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Il segreto della pace è rimettersi alla volontà di Dio

Fare sempre la volontà di Dio; anteporla ad ogni altro ragionamento e ad ogni calcolo di umana convenienza; spogliarsi della propria volontà per accogliere interamente quella divina; accettare e ringraziare sempre Dio di tutto ciò che ci manda, sia le prove che le gioie, conservando inalterata e incrollabile l’assoluta certezza che nulla viene dal caso, nulla è ingiusto, nulla è assurdo, se noi lo viviamo come parte di un disegno perfetto e provvidenziale, che non possiamo comprendere sino in fondo con la nostra intelligenza, ma del quale possiamo e dobbiamo fidarci: questo è il segreto della pace del cuore, che tante persone cercano invano in mille direzioni, ma senza mai riuscire ad afferrarlo, senza neanche arrivare a intravederlo.

Per quale ragione ci inquietiamo, se qualcosa non va secondo i nostri desideri? Perché crediamo di saperne più di Dio riguardo a ciò che è bene per noi. Per quale ragione imprechiamo contro la sorte, se veniamo colpiti da un’avversità, da una prova, da una malattia? Perché il nostro ego vorrebbe sempre e solo piaceri e soddisfazioni, e mai contrarietà o affanni: come un bimbo viziato che pretende di non trovare mai una mela con il verme nel cesto della frutta, né una noce guasta, né un grappolo d’uva un po’ appassito. E per quale ragione arrotiamo i denti e stringiamo i pugni se altri ricevono cose migliori di noi o se ottengono riconoscimenti che a noi non sono dati? Perché ci divora l’invidia, ed essa nasce dall’ego, e questo da un impulso cieco e insaziabile, che non sa mai dire "tu", né riconoscere i meriti altrui, e che giudica come un affronto personale e come fossero rubate a lui stesso le cose che vorrebbe per sé, ma che non gli è dato raggiungere.

La pace del cuore viene dalla piena accettazione della volontà di Dio e non dalla soddisfazione dei desideri umani; i quali, abbandonati a se stessi, tendono ad essere sempre più disordinati, e, di conseguenza, sempre più grandi, sempre più avidi, e tali da moltiplicarsi e crescere a dismisura, mano a mano che i primi vengono soddisfatti. La maggior parte dei cosiddetti credenti dicono di aver fede in Dio, ma, in realtà, non appena vengono messi alla prova, mostrano di fidarsi solo di se stessi: si aggrappano alle cose, alle loro brame, alle loro aspettative, fanno resistenza all’azione di Dio, alla grazia dello Spirito Santo: se avessero davvero un po’ di fede, si lascerebbero andare e si renderebbero docili strumento della mano di Dio, permetterebbero a Lui di operare attraverso di loro e ne sarebbero felici, appagati, pienamente realizzati. Siamo soliti dire: quell’uomo è ben fortunato, perché ha potuto realizzarsi interamente; ma quale realizzazione potrebbe mai esistere, al di fuori o, magari, contro la volontà di Dio? Assolutamente nessuna. O l’uomo si fida di Dio e si lascia condurre da Lui, oppure non è che un povero essere mancato, un bruco che non è mai riuscito a diventare farfalla, un fallito.

Un grande mistico medioevale, il domenicano Giovanni Taulero (Strasburgo, 1302 ca-ivi, 1361), discepolo di Meister Eckhart, sosteneva che solo l’intima unione con Dio permette la vera conoscenza, e non lo studio della teologia; cita infatti più volte san Tommaso d’Aquino, ma non in quanto teologo neo-aristotelico, bensì in quanto uomo che ha saputo realizzare in sé l’unione mistica con Dio. I grandi teologi di Parigi leggono i grossi volumi e ne voltano i fogli. Ciò è molto buono. Ma queste persone (interiori) leggono il libro della vota dove tutto è vivente, voltano il cielo e la terra e vi leggono la meravigliosa opera di Dio. […] E tutti gli eruditissimi maestri di Parigi, con tutta la loro sottigliezza, non potrebbero giungervi. E se volessero parlarne, dovrebbero ammutolire, e più volessero parlarne, meno lo potrebbero e meno lo comprenderebbero. E non solo naturalmente, ma neppure tutta la ricchezza della grazia né tutti gli angeli e santi potrebbero concedere loro di parlarne. Solo un uomo semplice, che si è abbandonato a Dio ed è umile, sperimenta e sente questa unione con Dio nel suo fondo interiore (Louise Gnädinger, Giovanni Taulero. Ambiente di vita e dottrina mistica Ed. Paoline, Torino, 1997, pp. 69-70).

Nella sua vita c’è stato un episodio che permette di comprendere, con limpida chiarezza, cosa intendono i mistici quando parlano dell’abbandono totale e fiducioso alla volontà di Dio. Lo riportiamo così com’è stato narrato da un religioso che è vissuto nel nascondimento, coerentemente con la sua dottrina di vita, e infatti ci ha lasciato un paio di volumi firmati solo con il suo nome da monaco passionista, padre Cristoforo dell’Addolorata. Il primo, Il gigante della Croce, è una biografia del fondatore dell’ordine dei passionisti, san Paolo della Croce (1694-1775); il secondo, intitolato Il Crocifisso nella vita spirituale, è costituito da una ricca serie di meditazioni e di esempi storici sul valore del Crocifisso nella vita degli uomini. Da esso riportiamo questo episodio della vita di Giovanni Taulero, illustrante l’importanza di uniformare sempre la propria vita alla volontà di Dio (op. cit., Basella, Bergamo, 1949, 1964, pp. 212-214):

Il celebre Taulero aveva un grande desiderio di farsi santo; ma siccome non si fidava della sua scienza, pregò Dio per ben otto anni a volergli inviare un maestro che gli insegnasse la via più sicura e più breve per diventare santo. Un giorno pregando con più fervore per ottenere questa grazia, sentì una voce ce gli disse: "Esci e troverai sulla gradinata della Chiesa quello che cerchi".

Corse subito fuori di Chiesa, ma trovò solo un mendicante, sporco, scalzo, malissimo vestito da stracci… Quello era il maestro di vita spirituale chiesto da lui?… Proprio quello!

"Buon giorno", gli disse Taulero.

"Ti ringrazio del salute, ripose il medicane, benché non mi ricordi d’aver mai avuto un cattivo giorno".

"Sono contento, continuò Taulero, e desidero che Dio ai buoni giorni passati aggiunga ogni possibile felicità".

"Ti ringrazio ancora, rispose il cencioso, sappi però che non sono mai stato infelice, e che in tutta la mia vita non ho mai incontrato una disgrazia".

Stupito Taulero proseguì:

"Voglia Dio che oltre alla presente felicità, possa conseguire anche l’eterna. Devo però confessare che le tue parole mi sono un po’ oscure".

"Ma la tua meraviglia sarà maggiore se ti assicuro che fui sempre felice e lo sono ancora adesso".

"Son proprio sorpreso delle tue parole, però ti prego di parlarmi con maggior chiarezza".

Allora il povero straccione disse:

"Io ti dissi di non aver mai avuto un giorno cattivo, perché i nostri giorni sono cattivi, solo se non s’impegnano a dare a Dio, mercé la nostra sottomissione, la dovuta gloria; sono sempre buoni se li spendiamo ad adorare e lodare Dio; questo ci è sempre possibile qualunque cosa avvenga. Come vedi io sono un povero mendicante, ammalato, senza aiuto né patria, costretto a girare il mondo e a sostenere privazioni grandi. Ebbene se io patisco la fame, perché nessuno mi dà da mangiare, lodo Iddio. Se sono all’aperto, esposto alla pioggia, alla grandine, al vento, e le mie membra s’irrigidiscono perché i miei poveri cenci non mi possono riparare dal freddo, ne ringrazio Dio. Se gli uomini mi disprezzano perché sono povero e miserabile, lodo ed esalto la divina maestà. In una parola, tutto mi dà occasione di lodare il Signore. La mia volontà è sempre unita perfettamente a quella di Dio, ed esalto il suo santo Nome in tutte le cose. A questo modo ogni giorno è buono per me, perché NON SONO LE AVVERSITÀ CHE RENDONO CATTIVE LE NOSTRE GIORNATE MA LA NOSTRA IMPAZIENZA. Ora perché siamo noi impazienti se non perché la nostra volontà si ribella invece di piegarsi, com’è suo dovere, a lodare Dio? Ti ho detto che in tutta la mia vita non ho mai incontrato un’avversità. Difatti se tutti gli uomini si stimano sommamente felici quando i loro affari vanno bene, tanto che non potrebbero sperare di meglio: io come vedi, sono sempre felice, perché siccome non accade mai nulla contro il volere di Dio e quanto Lui dispone a nostro riguardo è sempre il meglio per noi, perciò io sono sempre felice, mi mandi o permetta Dio ciò che vuole. E come non dovrei essere felice se penso che qualunque cosa accada per me è la più utile e la più adatta al mio maggior bene. La volontà di Dio costituisce la mia perfetta beatitudine. Ogni disposizione del Signore mi rende così contento che ne godo mille volte di più di quanto possa un altro godere soddisfacendo alle proprie inclinazioni naturali".

Taulero ammirò la profonda sapienza di questo povero mendicante, e capì che la via più breve e più sicura per divenire santo è fare sempre la volontà di Dio.

Nei termini del pensiero stoico, potremmo dire, con Epitteto, che noi non soffriamo per le cose del mondo, ma per le nostre credenze sulle cose del mondo.

Ora, se la filosofia pagana era giunta a vedere con tanta chiarezza che non sono le cose in se stesse ad essere, per noi, belle o brutte, piacevoli o dolorose, ma il valore di bellezza e di bruttezza, di piacere o di dolore che noi attribuiamo loro, e dunque, in un certo senso, il potere che noi diano ad esse, perdendo il controllo su noi stessi, e trasferendolo alle cose esterne, tanto più dovrebbe essere chiaro, nei termini della visione cristiana, che la fede assoluta in Dio e nella sua bontà e sapienza infinite dovrebbe costituire, per noi, la differenza fra una vita felice e una vita infelice. Felice, infatti, per il cristiano, è la vita che riconosce in ogni cosa l’impronta della sapienza e della bontà del Creatore di tutte le cose; infelice, la vita di chi, non sapendo fare questo, si ostina a trovare che le cose sono belle o brutte, buone o cattive, a seconda che coincidano, oppure no, con i nostri umani desideri e con le nostre umane speranze.

Il cristiano dovrebbe allenarsi a ricordare a se stesso questa semplice verità: che noi siamo dei pessimi giudici di quel che è bene e di quel che è male per noi, e, di conseguenza, di quel che è auspicabile che ci accada. Se tutto dipendesse da noi, infatti; se noi fossimo come dei piccoli dei per noi stessi, e potessimo far sì che ci accada solo quel che vogliano e tutto quel che speriamo, allora, con assoluta certezza, noi non impareremmo mai quel che è necessario imparare dalla vita; non evolveremmo, non cercheremmo quel che è realmente il meglio per noi, dal momento che la natura umana è egoista, e il giudizio umano sulle cose è limitato, contingente, imperfetto, e, come se non bastasse, mutevole. Accade, infatti, anzi, è assai frequente, che noi non arriviamo a desiderare al sabato, quel che desideravamo sopra ogni altra cosa il lunedì: ci bastano pochi giorni per stancarci di quello che abbiamo, e, una volta raggiunta la nostra meta, subentrano la delusione, la noia e una rinnovata insoddisfazione. Siamo creature perennemente desideranti: non ci stanchiamo mai di desiderare qualcosa, qualsiasi cosa, purché si tratti di qualcosa che ancora non abbiamo; salvo poi, una volta avutala, provare rapidamente assuefazione, disincanto e indifferenza nei suoi confronti, e perciò ricominciare a desiderare ardentemente un nuovo oggetto. In altre parole, siamo delle creature in costante disaccordo con se stesse: c’è una parte di noi che vuole una cosa, un’altra parte che non vuole quella, ma ne desidera un’altra; sicché è impossibile che noi, qualsiasi cosa facciamo e comunque si risolva la nostra lotta per raggiungere le cose che, viste da lontano, ci apparivano così desiderabili, il risultato, presto o tardi, sarà sempre lo stesso: uno stato di cronica scontentezza e d’irrimediabile insoddisfazione. Nemmeno un dio che si ponesse interamente al nostro servizio, date le premesse, ci potrebbe aiutare, come illustra la favola della lampada di Aladino: perché, se noi non siamo capaci di vedere quel che realmente dovremmo desiderare, la possibilità di tradurre in atto i nostri desideri non potrà avvicinarci d’un passo alla meta della felicità.

C’è una sola maniera per non trovare deludenti le cose e per non disgustarci né di esse, né di noi stessi, che continuiamo a ingannarci nel giudicare quel che dovremmo volere e quel che dovremmo cercare: lasciare che sia fatta la volontà di Dio. Noi siamo come dei bambini, immaturi e capricciosi: non abbiamo sufficiente giudizio per sapere e per capire quel che è conveniente al caso nostro. Questa è la verità: e chi se ne persuade, è cristiano; mentre chi non ne è persuaso, pensa di poter sapere quel che sia bene meglio di quanto lo sappia Dio. Per il cristiano, infatti, nulla accade che Dio non lo voglia o non lo permetta: Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! (Mt., 10, 29-31). Pensare che noi siamo migliori giudici di Dio quanto al nostro bene, equivale a negare la sua sapienza e la sua provvidenza; equivale, cioè, a negare il Dio del Vangelo, il Verbo Incarnato. E, se si arriva a quel punto, ci si può chiamare come si preferisce, anche cristiani, se così fa piacer, ma la verità è che si è pagani: perché è proprio del paganesimo fabbricarsi un’idea tutta umana di Dio e pensare che Dio, per dimostrarci che esiste e ci ama, deve fare esattamente ciò che vorremmo noi…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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