
«Non ritornate sotto il giogo degli infedeli»
24 Febbraio 2017
Si son dimenticati della Croce…
25 Febbraio 2017Alfredo Oriani: il grande dimenticato, il grande rimosso della letteratura italiana.
Si prenda una storia della letteratura ad uso scolastico, una a caso, e a stento vi si troverà, forse, un accenno, una citazione, un riferimento; ma un capitolo a lui dedicato, no, mai; una pagina tratta da qualche sua opera, praticamente mai. E questo mentre ci s’imbatte continuamente in pagine di autori che valgono meno dell’unghia del dito mignolo di lui.
Viene da chiedersi da dove vengano un oblio così implacabile, un silenzio così assordante; da dove provenga quella sorta di rancore, di astio, che s’intuisce dietro di essi: perché, in una rimozione tanto vistosa e così palesemente ingiusta, così palesemente assurda, non possono che celarsi dei sentimenti molto forti, che vanno oltre il semplice giudizio critico, di qualunque segno quest’ultimo sia. Alfredo Oriani ha avuto non molti lettori in vita, molti di più in morte; a un certo punto, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, la sua fama è stata ufficialmente stabilita, le sue opere sono state ripubblicate, recensite, la sua grandezza è stata riconosciuta, sia pure assai tardivamente. E poi, che cosa è successo? Dopo il 1945, il suo nome si eclissa nuovamente; i professori smettono di occuparsi di lui, gli editori mutano parere e sospendono le ristampe; i critici, infine, sono colti da amnesia collettiva, oppure, se si sdegnano di nominarlo ancora, non gli risparmiano un solo difetto e tacciono, in compenso, tutti i pregi della sua scrittura — e sono molti. Che cosa è successo, dunque? Gli ha nuociuto l’essere stato rivalutato in epoca fascista, essere stato riproposto al pubblico negli anni del regime? È stato anche lui colpita dalla damnatio memoriae di tanti scrittori fascisti, come Mario Appelius, Concetto Pettinato, per non parlare di Alessandro Pavolini, del quale ancora adesso il grosso pubblico sa solo che fu una delle "anime nere" della Repubblica di Salò, ma ignora che scrisse una quindicina di volumi, o di Ugo Ojetti, che di volumi ne scrisse più di venti, e che è stato uno dei più grandi giornalisti italiani, ma che, per aver aderto alla Repubblica Sociale, venne radiato dall’Ordine dei giornalisti e bandito per sempre dai salotti buoni della piccola, rancorosa e vendicativa Repubblica di Pulcinella, sorta nel 1946? Eppure il povero Alfredo Oriani, nato a Faenza il 22 agosto 1852, si spense a Casola Valsenio, anch’essa in provincia di Ravenna, il 18 ottobre 1909, vale a dire un decennio prima della storica adunata di Piazza San Sepolcro, che vide la nascita dei Fasci di combattimento (23 marzo 1919). Non solo, perciò, non conobbe il fascismo, ma non vide neppure la Prima guerra mondiale (e neanche quella di Libia, se è per questo: durante la quale il giovane Mussolini protestava con tutte le sue forze contro il colonialismo nostrano…), nella quale si formò il brodo di cultura da cui il fascismo sarebbe nato. E allora? Forse che gli nocque il riconoscimento "ufficiale" della sua opera, e soprattutto del suo pensiero, da parte del fascismo, e il fatto che questo promosse la pubblicazione integrale dei suoi libri, per un totale di ben 30 volumi, ad opera della casa editrice Cappelli di Bologna, personalmente curati (almeno sulla carta) da un altro romagnolo purosangue, un certo Benito Mussolini? Crediamo proprio che sia così; o, in ogni caso, che questa spiegazione sia, fra le altre possibili, quella che maggiormente si avvicina alla verità.
All’interno della generale rimozione della produzione letteraria di Oriani, si colloca la dimenticanza di quello che è stato uno dei suoi libri migliori, un piccolo capolavoro presto caduto nell’oblio: Vortice, apparso nel 1899, e cioè un anno dopo Senilità, il secondo dei romanzi di Italo Svevo, che, invece, ignorato sul momento, sarebbe poi stato "ripescato" dalla fama, in gran parte postuma, ma tuttora godente ottima salute, del suo autore, anche se ci sono pochi dubbi che Vortice sia più compatto, più vigoroso, e scritto assai meglio di Senilità. Il che ci ricorda ancora una volta, se pure ci capitasse di scordarcene, che la fama di un’opera letteraria è legata a una quantità di fattori, che solo in parte, e talvolta in minima parte, hanno a che fare con la sua qualità intrinseca, mentre, per tutto il resto, hanno a che fare con l’ideologia, le simpatie, le amicizie politiche, la massoneria, le raccomandazioni e… il denaro. (Senza denaro e senza raccomandazioni, qualcuno si sarebbe mai dato la pena di pubblicare, recensire e di favorire la diffusione di due libri totalmente insulsi, come Vestivamo alla marinara di Susanna Agnelli e La sera andavamo in Via Veneto di Eugenio Scalfari? Guarda caso, entrambi usciti con due dei più grossi editori italiani, rispettivamente Mondadori ed Einaudi; e il secondo, in teoria, editore storico della "sinistra", ma pur così’ sollecito nei confronti delle velleità letterarie di uno autore non certo proletario e non certo marxista). Ah, già: ma Svevo ha aperto la strada alla psicanalisi, e Oriani no. E dunque? Forse che in romanzi come No, Al di là, Gelosia e Vortice, solo per citarne alcuni, Oriani non si dimostra sottile esploratore dell’anima umana e dei meccanismi inconsci? Già, l’inconscio: pare che lo abbia scoperto Freud, mentre è evidente a chiunque che esso è già al centro della riflessione di Eschilo, Sofocle, Euripide, oltre duemila anni fa; e non parliamo di Shakespeare, Goethe, Dostoevskij. Svevo, però, interpreta l’inconscio alla luce della psicanalisi; Oriani, no. È questo che fa la differenza? Se è così, allora bisogna concludere che si tratta di una differenza ideologica, ossia di ciò che rende un’opera, o meno, conforme ai canoni del politically correct; non di qualcosa che riguardi veramente la letteratura.
Vortice è la storia di un suicidio, o meglio, della decisione di suicidarsi da parte di Adolfo Romani, un piccolo borghese, sposato e padre di famiglia, che, a causa del suo stile di vita spensierato, non riesce a starci dentro coi suoi mezzi modesti e falsifica una cambiale: sul punto di essere scoperto, sceglie di togliersi la vita per sfuggire al disonore. Nulla di particolarmente originale, come si vede; del resto, la trama è resa ancor più esile dalla scelta dell’Autore di non fare ricorso ad alcuna storia secondaria, ad alcuna vicenda collaterale, ma di concentrarsi unicamente sul flusso di pensieri e sulla crescente angoscia dello sfortunato protagonista, in un climax che rende mirabilmente l’ingigantirsi della sua disperazione. Il tutto nell’arco di una sola giornata: unità di tempo, di luogo, di azione, secondo la migliore tradizione classica. Tuttavia, e qui si vede l’impronta del genio, da questa materia prevedibile, e, di per sé, quasi banale (in senso letterario, s’intende; non in senso umano), Oriani sa trarre un ritratto superbo della disperazione di un pover’uomo qualsiasi: di uno che non ha nulla dell’eroe, e sia pure dell’eroe negativo, nemmeno la grandezza, ci si passi il bisticcio, della meschinità. No: si tratta proprio di un’anima mediocre, di un tipo banale, senza alcun vizio e nessuna virtù che ce lo rendano caro, oppure odioso; di uno dei tanti che passano sulla terra e di cui si perde subito il ricordo, come di un viso nella folla, un viso anonimo, simile a quello di cento e cento altri. Eppure, quest’uomo comune, comunissimo, ci rimane impresso per sempre, dopo che abbiamo chiuso l’ultima pagina del romanzo. Perché? Perché Alfredo Oriani, da questa materia grigia e quasi informe, ha saputo trarre un’opera di grande efficacia e di notevole intensità drammatica; un’opera che mette a nudo pieghe nascoste dell’anima umana, e che lo fa proprio per mezzo del contrasto con la normalità del mondo circostante, degli amici, dei conoscenti, che non sanno, che non comprendono, sicché il morituro è già solo, completamente e inesorabilmente solo, in una terra di nessuno, mentre ancora parla, si muove, vive, apparentemente, in mezzo ai suoi simili, e alle cose di ogni giorno.
Il critico letterario – e poeta, e scrittore lui stesso — Giuseppe Lipparini (Bologna, 1877-1951) ha saputo cogliere con mirabile acutezza la qualità di quest’opera di Oriani, nel saggio introduttivo all’edizione di Cappelli del 1924 (pp. VII-XI):
… In realtà, anche il suicidio di Romani è una espiazione; si potrebbe anche aggiungere che egli è una vittima della società e dei suoi pregiudizi crudeli: ma è certo ch’egli potrebbe anche non uccidersi, se così gli piacesse. Allora, la grandezza dello scrittore è nel mettere il lettore in uno stato d’animo tale per cui il suicidio gli sembri logico e inevitabile.
Quel povero Romani è uno degli innumerevoli uomini "senza infamia e senza lodo" che camminano sopra la terra e che riescono alla meglio a trascinare sin ala fine la loro esistenza mediocre. Già tutto è mediocre introno a lui, nella cittadina romagnola presso la quale la vicina Bologna è una metropoli di lusso e di piacere. La sua vita si svolge fra il circolo e il caffè:, e la casa con la moglie e i due bambini; i soliti amici, le solite chiacchiere, le solute contese provinciali con i loro odi e i meschini rancori. Ogni tanto, la cena, la ribalta, la donnetta… Il patrimonio è piccolino, la voglia di lavorare è poca, anche per quella vanità del borghese o del signorotto di provincia che vuol vivere di rendita; così a poco a poco le ipoteche nascono sul fondo paterno come le erbacce, mentre la vita continua a scorrere placida ed eguale verso la rovina.
È il fatalismo tranquillo dei deboli, che sperano sempre nel miracolo, nella fortuna imprevista, e tirano avanti a forza di espedienti; ma talora il destino beffardo si incarica di affrettare il dissolvimento con una di quelle burle dalla maschera deliziosa e attraente a cui l’uomo cede per la debolezza della sua carne matta. La compagnia di operette che capita nella piccola città: la mediocre generica che sorride al passante e accetta da lui la cena: la femmina astuta e carnale che passa nella sua vita come un turbine di vizio e di piacere inebriandolo e dissanguandolo; finché un giorno, quando ella è partita, e tutto è ritornato quieto e monotono come prima, egli si trova con una cambiale falsa che un giorno bisognerà pure pagare.
Il dramma comincia di qui, allorché egli tornando una notte da Bologna dove invano ha cercato di aggiustare i propri interessi per i bisogni più urgenti, trova in casa la lettera confidenziale di un amico cancelliere che lo avverte come lo strozzino si sia accorto della falsificazione, ed abbia senz’altro presentato la cambiale al pretore benché alla scadenza manchino ancora due mesi. Il dramma comincia di qui ed è tutto qui. Siamo ancora alle primissime pagine del racconto, e la soluzione è già decisa. Quel tale protagonista silenzioso affaccia subito la sua ombra cupa. Davanti all’impreveduto che lo colpisce, l’uomo non ha che una via: MORIRE.
Le duecento pagine di "Vortice" sono la storia di questa agonia. L’uomo è afferrato nel vortice, e non può più tornare indietro. Il moto circolare è lento ma inesorabile; siora in ora, la spirale si restringe e l’abisso si avvicina. Il distacco alla vita è lento e continuo, benché tutto proceda come al solito, e nessuno sospetti di nulla, nelle solute vane occupazioni di una giornata festiva. Egli è un condannato amore; ma nessuno lo sa. La moglie, la tenera mite compagna, non sospetta nulla; i bambini giocano innocenti, come prima. Al passeggio e al caffè; gli amici sono gli stessi, i discorsi sono sempre quelli. Nessuno sa nulla e immagina nulla; domani, quando lo scandalo scoppierà, egli sarà morto. Un altro sarebbe fuggito o avrebbe affrontato il processo; Romani, no. Egli, che pure troverà finalmente la forza di morire, non ha quella di combattere. Meglio sparire.
Al piano di sopra abita un vecchio prete più che ottantenne il quale vive aspettando la morte, nel continuo terrore della morte. Eppure, esso non le è così vicino come questo vivo che ha le ore contate e nessuno lo sa. Nel colloquio che i due hanno incontrandosi per caso a passeggio, il contrasto è potente: Ma ve n’è un altro, la cui potenza tragica si colorisce di un pallore malinconico e si risolve in un inno alla vita. Il suicida cammina solitario dietro il muraglione del cimitero, sul fiume torbo e arido dentro gli argini alti, meditando il passo che si dovrà compiere fatalmente. Ed ecco, a pochi passi da lui, una vice giovanile intonare un’aria. È il figlio di un ortolano, caduto piccino da un albero e rimasto con le reni fracassate; non è vivo che dalla cintura in su; eppure vive.
"Egli, morto a metà, cantava. Con una mano si reggeva ad un ramoscello dell’albero, tenendo il viso in alto, colle spalle quasi nella siepe, così che si distingueva appena tra il fogliame la sua figura. Poi tacque. L’ora era deserta: un uccello pigolò dal’altra ripa del fiume; lontano, ad un campanile suonò ancora una messa."
È una pagina stupenda; ma ve ne sono molte, in questo libro più amaro della morte.
Quelle ventiquattr’ore di agonia sono per l’uomo una catarsi. L’idea del morire a poco a poco gli si accosta sempre più, diviene tutt’uno con lui. Quando ormai la sua risoluzione è presa, egli, ormai solo in mezzo alla folla, si sente migliore di tutti quelli che lo circondano. "La morte innalza sempre". Un suo amico, giocatore sfrenato e vico a rovinarsi, pensa a tutto fuorché a morire. Romani gli domanda: "Ma quando sarai rovinato?". L’altro si contenta di alzare le spalle; allora egli insiste: "Tu non ci pensi dunque?". E il giocatore risponde: "A che serve il pensarci?"
Sta bene; ma viene poi ilo "momento di dover pensare per forza". E allora? Romani entra la caffè; a scrivere una lettera per raccomandare i bambini a una vecchia zia benestante. Quando esce con la lettera in mano, l’amico gli offre di andargliela a impostare. Ora, finché essa non era impostata, la cosa non era ancora decisa. Da quel momento, il destino è più irrevocabile che mai. È la fatalità che opprime. Romani pensa rabbrividendo: "In ultimo, vi è sempre qualcuno che vi spinge".
Di Alfredo Oriani ci eravamo già occupati a suo tempo (cfr. l’articolo Alfredo Oriani aveva poca stima delle donne forse perché troppo innamorato della Donna, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 02/09/2013), per cui non vogliano ripetere cose già dette. Ci limiteremo a osservare che, da solo, un romanzo come Vortice avrebbe dovuto meritargli la riconoscenza della repubblica delle patrie lettere, tanto più che, in quegli anni, il genere romanzo, in Italia, non aveva prodotto nulla di notevole, a parte Il piacere di D’Annunzio, tutt’al più qualche esperimento interessante da parte degli scapigliati; e invece non è bastato neanche ad assicurargli un po’ di fama e un po’ di autorità e di prestigio culturale, nel chiuso mondo professorale dominato dai tromboni ufficiali come Carducci, o dai giovani superuomini come D’Annunzio. La critica, bacchettona e implacabile, lo tenne astiosamente in disparte per tutta la vita (forse qualche diktat non ufficiale, ma inappellabile, delle logge massoniche?); nemmeno uno dei suoi molti libri, compresi dei saggi notevoli per originalità e acutezza, come La rivolta ideale o La lotta politica in Italia, valse ad assicurargli la notorietà e la sicurezza economica. Non si può non provare una stretta al cuore pensando che autori che scrissero molto, ma molto meno di lui, come appunto Svevo, o molto, ma molto peggio di lui, come il troppo sopravvalutato Alberto Moravia, ebbero, al suo confronto, l’uno negli ultimi anni, l’altro fin da giovane, una accoglienza infinitamente più lusinghiera da parte della critica, ed una popolarità immensamente superiore alla sua. Semplici coincidenze? Oppure Oriani, che pure era un ribelle per temperamento, per aver messo al centro della sua opera i valori tradizionali, a cominciare dalla patria – che avrebbe voluto più grande e più ardimentosa, e nei cui alti destini ebbe sempre una fede incrollabile -, dispiacque alla cultura della seconda metà del Novecento, così come già era spiaciuto a quella di fine Ottocento e dei primi del secolo successivo? Se questo è vero, e i fatti lo dimostrano, allora non è affatto un caso che la Repubblica di Pulcinella, nata nel 1946, abbia ripreso il cammino interrotto dell’Italietta liberale e benpensante, perennemente impegnata nell’arte del tirare a campare: e che abbia archiviato esperienze letterarie come quella di Alfredo Oriani, allo stesso modo in cui, per legittimare e, se possibile, nobilitare, la propria continuità ideale, ha preteso di archiviare vent’anni della storia politica italiana: quelli del fascismo…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels