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Dobbiamo puntare al bene onesto e non semplicemente al bene come utile

Vale per la società, considerata nel suo insieme, lo stesso principio che deve valere per il singolo individuo: la ricerca del bene, che non solo è legittima, ma doverosa -, non può essere intesa, semplicemente, come ricerca di ciò che è utile, perché "utile" e "bene" non sono sinonimi; ma deve consistere nel perseguimento del bene più alto, del bene vero, che, umanamente parlando, è sempre, e non può essere altro, che il bene onesto, ossia ricercato senza secondi fini.

Se non si ha chiaro questo concetto – e oggi non è chiaro per niente, anzi, vi sono molti che lo confondono deliberatamente – si arriva al paradosso di identificare il bene, per il falsario, con l’abilità di smerciare le sue banconote false con successo; o quello dell’assassino, con la capacità di compiere il delitto perfetto, sbarazzandosi del suo nemico ed eludendo i rigori della legge; oppure quello del drogato, con la possibilità di procurarsi illimitatamente le sostanze stupefacenti alle quali si è assuefatto, per sottrarsi al grigiore della realtà quotidiana. È chiaro che si tratta di conclusioni aberranti, che nascono da un sofisma: non aver definito la natura del bene oggettivo, lasciando, in tal modo, la porta aperta ad ogni sorta di relativismo etico.

E allora definiamo la natura del vero bene, una volta per tutte: del bene, s’intende, così come può essere umanamente concepito e realizzato; perché del Bene Assoluto, che è Dio, possiamo dire, o meglio, balbettare, solo quel tanto che la ragione umana, di per sé limitata e imperfetta, può permetterci di comprendere, e anche quel poco resterebbe sterile e incomprensibile senza l’ausilio della divina Rivelazione. Nei limiti di un’etica umana, ma non immanentistica, bensì aperta al mistero del trascendente, possiamo dunque dire che il bene è ciò che consente la piena realizzazione di ciò che è positivamente buono non solo per il soggetto agente, ma per tutti gli altri soggetti, e non solo in quanto all’utile immediato, ma in quanto ai fini superiori cui è indirizzata l’esistenza: il superamento dell’egoismo sfrenato, dell’io tirannico e ipertrofico, e la progressiva attuazione di ciò cui tutti gli enti sono chiamati ad essere, ossia il perfezionamento e la santificazione di ciascuno. In maniera ancora più sintetica: bene è ciò che consente e favorisce lo sviluppo della scintilla divina insita nell’essere umano; male, ciò che lo ritarda o vi si oppone.

Lo steso criterio deve valere per la società. La concezione liberale della società implica che il criterio del bene sia di tipo pratico e soggettivo: lo Stato serve essenzialmente a tutelare i diritti dell’individuo, e non altro; il raggiungimento dei fini individuali diviene la ragion d’essere della società, il che è assurdo, e porta con sé, inevitabilmente, un principio di anarchia e di disgregazione, perché è evidente che la somma delle spinte individuali al raggiungimento del bene, inteso come utile, non può che condurre a continui conflitti con gli altri fini individuali, e perciò, in ultima analisi, all’autodistruzione del corpo sociale. Pertanto, alla suprema legge dell’utile per me bisogna sostituire la legge, tanto più saggia e armoniosa, del bene per tutti: sia per l’individuo che per la società: ma del bene inteso come bene onesto, cioè come onesto raggiungimento di ciò che è più perfetto in ordine alla santificazione della vita quotidiana.

Per trovare questi concetti, che dovrebbero essere evidenti e perfino scontati in una prospettiva cristiana, bisogna andare indietro di parecchio, diciamo pure a prima del Concilio Vaticano II, se non prima ancora, quando la teologia cattolica era essenzialmente la teologia tomista, e non c’erano state "svolte antropologiche" a spostare la prospettiva da Dio all’uomo, confondendo le carte e facendo perdere a molti fedeli la giusta direzione di marcia.

Un importante pensatore cattolico del XIX secolo, grande cultore della filosofia tomista, ed egli stesso filosofo e teologo di prim’ordine, oggi ingiustamente dimenticato, è stato il padre gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio (Torino, 24 novembre 1793-Roma, 21 settembre 1862, figlio di un diplomatico piemontese della corte di Vittorio Emanuele I, Cesare d’Azeglio), fiero avversario del liberalismo, che è stato il fondatore e poi anche il direttore della rivista La Civiltà Cattolica e autore, fra le molte altre opere e centinaia di articoli, di un testo che per qualche tempo fu considerato la "summa" del pensiero cattolico in fatto di etica, diritto e scienza politica (egli fu il primo ad adoperare l’espressione "giustizia sociale"), il Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto, del 1840-1843, dal quale vogliamo riportare quest’aurea pagina (cit., edizione de La Civiltà Cattolica, Roma, 1928, vol. II, Epilogo, IV, 1666-1672, pp. 382-383):

1666. Tutte [le società] debbono esse risultare dal muoversi della società e MATERIALMENTE e MENTALMENTE, or verso l’apice di sua perfezione, or vero l’estremo opposto.

1667. La società DOMESTICA che materialmente progredisce, trasformasi in TRIBÙ, in POPOLO, in SOCIETÀ DI GENTI, e in questi elementi risolvesi in senso inverso la maggior società se materialmente decada [698]. Il diritto MUNICIPALE, NAZIONALE e INTERNAZIONALE sono risultamenti delle relazioni prodotte da materiale avanzamento; e però se le idee morali non progrediscano a proporzione del numero, ma rimangano stazionarie nell’ordine domestico o nazionale, avremo varie forme imperfette come la società selvaggia, le Caste ecc.

1668. Il progresso mentale può essere e vero il bene supremo per amor dell’ordine, e verso il ben secondario per privato interesse. Secondo che la società or tende, or si arresta, or decade relativamente a quei due termini, ella prende i vari caratteri di CIVILE, COLTA, BARBARA, STAZIONARIA, SELVAGGIA in vario grado di mescolanza.

1669. Le ragioni da cui nasce il triplice suo movimento, sono principalmente le tre influenze o di indipendenza INDIVIDUALE, o di autorità MORTA, o di autorità VIVA; la prima tende a sciogliere l’unità sociale, la seconda a legarla in una immobilità contraria al naturale impulso [862], la terza a congiungerne gli sforzi senza opprimerne il naturale elaterio delle tendenze mentali.

1670. Gli effetti de’ vari movimenti sociali dipendono principalmente dal doppio FINE a cui si riferiscono. La CIVILTÀ col tendere al bene ONESTO, produce una politica benefica, una unità di animi, una estensione progressiva nella istruzione. La COLTURA col tendere all’utile, produce una politica interessata, un centralismo materiale e vacillante, una reazione esterna che si oppone alla estensione, un monopolio di lumi che favorisce l’ignoranza.

1671. Queste teorie applicate alla storia ci rendono ragione della condizione primitiva del genere umano, non perfettamente COLTA, ma piena di vigore nella carriera dell’INCIVILIMENTO. Ci mostrano le cause della IMMBOLITÀ orientale associata ai lumi più sinceri e durevoli, che la terra presenti fuor della Palestina. Ci spiegano la naturale decadenza della CIVILTÀ nell’Europa, prima inselvatichita e, poi malgrado i lumi ricevuti d’Oriente, brutalmente corrotta.

1672. Se da questo abisso ella risorge, la causa è quell’AUTORITÀ VIVA che forma, nel progressivo svolgimento degl’Israeliti condotto all’apice della rivelazione cristiana, una nuova società piena di vigore ad incivilire, perché fornita di lumi sovrumani e di sovrumano ardore a diffonderli. Questa dopo aver nel medio evo elettrizzate le genti selvagge colle scintille di sua fede e formato il reggimento feudale; arrestata poi due secoli dallo INDIVIDUALISMO protestante, erede delle precedenti proteste, ripiglia oggi l’andamento progressivo anche fra quelle nazioni ove arenò: e la legalità COSTITUZIONALE è appunto il primo passo con cui dall’INDIVUDUALISMO quelle società muovono verso l’ordine sociale,

Ammiriamo, innanzitutto, in questa pagina, sia la meravigliosa chiarezza e linearità del pensiero, sia la capacità di svolgere, partendo dal divenire della storia, un affresco gigantesco che delinea il movimento complessivo della vicenda umana, compresa la dimensione soprannaturale introdotta dalla comparsa del cristianesimo. Oltre a questo, troviamo espressi i concetti chiave di bene onesto e di utile, l’uno frutto della civiltà, l’altro della cultura. I due termini vengono usati sovente, nel parlare comune, quasi come sinonimi, ma il Taparelli ne evidenzia la profonda differenza. La civiltà è l’espressione più alta del vivere sociale, allorché gli uomini, sia individualmente che collettivamente, riescono a realizzare, sia pure sul piano dell’immanenza, il loro fine supremo, che è, aristotelicamente, la loro natura perfezione in quanto creature razionali, e dunque anche la loro felicità, perché è felice colui che realizza perfettamente la propria natura. Si potrà dunque parlare di una civiltà greco-romana, o di una civiltà cristiana medievale, ma non di una civiltà, bensì di una cultura rinascimentale, o illuminista, perché a queste ultime è mancato l’elemento mirante a sviluppare la società non solo nel senso del’utile, ma anche in quello del bene onesto. Sono concetti, ripetiamo, in fondo assai semplici, e neppure originali, frutto dello studio di Aristotele e di san Tommaso d’Aquino; e tuttavia, quale meravigliosa facilità espositiva, quale splendido esempio di consequenzialità e armonia logica, quale proprietà nella scelta dei termini, di ogni singola parola: perché la filosofia deve tendere alla precisione e solo dalla precisione, come avviene nelle scienze, possono scaturire delle conclusioni che non oltrepassino né per difetto, né per eccesso, quel che vi era nelle premesse. La cultura, dunque, non è la stessa cosa della civiltà; è una caratteristica sociale che si colloca un gradino più in basso, perché tende all’utile: e l’utile è un fine sociale legittimo e razionale, però non è il fine supremo, non può quindi consistere in esso quel sommo bene verso il quale gli esseri umani sono protesi.

Si noti, infatti, che la concezione storica di Taparelli è dinamica: tutto, nella storia, si muove, verso l’alto o verso il basso, i popoli, le culture, le civiltà; tutto tende verso la piena e armoniosa realizzazione delle potenzialità naturali e soprannaturali insite nella natura umana, ma che l’uomo può anche scegliere di non sviluppare, o abbandonare; pertanto può accadere che vi sia un regresso dalla civiltà verso la barbarie, attraverso una fase di decadenza e di disgregazione. Però anche la barbarie è una condizione dinamica, Taparelli ne sa vedere le potenzialità positive: ad esempio, la barbarie degli invasori germanici che abbatterono l’Impero Romano d’Occidente, accesa dal fuoco del cristianesimo, diede origine a un vigoroso movimento di espansione, sia materiale, sia spirituale: l’avanzare della civiltà cristiano-germanica verso regioni mai raggiunte dalle legioni di Roma e il fiorire dell’arte e dell’architettura medioevali (protesa, quest’ultima, verso l’alto, come nelle cattedrali gotiche, quasi nell’unione mistica con Dio) testimoniano questo duplice slancio, che attiene tanto alla sfera dell’utile quanto alla sfera del bene onesto. L’individualismo estremo, proprio dello stato di barbarie, cedette il posto a un senso di socialità, per cui le energie disordinate di quei popoli vennero forgiate, temprate e rivolte verso la creazione di una civiltà nuova, illuminata da una luce soprannaturale: quella che si era accesa in Palestina con la venuta di Cristo e che poi proseguì poi il suo cammino verso Occidente, divenendo il cuore e il motore della civiltà europea. Il protestantesimo è visto da Taparelli come un rallentamento, come una interruzione della marcia ascensionale della civiltà cristiana, a causa di un ritorno allo spirito d’individualismo: in questo senso, Lutero ha interpretato, attraverso la dottrina del libero esame delle Scritture, quel fondo individualista, indisciplinato e quasi anarchico, che era stato proprio della barbarie germanica, avanti l’incivilimento e la conversione al cristianesimo.

Se, d’altra parte, il corpo sociale è un insieme dinamico, ne consegue che esso non può soggiacere ad una autorità morta, senza risentire un effetto deprimente, che tende a penalizzare e disperdere le energie naturali della società stessa. Un esempio di autorità morta è dato dal tardo Impero Romano, in particolare al tempo di Diocleziano e ella Tetrarchia, quando leggi severissime, nel vano tentativo di frenare il decremento demografico e la crisi produttiva, legarono i cittadini alle professioni avite e i contadini al latifondo, e una fiscalità sempre più esosa paralizzò l’economia per tenere in vita, con la forza bruta, una struttura politico-sociale che pretendeva di reggersi in piedi senza avere più in se stessa alcun elemento di reale vitalità. Taparelli, comunque, da vero pensatore cristiano, non lascia la Provvidenza sullo sfondo delle vicende umane, ma la pone ben al centro di esse: gli uomini sono gli strumento, ora consapevoli, ora inconsapevoli, dei suoi piani misteriosi, ma sempre miranti al conseguimento del sommo bene: che è, per l’umanità nel suo insieme, così come per il singolo individuo, il riconoscimento del vero Dio e la scelta di vivere secondo la sua legge e nell’abbraccio del suo amore. E in ciò, crediamo, risiede la grande attualità di questo pensatore un po’ dimenticato.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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