoleta, discorde con la mancanza di qualsiasi accenno ai Druidi nell’effettivo racconto sulle campagne. Si può aggiungere l’osservazione […], che l’idea del "nazionalismo" può essere un’invenzione anacronistica, ottenuta proiettando nell’antico mondo barbaro, formato da piccole unità tribali e familiari, il concetto moderno di uno stato nazionale unificato. Ci si domanda quale realtà "nazionale" si nascondesse dietro la lega di Averne, alla vigilia della conquista della Provenza nel 121 a. C., o dietro a qualsiasi altra coalizione nel mondo celtico. Ma bisogna anche ricordare che il testo del Last fu scritto immediatamente dopo la guerra del 1939-1945, in un momento nel quale la soppressione di una "resistance" gallica non poteva non venire deplorata, dati i recenti avvenimenti; e il Last desiderava mettere in buona luce Roma.
Sembra che non vi siano motivi per non accettare l’evidenza di azioni punitive contro il sacrificio umano e le altre barbarie della religione celtica; ed è probabile che fossero coinvolti problemi più vasti. Senza voler inventare un movimento di resistenza, possiamo riconoscere nel modello e nel tessuto della società celtica primitiva un’incompatibilità con le abitudini romane, esacerbata da alcune delle sue componenti essenziali. Come abbiamo visto, le testimonianze classiche e vernacole rivelano l’esistenza di una classe di saggi fra i quali giuristi, poeti e uomini santi, i quali erano, almeno secondo quanto si può dedurre dalle fonti irlandesi, come gli altri artigiani, un elemento itinerante e mobile della popolazione, oltre ad essere una parte fondamentale dell’ordine sociale. Questa mobilità sarebbe stata contraria al sistema statico agricolo e urbano di una provincia romana, e la tradizione celtica si concentrava attorno ai Druidi, rappresentanti del mito e dei rituali, della poesia e della legge.
Non sbaglieremo molto, probabilmente, paragonando la politica romana nei confronti della Gallia e della Britannia a quella degli Inglesi elisabettiani verso gli Irlandesi del sedicesimo secolo, che avevano conservato tante caratteristiche del loro passato preistorico. Non era solo una società pastorale, in contrasto con il sistema sedentario agricolo inglese del tempo, che doveva essere reso stabile, ma ancor più pericolosi erano gli uomini viaggianti che incarnavano le tradizioni di quella società. "I residenti ufficiali dell’Irlanda", scrive il Quinn, "presero in seria consideri zone l’abolizione dei due fattori significativi e intercambiabili presenti nella società irlandese, gli artigiani itineranti, messaggeri e attori, e la classe istruita dei "brehons" (giuristi) e dei poeti… Questo avrebbe smembrato gli strati significativi della struttura ella società irlandese, soprattutto eliminando i giuristi, mentre era più difficile ridurre al silenzio i poeti". Ma presto arrivò anche il momento dei "rimatori" e il tentativo di estirparli, come si voleva sradicare tutta la cultura indigena incompatibile, fu messo in atto con selvaggia barbarie da gentiluomini valorosi come ad esempio sir Humphrey Gilbert.
La civiltà romana e la barbarie celtica furono fin dagli inizi di diverse strutture e tendenze. I Druidi erano "destinati, dal corso naturale degli eventi, a perdere il loro prestigio e anche la loro identità" durante la romanizzazione della Gallia e della Britannia, così come successe agli "arioi" di Tahiti quando la loro cultura barbarica fu schiacciata con la violenza dai missionari inglesi negli anni 1790. I druidi furono vittime di un più vasto conflitto, causato da quello che l’Alfoldi chiamò la "barriera morale" fra due culture inconciliabili, "l’antitesi fondamentale fra l’umanità civilizzata dal dominio romano e il mondo dei barbari che li circondava", con la "sua prevalenza di istinti veementi e di passioni bestiali", espresse in attività come quella del sacrificio umano. I Druidi, i bardi, i veggenti e gli altri non potevano trovar posto nel nuovo mondo romano-celtico che stava nascendo nelle province dell’Impero.
Come si vede, davanti alla linea politica adottata dai conquistatori romani nei confronti della religione druidica, non si può scantonare, ma si è costretti a misurarsi, volenti o nolenti, con una grossa questione storiografica e antropologica: quella dell’atteggiamento delle civiltà superiormente organizzate allorché vengono a contatto con gli usi, la cultura e la religione dei popoli "primitivi" (o "barbari", come li chiama, senza tanti giri di parole, il Piggott, e come in effetti li chiamavano, fino a qualche anno fa, praticamente tutti gli studiosi, specie quelli di formazione classica, che avevamo adottato il punto di vista dei Greci (e dei Romani) verso i popoli stranieri. Se è vero, come pare orientata ad ammettere la più recente storiografia, che i romani scelsero la linea dura, quella della repressione, verso una intera religione, praticata da popolazioni numerose e da poco tempo annesse al loro impero, oltre che per probabili ragioni di sicurezza politico-militare, anche per l’incompatibilità di riti "selvaggi", incentrati sulla pratica dei sacrifici umani, con la loro civiltà, che si sentivano chiamati ad esportare nel mondo (secondo la celebre immagine di Virgilio: tu regere imperio populos), lo studioso non può fare a meno di chiedersi se tale linea fu saggia e ragionevole, se fu "giusta", e se i romani avessero il diritto di decidere quali religioni dei popoli soggetti potevano continuare ad esistere, e quali erano meritevoli d’essere spazzate via.
Sappiamo bene che, da qualche tempo, è in voga una cultura antropologica relativista e "orizzontale", negatrice di qualsiasi gerarchia, o criterio di gerarchia, delle civiltà; una linea che adotta, di preferenza, il punto di vista delle popolazioni indigene, di solito presentate sotto la luce più favorevole, sulla scia di Bartolomé de Las Casas e del mito illuminista del "buon selvaggio", mentre tende a svalutare in ogni modo l’apporto della civiltà europea e a evidenziare le "colpe" di questa nei confronti dei popoli nativi. Ciò è un contraccolpo psicologico del fenomeno storico della decolonizzazione, e si può interpretare, ai nostri giorni, come una manifestazione di quella "oicofobia", di quel segreto (o, talvolta, esplicito) odio di se stessa, che la civiltà occidentale ha incubato nel corso degli ultimi due secoli, e che la porta ad essere ingiusta e ingenerosa nei confronti di se stessa, e, viceversa, estremamente benevola e ottimistica allorché si tratta di valutare gli altri popoli e le altre culture e civiltà. Un riflesso di questo atteggiamento si vede molto bene, per quel che riguarda il mondo cattolico, nella linea adottata dalla Chiesa a partire dal Concilio Vaticano II, e accentuata sotto il pontificato di papa Francesco, linea mirante a sottolineare la positività delle altre religioni e della altre confessioni cristiane, e, nello stesso tempo, gli elementi criticabili o insufficienti del cattolicesimo stesso: al punto che ai cattolici si chiede di accogliere indiscriminatamente qualsiasi massa d’immigrati, specie musulmani, e di non nominare neppure il terrorismo islamico, mentre, per converso, si tace o si parla in maniera timida e fiacca delle terribili persecuzioni che sono in atto contro i cristiani in moltissimi Paesi del mondo.
E dunque, tornando al nostro assunto: ebbero "ragione", i romani, ad agire così come agirono nei confronti della religione druidica? Notiamo, accidentalmente, che nelle Isole Britanniche è in atto una vera e propria rinascenza del druidismo (e, se è per questo, anche della stregoneria e di tutte le pratiche e i culti possibili e immaginabili, purché accomunati dal fatto di essere d’origine pre-cristiana o anticristiana), con tanto di celebrazioni solenni del solstizio d’estate a Stonehenge e in altre località sacre del paganesimo antico e recente. E, più in generale: è legittimo, è giustificato che i rappresentanti di una civiltà più evoluta si arroghino il diritto di operare una simile selezione rispetto alle credenze e alle pratiche religiose dei popoli con cui vengono a contato? Naturalmente, la sola espressione "civiltà superiore", e perfino "civiltà", senza altri aggettivi, risulta insopportabile per gli storici, e soprattutto gli antropologi, di formazione anti-occidentale e pieni di radicati pregiudizi anti-europei; il che, del resto, è solo il riflesso di un più ampio atteggiamento relativistico esistente in tutti gli ambiti della cultura e della vita, dall’arte alla poesia, dall’architettura alla musica: è politicamente scorretto parlare di "superiore" (ciò che implica il correlativo concetto di "inferiore"), perché ciò sa di razzismo, di etnocentrismo, eccetera. Noi, però, non accettiamo il ricatto del politically correct e andiamo avanti per la nostra strada, cercando una risposta ragionevole e, per quanto possibile, equilibrata e imparziale, al nostro interrogativo.
In fondo, la questione è abbastanza semplice, per chi la vuol guardare in maniera spassionata, senza pregiudizi buonisti e pseudo egualitari, e senza troppa ipocrisia. I druidi praticavano, fra le altre cose, i sacrifici umani su larga scala: come facevano (anzi, in misura ancor maggiore) gli aztechi, fino all’epoca della conquista spagnola. Che cosa avrebbe dovuto fare Hernan Cortés, quando si trovò davanti allo spettacolo delle centinaia di resti umani, accumulati presso la grande piramide di Tenochtitlan, dove i sacerdoti aztechi strappavano il cuore ancora palpitante dal petto delle loro vittime, per prolungare la forza e la vita della divinità solare? Avrebbe dovuto dire, più o meno: Certo, non è una bella cosa; però anche noi spagnoli, anche noi cristiani, abbiamo e abbiamo avuto le nostre magagne; perciò facciamo finta di nulla, lasciamo che i Messicani seguano i loro riti, accontentiamoci che rispettino le nostre leggi e riconoscano la nostra autorità? Certo, si può contestare la legittimità di quella autorità; si può contestare il colonialismo: ma il compito dello storico non è lamentarsi del fatto che le cose siano andate come sono andate, ma di spiegare come e perché sono andate a quel modo. E dunque, che avrebbe dovuto fare Cortés? Che avrebbero dovuto fare Cesare, Claudio, Svetonio Paolino, davanti ai sacrifici umani dei druidi? Che avrebbero dovuto fare, nel XIX secolo, i Britannici, davanti alla setta indiana dei Thugs, gli strangolatori religiosi, che uccidevano a tradimento migliaia di persone (indiane, non europee) in onore della dea Khalì? Oppure, nel Borneo e nella Nuova Guinea, che avrebbero dovuto fare gli Olandesi, di fronte alle scorribande delle tribù che praticavano la caccia alle teste umane? Avrebbero dovuto girare lo sguardo dall’altra parte e far finta di nulla? Avrebbero dovuto dire che ogni popolo e ogni cultura hanno le loro usanze, le loro tradizioni, e che essi non avevano alcun diritto d’interferire nelle usanze e nelle tradizioni altrui? Che avrebbe dovuto fare il nostro Romolo Gessi, braccio destro di Gordon Pascià durante la campagna contro i mercanti arabi di schiavi nel Sudan, quando riuscì a sconfiggere e mettere le mani sul più grosso capo arabo schiavista, Suleiman, figlio di Ziber Rahmat? Avrebbe dovuto, come sostiene, implicitamente, lo storico comunista ungherese Endre Sik, lasciarlo andare, riflettendo semmai, per vergognarsene, che lui stesso era il portatore di una conquista coloniale ingiusta e sfruttatrice? Romolo Gessi ordinò che Suleiman venisse fucilato: e, a nostro avviso, ebbe tutte le ragioni per farlo: sia politiche che morali. Cioè: l’esecuzione di quel capo negriero non fu un atto politico moralmente illecito. Nemmeno la repressione dei sacrifici umani da parte degli spagnoli, nel Messico del XVI secolo, fu moralmente illecita.
Ma la conquista coloniale dei popoli europei, a sua volta, non fu moralmente illecita? Qui ci troviamo di fronte a un ordine di fattori che non possono venire ridotti alla categoria etica: sono grandi processi storici, che avvengono sotto la spinta di molteplici fattori, e sarebbe puerile pretendere di giudicarli "buoni" o "cattivi" nel loro complesso. Lo stesso ragionamento vale per le migrazioni dei popoli: ad esempio, per quella degli ungheresi dall’Asia in Europa; per quella dei turchi dal bassopiano turanico all’Asia Minore; per quella dei bantu dall’Africa orientale a quella meridionale; per quella dei polinesiani da un’isola all’altra, da un arcipelago all’altro del Pacifico; e anche quella dei trekker boeri (olandesi) dalla Provincia del Capo alle regioni interne dell’Africa meridionale, l’Orange e il Transvaal. L’espansione europea nel mondo, fra il XVI e gli inizi del XX secolo, di cui le conquiste coloniali sono solo un aspetto, rientra in questa categoria di fatti storici. Non li si può giudicare, nell’insieme, sotto il profilo morale; si può, semmai, valutare, anche sotto il profilo morale, i singoli aspetti delle loro manifestazioni. Ci si può domandare, ad esempio, se fu etico il comportamento di Cortes nei confronti del re azteco Montezuma, o di Pizarro nei confronti dell’inca Atahualpa; ma bisogna sforzarsi d’essere imparziali e non tacere gli aspetti positivi del sistema di civiltà che gli Europei esportarono negli altri continenti. Non è onesto guardare solo la parte negativa; bisogna guardare sia quella negativa che quella positiva. Uno storico francese, Pierre Bertaux, ha osservato, per esempio, che se un pastore dell’interno dell’Africa, del Mali, o del Ciad meridionale, poteva condurre le sue greggi a pascolare da un luogo all’altro, senza più l’atavica (e fondata) paura d’essere ucciso da qualche guerriero o da qualche predone di un’altra tribù, ciò lo si dovette all’opera di unificazione politica, di ordinamento amministrativo e di civilizzazione complessiva, realizzata dal colonialismo (francese, in questo caso). Sono cose che non è giusto dimenticare, quando si mettono sulla bilancia le malefatte del colonialismo; così come non sarebbe onesto immaginare che le società africane fossero un paradiso in terra prima dell’arrivo degli europei, o che lo sarebbero rimaste, se il colonialismo non ci fosse stato.
E dunque, concludendo e ritornando al tema iniziale, ci sembra che sia molto difficile negare che i romani, reprimendo la religione dei druidi, abbiamo agito secondo il diritto naturale e in maniera tale da favorire il passaggio delle popolazioni celtiche ad un superiore grado di civiltà. Senza dubbio ciò avvenne anche in mezzo a violenze, sfruttamento, ingiustizie, come sempre accade quando un popolo più forte ne sottomette un altro. Lo stesso destino, del resto, sarebbe toccato anche ai romani: vennero conquistati e sottomessi dai "giovani" popoli germanici, nel corso del V secolo dopo Cristo. Ebbene, non ci risulta che alcuno storico si sia mai domandato se fu moralmente lecito, ai Visigoti, ai Franchi, ai Vandali, invadere e soggiogare le terre e i popoli dei romani. Ciò accade perché i popoli primitivi meritano sempre simpatia, mentre quelli più evoluti solo disprezzo?
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash