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L’uomo assoluto della magia etrusca incarna l’eterno sogno prometeico e faustiano

La tentazione della magia è antichissima: si perde nella notte dei tempi, fra le tribù più primitive della Nuova Guinea; la ritroviamo ai nostri giorni, all’ombra dei grattacieli: ogni tanto si sente che un noto uomo politico, una nota candidata alla presidenza dello Stato X, frequentano circoli esoterici, si fanno predire il futuro da maghi, commissionano il loro oroscopo settimana per settimana. In che cosa consiste, la tentazione della magia? Nel ritenere possibile, e perfettamente attuabile, un dominio pressoché completo sulle forze ignote operanti nella natura, o sugli spiriti che ad esse presiedono: in altre parole, sostituirsi agli dei e perfino dare loro degli ordini, evocarli o respingerli, mediante il possesso di rituali segreti estremamente precisi. James Frazer pensava che la magia sia la prima tappa d’un cammino evolutivo che conduce poi alla religione e, infine, alla scienza; ma si tratta di una teoria, opinabile come tutte le teorie. Da parte nostra, propendiamo a credere che la magia non sia l’antenata della religione, ma la sua antagonista: o si è dediti alla magia, o si è devoti a divinità. Il quadro, però, è relativamente chiaro solo nelle religioni superiori, e definitivamente illuminato nella prospettiva del cristianesimo; nelle religioni primitive è innegabile che una contaminazione fra le due sfere vi sia, al punto che, specialmente per certi popoli africani, si può dire che la religione si riduca a un complesso di credenze e rituali magici.

Fra i popoli antichi superiormente organizzati, sappiamo che gli egiziani, i sumeri, i babilonesi, erano molto dediti ai rituali magici; un po’ meno i greci, i persiani, i romani (ma, per questi ultimi, possediamo eloquenti tracce negli autori della letteratura latina); la religione dei celti era profondamente intrisa di magia, tanto è vero che la casta sacerdotale dei druidi praticava dei riti più simili a quelli magici, che a quelli religiosi nel senso moderno del termine; invece gli ebrei consideravamo illecita la magia, perché in contrasto con il monoteismo mosaico. A quel che ci è dato sapere, pare che i più presi dal fascino della magia fossero i misteriosi etruschi, dei quali così poco sappiamo, al punto che la loro civiltà ci si presenta, ancor oggi, sotto una luce enigmatica, elusiva. E poiché gli etruschi hanno dato un contribuito essenziale alla civiltà romana, al punto che questa si può considerare una continuazione di quella creata dai primi, è chiaro che la magia è stata praticata, sia pure in forme discrete, lungo tutto l’arco della storia di Roma. Alla vigilia del crollo finale, quando la città che aveva dominato il mondo era assediata dai Visigoti di Alarico (fra il 408 e il 410), sappiamo dallo storico greco Zosimo che vennero chiamati dei sacerdoti etruschi dal prefetto dell’Urbe, per celebrare i riti sacri miranti a scongiurare la caduta della città, secondo le formule contenute nei Libri Sibillini, che tanti secoli prima una vecchia misteriosa aveva venduto a Tarquinio il Superbo (un re etrusco, appunto). Ma qualcosa non dovette esser fatto nella maniera giusta, perché, alla fine, nell’agosto del 410, Roma cadde nelle mani dei barbari.

Bisogna comunque distinguere una magia popolare e una magia colta: nonostante la radice comune, le differenze tra le due forme di magia sono sempre state notevolissime. La magia colta, praticata dagli uomini delle classi dirigenti, da intellettuali e da governanti, è stata parte di una cultura filosofica ed esoterica impregnata di astrologia, alchimia e occultismo; la si trova, nel medioevo, alla corte dei Visconti, come nel castello di Gilles de Rais; esplode, però, nel rinascimento, quando vi si dedicano con fervore uomini come Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Paracelso, Agrippa di Nettesheim, John Dee e molti altri. Il fine è sempre lo stesso: piegare le forze occulte al volere dell’uomo, consentendo a questi di esercitare un dominio incontrastato sul mondo.

Abbiamo detto che il popolo antico presso il quale veniva pratica la forma più intensa e sistematica di rituali magici è quello etrusco. Si direbbe che tutta la realtà degli etruschi, terrena e ultraterrena, ruotasse intorno alla conoscenza dei riti segreti che, eseguiti con assoluta precisione, non mancavano di piegare qualunque volontà, compresa quella degli dei, ai voleri dell’uomo. Riportiamo, su questo argomento, una pagina significativa di un esoterista oggi quasi dimenticato, Giulio Lensi Orlandi, tratta dal volume Il segreto degli Etruschi (Roma, Atanòr, 1972, pp. 26-28):

… Nel senso che noi diciamo religioso, gli Etruschi non trattarono neppure le potenze funebri, se esse non amavano gli uomini, gli uomini non amavano loro, ma con la tecnica pura e semplice del rito le obbligavano a non svolgere azioni nefaste. Di ciò la chiesa cattolica, in uno dei suoi aspetti più impressionanti e suggestivi, ha vagamente conservato il ricordo, nella complessa e quasi dimenticata tecnica esorcistica per vincere o debellar individuate o supposte potenze demoniache.

La più alta forma quindi della spiritualità etrusca non professò particolari dottrine, non ebbe dogmi, non conobbe né rivelazioni né grazie, ma solo il linguaggio matematico della verità assoluta espressa nel simbolo e l’indispensabilità del rito. Cicerone non poté negare che la civiltà romana superò quella di ogni altro popolo per il suo spiccatissimo senso del sacro e Lattanzio precisò che scopo essenziale della religione antica non fu la ricerca del vero, bensì la perfetta conoscenza del rito. Fuori del rito non vi fu religione né vera né falsa, né buona né cattiva. Trascurare il rito, peggio ancora eseguirlo in modo errato, fu reputato grave sacrilegio perché ciò poté dar luogo a sciagure terribili, alo scatenamento di forze d’ogni genere, non più controllate e dominate. I numi potevano diventare ostili agli uomini e tutta a collettività correre seri pericoli. Al contrario l’azione rituale freddamente e giustamente eseguita costituì l’unica via di salvezza degl’individui e delle città. A questo proposito, benché si tratti di tardive manifestazioni lontane dall’esprimere l’originaria spiritualità, ricordo un episodio della vita di Claudio. L’imperatore che scrisse in greco i venti libri di "Tyrrenica", provocò in senato una discussione sul collegio degli auguri. Spesso nei momenti più gravi per lo stato erano stati convocati gli etruschi per restaurare gli antichi rituali. Claudio affermò che sebbene la situazione fosse per il momento favorevole ciò non di meno si sarebbe dovuto offrire alla benevolenza degli dei l’atto di riconoscenza consistente nel non trascurare in tempi felici quei riti che si celebravano nei momento difficili e il senato decretò che i pontefici esaminassero quali forme d’arte divinatoria si dovessero conservare o consolidare a mezzo degli aruspici.

Ciò conferma che il rito comportò la conoscenza di certe leggi e sopra a tutto il possesso di determinate potenze non concesse a tutti. Non vi fu atto nella vita etrusca, individuale o collettiva, a cui non fosse connesso un particolare elemento rituale, un sacrificio. Eseguirlo significò sempre creare un dio, un eroe, rinnovarne le virtù e riprodurle nelle forze e nei destini di coloro stesi che lo eseguivano per loro guida e sostegno, significò fare d’un avvenimento presente, carpito dalla fiumana della storia, la ripetizione d’un avvenimento originario, d’un passato mitico e fuori del tempo. Attraverso l’azione rituale l’uomo reintegrato, l’uomo assoluto divenuto veramente vivente, poté esistere in un’attuale centralità senza spazio e senza tempo.

Ai nostri tempi non è più concepibile l’uomo assoluto. I secoli e con i secoli la religiosità cristiana pervasa da mille motivi carpiti a tradizioni eterogenee, hanno creato un’umanità differente, una civiltà differente, un mondo fondamentalmente differente. Limiti un tempo chiari e definiti sono franati, spariti e la conoscenza ha smarrito il possesso del sovrannaturale quale parte della realtà, quale sua virtuale presenza.

Mentre il cristiano pervaso d’amore s’affida devotamente al suo dio nella speranza e con la sua umanità pentita anela in umiltà alla salvezza, l’etrusco non sperò mai in nulla perché ebbe la visione della possibilità di poter raggiungere quella salvezza da solo, senza pentimenti e senza amore, superando ogni passione, ogni atteggiamento umano, ogni sensibilità morale e con la consapevole certezza della vittoria.

Ci si può rendere conto di quale fosse l’importanza dei patrizi quando si pensi che essi erano tali esclusivamente per il fatto di essere possessori dei riti, di poter compiere i sacrifici in quanto collegati alle forze trascendenti di antenati divini. La plebe non possedendo antenati divini non possedé i riti né li poté compiere…

Oltre a delineare una originale interpretazione della dinamica sociale nella Roma antica, in quanto la distinzione fra patrizia e plebei dipendeva essenzialmente dal fatto di avere o non avere, come Enea, come Romolo, come Cesare, antenati divini nel proprio albero genealogico, questo autore suggerisce anche una chiave di lettura anticonformista della religiosità etrusca: si sarebbe trattato di una sorta di religione alla rovescia, nella quale è l’uomo che, senza nulla temere e senza nulla sperare, ma in possesso di un sapere segreto gelosamente custodito e tramandato fin da tempi immemorabili, impone la sua volontà agli dei, li costringe ad essergli favorevoli e a colpire i suoi nemici, nei tempi e nei modi da lui stesso stabiliti. Qui, insomma, è l’uomo che si fa dio e che pone le divinità nel ruolo subordinato di mere esecutrici del suo volere: l’uomo etrusco così realizzato, e pieno di fiducia in se stesso, sarebbe stato l’uomo assoluto, in un senso non troppo diverso da quello che Nietzsche attribuiva al suo superuomo. Il tratto comune più evidente ai due risiede nella loro impassibilità, nella loro sovrana indifferenza, nel loro disprezzo riguardo alla morale corrente, al concetto ordinario del bene e del male: entrambi pretendono di porsi al di sopra di esso e di ridisegnare una morale "nuova", fatta da loro e per se stessi, alla quale gli altri, e perfino i superni, devono inchinarsi e sottomettersi.

L’accenno allo Zarathustra ci consente di portare il discorso sulla magia ancora più vicino a noi. Conosciamo un’altra civiltà la quale ha deciso di sostituire la religione con la magia, di elevare l’uomo al rango di essere onnipotente e di declassare le forze cosmiche al livello di suoi semplici aiutanti, dei quali si serve quando e come vuole, sia per chiamarle a sé, sia per licenziarle: ed è la nostra. Fra tutte le civiltà umane, la civiltà moderna, della quale noi siamo i figli, è, a parte quelle del mondo antico, come l’egizia, la sumera e l’etrusca, quella che ha maggiormente esaltato e assolutizzato l’idea che l’uomo ha di se stesso, sino quasi a divinizzarla. L’unica sostanziale differenza fra noi e gli etruschi è che essi contavano sui rituali della magia eseguiti con assoluta precisione, noi contiamo sulle formule matematiche e sulle macchine costruite dalla nostra tecnologia; essi pretendevano di agire direttamente sulla volontà dei celesti, noi operiamo attraverso la materia, mediante la clonazione, la fecondazione artificiale, la manipolazione genetica e la creazione di vere e proprie chimere, esseri ibridi con il patrimonio genetico di specie diverse. Tutto questo sembra molto moderno, ma era stato teorizzato fin nei dettagli da Francesco Bacone nella sua Nuova Atlantide: perciò possiamo considerare il rinascimento, ossia la rinascita della civiltà classica ad opera degli umanisti, come il trait-d’union fra noi stessi e gli antichi, fra la nostra magia, a base fisica, chimica, biologica e tecnologica, e quella degli etruschi e dei romani antichi. Anche noi, perciò, come loro, siamo essenzialmente degli apprendisti stregoni; e su di noi incombe lo stesso destino, o, per parlare in modo teologicamente più appropriato, lo stesso castigo. L’uomo non può mettersi impunemente al posto di dio. Eppure, è da alcuni secoli che persegue questo obiettivo; e, ultimamente, i successi ottenuti hanno accresciuto a dismisura la sua già grande superbia, e lo hanno fatto letteralmente impazzire. Una umanità che procede imperterrita per la sua strada, anche dopo aver creato un arsenale nucleare che potrebbe distruggere decine di volte la vita sulla terra, è una umanità impazzita. Come l’uomo etrusco: senza speranza e senza amore.

Ma forse non è neppure questa la parola giusta. La parola giusta, è inutile girarci intorno, è un’altra: posseduta. La civiltà moderna, quella che si è allontanata da Dio più di qualunque altra, non ondeggia, semplicemente, nel vuoto: allontanarsi più che mai da Dio equivale, necessariamente, ad avvicinarsi più che mai al suo nemico. L’equilibrio cosmico non prevede spazi neutrali: ciò che viene sottratto a Dio, è guadagnato dal diavolo. La civiltà moderna è la civiltà del diavolo: i suoi valori sono contro-valori; la sua pedagogia, una contro-iniziazione; la sua filosofia è nichilismo, disperazione e desiderio di annullamento; la sua scienza, la sua tecnica sono mortifere. Forse siamo ancora in tempo a rendercene conto e a tornare indietro. Ma il baratro è vicino: o adesso o mai più…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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