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9 Marzo 2017
Cittadini delle tenebre, «gracia a deus»
10 Marzo 2017Nel romanzo di Honoré de Balzac Le illusioni perdute, in realtà una trilogia formata da I due poeti, Un grand’uomo di provincia a Parigi e Le sofferenze dell’inventore, pubblicato fra il 1837 e il 1843 e giudicato da alcuni, come Marcel Proust, l’opera migliore dell’intera Commedia umana, si narrano le peripezie di un giovane provinciale di belle speranze, Lucien Chardon, e del suo amico David Séchard, che sposerà la sorella di lui, Eve. Lucien, smanioso sia di gloria letteraria che di amore romantico (un topos letterario tipicamente moderno: si pensi all’Alfonso Nitti di Una vita di Italo Svevo, apparso mezzo secolo dopo, nel 1892), Lucien viene preso sotto la sua protezione da un’attempata nobildonna, per la quale scrive poesie pervase d’amor platonico, la quale decide di scommettere sul suo successo e se lo porta a Parigi, per introdurlo nel bel mondo dei salotti e aiutarlo a sfondare.
Giunti nella capitale, però, le cose non vanno come i due avevamo sperato; Madame de Bargeton si stanca di recitare il ruolo della Laura petrarchesca e molla il suo pupillo; questi, a sua volta, si stanca d’inseguire, con umiltà e pazienza, la vera gloria letteraria, come fanno altri migliori di lui, e intraprende la più facile carriera del giornalista, senza alcuno scrupolo, passando dai giornali repubblicani a quelli monarchici con la massima disinvoltura. S’innamora anche, riamato, di una giovane e bella attrice, Coralie, e si mette a spendere senza misura, restando ben presto senza un soldo, pieno di debiti e con la povera fanciulla che, malata, muore, lasciandolo di nuovo solo. Lucien, che aveva assunto il cognome della madre, Rubempré, con l’immancabile "de" pseudo nobiliare, si rende conto di non avere, e di non aver mai avuto, alcuna chance di farsi un nome come scrittore nella capitale: benché la sua bellezza e giovinezza gli attirino le simpatie di molti, i suoi modi goffi, da provinciale, la sua mancanza di esperienza e di malizia, la sua incapacità di risparmiare il denaro che guadagna e di coltivare nella maniera giusta le amicizie giuste, lo espongono a una serie di cocenti delusioni e, da ultimo, lo persuadono di aver fallito e di non avere altra strada che il ritorno alla cittadina natale, Angoulême. Qui trascinerà anche il povero David nella spirale dei suoi debiti, facendolo finire in prigione; e arriverà a meditare il suicidio, finché l’apparizione di un misterioso e inquietante tipo di abate spagnolo, che si fa chiamare Carlos Herrera (ma non è altri che il camaleontico, e un po’ mefistofelico, Vautrin, un personaggio che riappare a intermittenza nella Commedia umana balzachiana) non giunge a rinviare la catastrofe, offrendogli del denaro per tirar fuori dal carcere il cognato, e convincendolo ad unirsi a lui, per imparare i segreti del successo e della vendetta. La trilogia finisce così, con Lucien che si mette al seguito dello strano individuo; ma s’intuisce che la sua fine è solo rinviata e che la sua fondamentale "inettitudine" — se ci è consentito rubare, anacronisticamente, questa parola dal vocabolario decadentista, dal momento che abbiamo citato Svevo — sarà la sua vera, impietosa nemica nella lotta che egli conduce vanamente per riuscire ad affermarsi.
La televisione francese realizzò uno sceneggiato televisivo nel 1966, Illusions perdues, ai tempi del bianco e nero (un anno dopo l’ancor più famoso Belfagor, o il fantasma del Louvre), sotto la direzione di Maurice Cazeneuve, che ha fatto conoscere a milioni di telespettatori francesi e di altri Paesi, Italia compresa, questa importante tessera della immensa opera balzachiana, nella quale si descrive la società francese tra la fine del primo impero e la monarchia di luglio, cioè negli anni della Restaurazione, e mette in scena, con consumata abilità e finezza d’introspezione sociale e psicologica, una quantità di personaggi, che delineano come un grandioso affresco.
La poetessa e traduttrice Maria Luisa Spaziani (Torino, 7 dicembre 1922-Roma, 30 giugno 2014), ha scritto, nella Introduzione al romanzo edita dalla Newton Compton (Roma, 1995, pp. 9-11):
Sarebbe un’impresa tentane ma impossibile qui quella di isolare, sia pure in parte, le bellezze significative dei due versanti di Le illusioni perdute, il cui tono varia dall’osservazione microscopica degli ingranaggi tecnici e sociali fino all’ariosità del sogno (Seraphita, Il Capolavoro sconosciuto, La fanciulla dagli occhi d’oro, La ricerca dell’Assoluto), scandagli verso il profondo. Dopo il romanticismo un po’ statico nel campo dei sentimenti che aveva trovato la sua caratterizzazione nel romanzo dei due secoli precedenti, a partire da Madame de la Fayette, ecco il romanzo impuro e moderno, ecco Balzac, nel 1830, pronunciare una definizione di grande avvenire, nientemeno che "letteratura industriale". Questa sua sigla profetica ci permette di vederlo come il capofila di tanto romanzi d’intonazione scientifica-industriale-sindacale anche italiani (Ottieri, Volponi, Malerba, ecc.) […]
Come isolare alcune "bellezze" di "Le illusioni perdute"? Ecco ancora a proposito della poesia.
All’inizio del terzo romanzo, "Le sofferenze di un inventore", Lucien esausto per il lungo viaggio a piedi per ritornare ad Angoulême, viene accolto in una casupola rustica e dorme per quattordici ore. La copia di mugnai si domanda che razza di giovane sia, dalle mani così bianche: principe?, ministri?, deputato?, vescovo?, forse un attore disoccupato? Dice Balzac: "Né il mugnaio n la mugnaia potevano immaginare che.. c’è un uomo che è insieme principe e attore, e incarna un sacerdozio magnifico: il pota. Sembra che non lavori, ma ha saputo dipingere l’umanità e ora regna su di essa". Una reminiscenza inconscia del magico potere che l’uomo di Lascaux assumeva sugli animali da cacciare e di cui nutrirsi, tramite i suoi graffiti sulle pareti della caverna? Il linguaggio crea il mondo, e chi possiede il linguaggio è demiurgo e re.
E naturalmente il linguaggio, in modi diretti e indiretti, varia a seconda dei r con sapiente mimetismo, dal tono alto degli aristocratici, che raccoglie gli snobismi lessicali del tempo, come farà Proust, al tono basso dei provinciali che insinuano proverbi nei loro dialoghi. Nello stesso ritorno ad Angoulême il parroco, rivolgendosi alla paffuta farmacista dagli occhi pressoché gialli concentra così la vicenda del giovane ambizioso: "Lucien è andato a Parigi per suonare ed è stato suonato". All’estremo opposto troviamo i dialoghi con il d’Artez, o i soliloqui di questo illuminato compagno-maestro dove si sviscerare l’essenza della poesia e la presenza dello scrittore nella società, e certi discorsi di raffinati mondani nell’atmosfera ovattata dei teatri. E c’è ancora la lampeggiante caratterizzazione dei tipi. David Séchard, il laborioso cognato, "è un bue coraggioso e intelligente come quello che i pittori danno per compagno all’evangelista".
Ma leggendo e rileggendo "Le illusioni perdute" per parlare qui brevemente, ci si rammarica dell’impossibilità di soffermarsi, tra l’altro, su alcune pagine folgoranti di psicologia, che fanno presentire la "Recherche". Ecco ancora Lucien in questo suo ritorno, di fronte alla madre e alla sorella che lo amano ma hanno preso coscienza del suo velleitarismo., del suo egoismo infantile e della sua fondamentale debolezza di carattere: "La presenza ha una specie di fascino, cambia le predisposizioni d’animo più ostili fra amanti o fra parenti per forti che siano le ragioni di un dissidio. L’affetto traccia forse nel cuore ceti solchi che è grato ripercorrere? Forse questo fenomeno appartiene alla scienza del magnetismo? Si dovrebbe, secondo ragione, o non rivedersi mai o perdonarsi. Sia che questo affetto dipenda dal ragionamento, sia che dipenda da causa fisica, ognuno di noi ha sperimentato come gli sguardi, i gesti, le movenze di una creatura amata ritrovino un’eco di tenerezza in chi è stato offeso, addolorato o maltrattato. Se la mente difficilmente dimentica, se l’interesse soffre ancora, il cuore, malgrado tutto, accetta ancora la sua servitù".
Sono squarci folgoranti, senza dubbio, sia di poesia che di psicologia; e Le illusioni perdute ne sono piene, come un po’ tutta la Commedia umana, cosa che ha dato vita alla leggenda di Balzac "precursore" del naturalismo. Ma allora si potrebbero arruolare fra i precursori del naturalismo anche Omero, Sofocle, Virgilio, Cervantes, Shakespeare, e parecchi altri: ogni grande scrittore è sia l’una che l’altra cosa, poeta perché la"la parola crea il mondo", come dice Balzac, e psicologo perché il campo privilegiato della scrittura non può essere che l’esplorazione degli abissi del mistero umano. Anche quando pare che il fine di un’impresa sia completamente diverso: Fatti non foste a viver come bruti… ma a divenir del mondo esperti, e delle vizi umani e del valore, dice Ulisse a se stesso, e poi anche ai suoi compagni, dopo aver varcato le Colonne d’Ercole, mentre si accingono a lanciarsi nella grande avventura del mondo sanza gente. Dove è chiaro che, in un mondo sanza gente, i vizi e il valore umani da esplorare non sono quelli di popoli lontani, ma quelli che giacciono in fondo al proprio essere: la scoperta di se stessi.
Tuttavia, né la magnificenza dello stile, la sua straordinaria adattabilità, il suo mimetismo, né le geniali intuizioni e le sottili analisi psicologiche e morali, dovrebbero farci perdere di vista il fatto che questo romanzo è — sulla scia del Werther di Goethe — un romanzo di formazione alla rovescia, nel quale il protagonista non impara nulla, anzi, dissipa inutilmente e amaramente il suo patrimonio intellettuale e affettivo, e nel quale ritorna a casa sconfitto e umiliato da una prova che era troppo al di sopra delle sue possibilità, ma, soprattutto, che era stata mal posta fin dall’inizio. È il romanzo dell’ambizione frustrata, dei sogni spezzati, dell’ego flagellato a sangue dalle impietose circostanze, dalla vita stessa, che non fa sconti a nessuno e che s’incarica di far scoprire agli incauti e ai vanitosi, a loro spese, che nulla viene offerto gratis, nulla è donato disinteressatamente e che tutti, ma proprio tutti, hanno il loro tornaconto, confessato o inconfessato (e inconfessabile). Non ci sono anime pure, anime belle; ci sono, al massimo, docili creature votate alla sofferenza, disposte e quasi desiderose di sacrificarsi, e uomini nobili, ma impotenti, trattenuti da mille lacci, sociali ed economici: ci sono i David e le Eve, ma, si direbbe, solo per offrire un po’ di sostegno e una spalla su cui piangere agli altri, agli illusi, ai perdenti, agli ambiziosi che non meritano il successo, perché non hanno né forza di volontà, né ideali generosi per cui spendersi. In questo senso, Le illusioni perdute è veramente il romanzo della lucida, quasi scientifica disperazione: e, in ciò, è anche un romanzo tipicamente moderno. Come la Mandragola di Machiavelli, la prima commedia moderna, ci mostra un mondo desolato e senza sole, popolato da un’umanità scaltra, egoista, cinica, che si aggira in un deserto morale non rinfrescato mai da un soffio d’aria pura, non illuminato mai da un barlume di generosità e di bontà, così Le illusioni perdute sono, forse, il primo romanzo moderno nel senso più completo della parola, dove il disincanto del mondo raggiunge la piena lucidità e consapevolezza: al punto che, come qualcuno ha osservato, forse il titolo di Illusioni perdute sarebbe stato adatto per designare l’intera opera di Balzac, piuttosto che quello generico (e velleitario, esso sì, se voleva far "concorrenza" alla commedia divina di Dante) di La commedia umana.
Si direbbe, peraltro, che proprio Balzac, il finissimo cesellatore d’immagini, l’inesauribile osservatore delle mille e mille sfaccettature della realtà sociale, forse proprio per la cura maniacale, prometeica, di abbracciare tutto, di considerare tutto, insomma di ergersi a demiurgo del mondo mediante la magia del linguaggio, non abbia saputo assumere la sufficiente distanza rispetto alla sua stessa opera, per cogliere l’effetto d’insieme dell’immenso mosaico, restando, per così dire, ipnotizzato dalle singole tessere che lui stesso, con cura e pazienza da certosino, andava assemblando. Si ha l’impressione, insomma, che questo mago della parola, questo stregone della letteratura, questo Faust della penna, affascinato o troppo assorbito dall’opera immane che avrebbe finito per ucciderlo, non sia riuscito a gettare uno sguardo d’insieme sulla realtà rappresentata, e che gli sia sfuggito, così, proprio l’essenziale: la natura demoniaca del mondo che egli andava descrivendo, e, di conseguenza il carattere desolatamente tragico, nichilista, della sua stessa opera. Balzac voleva non solo descrivere, ma ricreare il mondo: e anche questa non è una cosa nuova; ci hanno provato in tanti prima di lui, per esempio Boccaccio nel Decameron, e specialmente nella cosiddetta "cornice" del suo capolavoro. Se il mondo è disordine, ebbene, ecco che lo scrittore, mediante l’incantesimo della parola, riuscirà a trasformare quel disordine in ordine, o meglio, a spostare il disordine apparente su di un piano più elevato, dove l’intelligenza umana ricompone i conflitti e assorbe le lacerazioni, restituendo un ordine ragionevole, se non al mondo, almeno all’immagine del mondo. Perché il "trucco", o l’inganno, o l’illusione, è tutto qui: nel confondere l’immagine del mondo, creata dalla scrittura, con il mondo. È un tentativo di sostituirsi a Dio e non stupisce, perciò, che, nato da una hybris demoniaca, approdi alle rive della più nera disperazione…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels