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L’attimo è solo la parodia dell’eterno: il vero ed unico presente è l’eternità

La tendenza caratteristica del pensiero moderno, o almeno del suo filone principale, è quella di considerare l’attimo, il presente, come la vera realtà temporale con la quale deve confrontarsi l’esistenza dell’uomo, mentre l’eternità non sarebbe che un’astrazione, se non addirittura una pia leggenda, alimentata dalle religioni per alienare gli uomini dalla vita “vera”. L’uomo, infatti, nella cultura moderna, è percepito essenzialmente come un essere storico, immerso nel tempo e dal tempo plasmato: riflesso, evidentemente, della più ampia mentalità evoluzionista, secondo la quale tutti gli esseri viventi non sono che le diverse manifestazioni dell’unico fenomeno “vita”, attraverso le sue modificazioni nel tempo (e nello spazio). Hic et nunc, si sente continuamente ripetere da persone che credono, con ciò, di aver fatto una fondamentale scoperta filosofica ed esistenziale: ossia che noi esistiamo qui e adesso, non ieri, non domani, non altrove, ma qui e adesso, e pertanto dobbiamo organizzare la nostra esistenza nel senso di poter godere al massimo della consapevolezza di essere qui e non altrove, ora e non in un altro tempo, nel passato che non esiste più, o nel futuro che (ancora) non c’è.

Eppure, vi sono valide ragioni per sospettare che il pensiero moderno, anche in questo caso, come in tanti altri, si sia completamente sbagliato e abbia costruito una serie di castelli in aria, senza saper riconoscere e valutare le cose per ciò che sono, ma imponendo loro la sua tipica sovrastruttura ideologica. La civiltà moderna si fonda sul mito del progresso, quindi sulla spinta verso il futuro; allo stesso tempo, essa è permeata di scientismo, e al centro di ogni scientismo vi è una concezione del reale che tende ad accreditare se stessa come quanto mai “realistica”. Realistico, per la cultura moderna, è giudicare le cose secondo la loro apparenza: naturalmente questo non è realismo, è semplicemente la rinuncia al pensiero, perché l’esercizio del pensiero consiste appunto nel tentar di penetrare oltre l’apparenza delle cose, verso la loro essenza: per descrivere le cose come appaiono, è più che sufficiente una macchina fotografica. Eppure, dire che noi viviamo “qui e ora” fa sempre un certo effetto sulle menti superficiali, perché sembra accordarsi con quel realismo che noi tendiamo ad attribuire alla vita immediata e non riflessa, al solido senso comune, contrapposto alle congetture e alle aeree speculazioni dei filosofi.

La verità è un po’ diversa. Nessuna persona di “buon senso”, specialmente se abituata alla vita pratica e a giudicare le cose per quello che sono, scambierebbe mai il modo in cui si presentano, cioè la loro apparenza, per la “vera” immagine della realtà. L’idea che il realismo sia più vicino alla realtà di qualunque altro atteggiamento speculativo nasce da una proiezione ideologica di quei pensatori che credono di essere più vicini al vero assumendo il punto di vista dell’uomo comune, dell’uomo della strada, laddove non si accorgono che non esiste alcun “uomo comune”, ma esistono sempre e solo individui particolari, e nessun “uomo della strada”, ma sempre e solo persone differenziate, le quali, per il fatto di vedere le cose con immediatezza, non pretendono affatto di aver compreso la realtà meglio dei pensatori di professione, ma semplicemente di sapere quel che c’è da sapere nel loro limitato e specifico ambito d’azione. Il falegname, ad esempio, si fida delle proprie conoscenze a proposito del legno, e, finché si resta su quel terreno, non accetta di prendere lezioni da nessuno, e non ammette che qualcuno gli venga a dire alcuna cosa che sia in contrasto con la sua esperienza; tuttavia, per tutto il resto, compresa l’origine degli alberi, della vegetazione terrestre, del mondo vivente, sa di non sapere e non si arroga la facoltà di esprimere giudizi su quel che non conosce.

In realtà, i pensatori moderni che tentano di far passare il “realismo” come la visione “giusta” del reale, in contrapposizione alla visione “mitica”, o “fantastica”, o addirittura “alienata”, non sanno letteralmente di che stiano parlando; non hanno mai riflettuto che “realismo” non è una clavis universalis, ma una espressione generica, un contenitore nel quale ciascuno può deporre quel che gli pare; e che, se per “realismo” essi intendono l’attitudine a collocare le cose, e anche il punto di vista sulle cose, nell’hic et nunc, allora non c’è niente di più evanescente ed illusorio di siffatto “realismo”, perché “qui” e “ora” non sono concetti ai quali corrisponda una realtà concreta e immediata, ma semplici astrazioni. Che cos’è, infatti, il “qui”, se non la sensazione di esserci? Ma il punto è: dove siamo, quando pensiamo, o diciamo, di essere “qui”? Il “qui” del sogno che abbiamo fatto questa notte, a che luogo corrisponde? E che cosa intendiamo, quando diciamo “ora”, se non l’attimo presente; e che cosa è l’attimo presente, se non un’astrazione? Non possiamo afferrarlo: ogni volta che ci proviamo (lo notava già sant’Agostino), ci sfugge. Diciamo: “adesso”, ma dovremmo dire “un attimo fa”, perché, quando lo pensiamo, mentre lo stiamo dicendo, è già passato, svanito chissà dove. Se c’è una cosa che non esiste, è proprio l’istante; e se c’è una cosa che non si capisce che luogo sia, è proprio il “qui”. Come non si può afferrare l’attimo, non si può nemmeno definire il “qui”, perché manca la determinazione essenziale, cioè rispetto a che cosa noi diciamo: “qui”. È come quelle indicazioni topografiche, lungo i sentieri naturalistici, sulle quali si legge: VOI SIETE QUI, con una bella freccia accanto. Tuttavia, se non si è in grado di dare una latitudine e una longitudine, cioè di individuare sul terreno la zona in cui ci si trova, quella informazione, VOI SIETE QUI, assume una sfumatura beffarda. Che cosa vuol dire? Ne sappiamo tanto quanto ne sapevamo prima di leggerla, cioè nulla.

È curioso. Adottando un punto di vista realistico, il pensiero moderno pensa di aver finalmente aderito alle cose, a differenza del pensiero medievale, che era “solo” il riflesso di un’idea; invece, guardando le cose da vicino, ci si accorge che esse, di per sé, non hanno alcuna informazione da darci, tranne l’utilità pratica e immediata di poter riconoscere la connessione che esiste tra la nostra coscienza e la situazione concreta in cui ci troviamo. Tuttavia, non avendo definito né cosa sia la nostra coscienza, né cosa sia, guardandola nel suo complesso, la “situazione”, ci troviamo in una situazione paradossale, come chi crede di aver capito e non ha capito, o come chi si trova a contare le singole foglie, ma gli sfugge la visione del bosco che sta attraversando. Quanti milioni di foglie dovrà contare, prima di rendersi conto che si trova in un bosco? Non gli basterebbe una vita intera. Ecco, questa è una immagine abbastanza efficace dell’inganno che si cela nell’atteggiamento realistico e pragmatico. La verità è che non basta contare le foglie una ad una, o classificarle e catalogarle in bell’ordine entro un erbario: bisogna interpretare quelle singole informazioni per giungere ad una visione olistica del reale, cioè fare una operazione ermeneutica. E non c’è hic et nunc al mondo che ce ne possa dispensare.

Il filosofo moderno che ha colto meglio di tutti il carattere illusorio del “presente”, inteso in senso realistico, e cioè temporale, è stato Kierkegaard; a lui, viceversa, va il merito di aver mostrato come il “vero” presente non sia quello dell’adesso, ma quello dell’eternità, perché ad esso solamente spetta la qualifica di tempo assoluto, che noi, solitamente (ed erroneamente) attribuiamo all’adesso.

Ha osservato il linguista e francesista Lionello Sozzi (Lecce, 12 agosto 1930-Torino, 25 settembre 2014) nel suo saggio Vivere nel presente. Un aspetto della visione del tempo nella cultura occidentale (Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 342-343):

Affermato, e questa volta su base hegeliana, il concetto di una temporalità come passaggio e mutamento e richiamato, per converso, quanto Platone dice dell’attimo nel “Parmenide”, Kierkegaard ad un tempo nega l’attimo e ne dichiara il valore assoluto, vede nell’uomo “una sintesi del temporale e dell’eterno” (“Il concetto dell’angoscia”, tr. Firenze, 1942, p. 32), ma poi chiarisce che nel tempo quale usualmente viene suddiviso il presente praticamente non esiste: “appunto perché ogni momento, così’ come la somma dei momenti, è un processo, un passare, nessun momento è presente; e perciò nel tempo non è né un presente, né un passato, né un futuro” (ib., 93). Poi aggiunge: “La successione infinita del tempo è un presente infinitamente privo di contenuto. Questa è la parodia dell’eterno” (ib., 95). Kierkegaard ritorna a parlare di parodia poco più avanti, a proposito dell’attimo visto a volte, per le sue apparenti implicazioni di pienezza assoluta e di totale appagamento, come intuizione dell’eterno;: la vita che si svolge nel tempo non ha nessun presente e quindi l’attimo (questo ci pare che Kierkegaard voglia dire), vissuto, assaporato e goduto come suprema estasi, in realtà non che la parodia di un’eternità raggiunta solo in apparenza: “Il tempo […] è la successione infinita; la vita che è nel tempo ed è soltanto nel tempo, on ha nessun presente. Veramente si suole dire talvolta, per definire la vita sensuale, che essa è nell’attimo e soltanto nell’attimo. Per attimo si intende allora l’astrazione dall’eterno, la quale, se dev’essere il presente, è la parodia dell’eterno” ((ibid.). Risiede in questo equivoco, dice più oltre il filosofo, “l’imperfezione della vita sensuale”. La vera eternità, il suo coincidere col vero presente, sono ben altra cosa. Non esistendo, il presente e l’istante non possono essere cifra dell’eterno, ma se l’attimo non può rinviare all’eterno, “l’eterno, invece, è il presente”: è il presente nel senso che non conosce la successione, il passaggio, aspetti costanti, come si è visto, della temporalità: “Se si pensa l’eterno, esso è il presente come la successione tolta, mentre invece il tempo era la successione che passa” (94-95). Kierkegaard evidenzia insomma due presenti: un presente che è astrazione perché l’attimo in realtà non esiste essendo il tempo un continuo fluire e perché è legato, come si è visto, all'”imperfezione della vita sensuale”, ed un presente che invece assorbe un sé tutti i tempi e coincide, pertanto, con la vera eternità. In questa luce, a che l’attimo recupera la sua vera pienezza: dopo averne negato la tangibile verità, Kierkegaard giunge ad ammettere il suo coincidere con l’eterno, poiché scrive: “L’attimo, in fondo, non è l’atomo del tempo, ma l’atomo dell’eternità; è il primo riflesso dell’eternità nel tempo, il suo primo tentativo, per così dire, di fermare il tempo”. Quella che prima era sembrata una parodia, ora sembra definirsi in termini di ambiguo e forse sofferto tentativo: “L’attimo è quell’ambiguità nella quale il tempo e l’eternità si toccano” (97-99).

Concordiamo, ma non riusciamo a scorgere alcuna contraddizione nel pensiero di Kiergegaard sul presente, quanto all’ambiguità dell’attimo, perché essa dipenda dal duplice, possibile punto di vista da cui lo si considera. Per capire Kierkegaard, bisogna sempre ricordare che, fra tutti i pensatori del tempo moderno, egli è il più lontano, il più estraneo, il più refrattario allo spirito della modernità (che pur conosce assai bene), e dunque alla concezione storicista del pensiero moderno. Per Kierkegaard, come per i grandi teologi del Medioevo, esistono due distinti piani di realtà, quello del finito e quello dell’infinito: relativo il primo, assoluto il secondo. Le cose sono quelle che sono a seconda da quale prospettiva le si consideri, se da quella del finito e del relativo, oppure da quella dell’infinito e dell’eterno. Tutte le cose che sono oggetto della nostra esperienza e della nostra riflessione soggiacciono a questa duplice lettura e manifestano questo duplice significato. Pertanto, l’ambiguità non risiede né nel pensiero di Kiekegaard, e neanche nelle cose in sé, ma nella coscienza che le percepisce e che non sa decidersi su quale piano collocare la propria lettura. Se noi leggiamo l’attimo in senso finito e relativo, esso non esiste, puramente e semplicemente: è assenza, perché, come diceva Eraclito, “tutto scorre” e nulla permane; se lo leggiamo in senso infinito e assoluto, allora esso non solo esiste, ma è il presente, il “vero” presente, che dura per sempre perché non ha durata (e non perché la sua durata si prolunghi indefinitamente).

Ora, per Kierkegaard la vita è scelta, quindi è decisione: noi dobbiamo scegliere nel tempo, ma, contemporaneamente, scegliamo anche nell’eternità, perché le cose finite non sono che lo specchio e il riflesso della realtà infinita. Ecco perché la nostra vita è terribilmente seria, più seria di quanto l’uomo moderno solitamente pensi: perché ogni scelta che compiamo nella sfera del relativo, si riflette e si proietta nella dimensione dell’eternità. Noi, infatti, siamo cittadini di un duplice ordine di realtà; abbiamo, per così dire, la doppia cittadinanza, del mondo naturale e contingente, e, allo stesso tempo, del mondo soprannaturale e assoluto. Siamo, nostro malgrado, anche cittadini dell’eternità; solo che tendiamo a scordarcene. Finché viviamo immersi nel relativo, siamo legati alla dimensione estetica; solo la scelta religiosa ci proietta verso la nostra vera patria, che è l’eternità; ma, a questo fine, è necessario che decidiamo, con timore e tremore, di vivere per Dio…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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