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Il meccanismo finanziario che produce debito a vantaggio di alcune banche e di alcuni Paesi a scapito dei risparmiatori e di altri Paesi, le cui dinamiche sono state bene analizzate da vari autori, fa sì che i debitori si sentano brutti e cattivi perché insolventi o cattivi pagatori: sicché al danno materiale del debito in se stesso, si aggiunge il danno morale della sensazione di inadeguatezza, di goffaggine, di incapacità. E, siccome nei meccanismi della finanza il fattore psicologico pesa assai più di quel che generalmente non si creda, il senso di inadeguatezza che diventa senso di colpa finisce per aumentare il debito e accresce la dipendenza del debitore nei confronti del creditore, in una spirale depressiva senza fine.
Ebbene: quel che attira meno l’attenzione dell’osservatore, pur essendo molto più evidente a livello visivo, è un altro aspetto del diabolico meccanismo consumista, che crea sempre più debito per un numero sempre maggiore di persone, mentre produce una ricchezza sempre più grande per un numero sempre più piccolo di persone: vogliamo dire l’effetto corporeo che si manifesta nei "vinti", negli sconfitti della moderna società capitalista, e specialmente nelle dinamiche della globalizzazione. Le persone che, in una società esasperatamente competitiva, come lo è la società odierna, dominata dal mito del denaro e del profitto, non riescono ad affermarsi secondo gli standard imperanti, e devono ridurre drasticamente le loro aspettative di una vita agiata e dispendiosa, ad esempio rinunciando all’acquisito di capi firmati e di altri oggetti di marca, esteriorizzano il loro senso di fallimento e il loro malessere in svariate forme, una delle quali è l’imbruttimento fisico. Se non ci si può concedere il vestito firmato e l’orologio Rolex da trentamila euro, se non si possono mandare i figli a studiare nelle migliori università, se non si può regalare alla moglie la pelliccia autentica, o portarla in crociera verso luoghi esotici, si mangia male, nervosamente, forse troppo e troppo spesso; si tenta di compensare il senso di colpa assumendo dolci e ingerendo bevande alcoliche, e si tende a fare sempre meno moto, a condurre una vita sempre più sedentaria, magari davanti al televisore o ai videogiochi, con l’inevitabile risultato che il corpo ne soffre, si gonfia, si dilata, assume un colorito malsano e accumula chili in eccesso, esponendosi al pericolo di malattie cardiocircolatorie e a disturbi collaterali, per esempio alla vista, o all’apparato digerente, o al fegato, e così via.
Le persone così ridotte si guardano allo specchio, si confrontano con le splendide figure degli attori e delle attrici, dei personaggi che compaiono nella pubblicità televisiva, con i modelli e le modelle delle sfilate di moda, e trovano orribili: cadono in depressione, o vi sprofondano ancora di più, e seguitano ad ingrassare e a soffrire di disturbi e disfunzioni sempre più accentuati. E più si trovano brutti, più imbruttiscono, ingrassano, perdono i capelli, diventano pallidi o giallastri; il loro sguardo perde vivacità e brillantezza, diventa opaco; la loro pelle si copre di rughe, di eczemi, di foruncoli, che creano a loro volta fastidiosi rossori e pruriti. L’umore diventa sempre più tetro, la speranza nel domani si appanna, i gesti diventano lenti, pesanti; il carattere si irrigidisce, diventa bisbetico, amaro, insopportabile: tutti le evitano, ed esse vedono nella solitudine in cui sono cadute la conferma del loro poco valore, la dimostrazione palese e innegabile del loro fallimento. La moglie o il marito chiedono la separazione; i figli, appena possono, spariscono, o si fanno vivi solo per domandare qualcosa; amici e vicini girano alla larga, riducono i contatti al minimo indispensabile; non arriva mai una telefonata, una cartolina, un messaggino SMS, tranne l’odiosa, onnipresente pubblicità — e, si capisce, le bollette da pagare. La casa viene trascurata, li giardino rimane incolto, le pulizie rimandate, lo sporco si accumula; i vestiti sono sdruciti, stazzonati; perfino la pulizia della persona lascia a desiderare.
Tolstoj, in Anna Karenina, scrive che le famiglie felici si assomigliano tutte, mentre quelle infelici, lo sono ciascuna modo suo; Nabokov, rovesciando il concetto, ribatte (in Ada o ardore) che tutte le famiglie infelici si assomigliano, mentre sono quelle felici a vivere ciascuna un suo genere di felicità. Da parte nostra, siamo convinti che ogni società e ciascun popolo hanno una loro maniera di produrre individui infelici e brutti. Una maniera molto caratteristica, ma, allo stesso tempo, paradigmatica (perché si pone come il paradigma di tutte le altre), è quella della società statunitense, sulla quale una pagina illuminante è stata scritta da Edward Luttwak (in: E. Luttwak, La dittatura del capitalismo; titolo originale, Turbo-capitalism, 1998; traduzione dall’americano di Andrea Mazza, Milano, Mondadori, 1999, pp. 34-35):
La Regola Numero Due [la Numero Uno recita: la ricchezza accumulata non è un impedimento alla virtù, ma, al contrario, un segno di grazia divina], che riguarda invece i perdenti nel gioco del’economia, riflette esattamente la stessa dottrina calvinista soggiacente alla Regola Numero Uno, ma in forma diversa: il fallimento è il risultato non di sfortuna o di ingiustizia, ma della disgrazia divina. Proprio come la capacità di arricchirsi è ritenuta prossima alla santità, l’incapacità di riuscirvi è ritenuta prossima al peccato, anzi, di fatto costituisce un peccato in sé. Molti americani, pur relativamente benestanti, non arrivando a guadagnare le somme di denaro ritenute necessarie o adeguate si sentono oppressi da un pesante senso di colpa. Poiché vivono in un paese che tiene in gran rispetto e ammirazione i vincenti ne i loro successi economici, i perdenti hanno grandi difficoltà nel preservare la stima di sé.
Sono quindi davvero molte le persone che vivono all’insegna della disperazione silente, sempre in cerca di un modo per distrarre la mente, bramose di buttarsi a capofitto in qualunque cosa possa mitigare o cancellare l’idea del fallimento, dalla religiosità ossessiva allo sport in televisione. Altri cercano di porre rimedio alla disperazione con diverse forme di dipendenza: alcol, droga, ma soprattutto, cibo, che rappresenta l’unica dipendenza completamente legale, e pertanto così diffusa. All’inizio del ventesimo secolo una pancia prominente avvolta con cura in un sobrio gilé sottolineata con garbo dalla catenina d’oro dell’orologio da panciotto rappresentava il segno del vincente. Il Presidente Taft era soltanto il personaggio più eminente fra le taglie forti in cima alla scala sociale americana. Ma le mode cambiano. Al pari delle sigarette (mentre i i sigari paiono tornati in voga), l’obesità è divenuta il più comune attributo del perdente nell’America contemporanea. Gli americani sono molto più grassi degli europei (figurarsi i giapponesi). Tuttavia si tratta di una media che cela situazioni radicalmente opposte. Gli americani vincenti sono in genere magri, talvolta fino all’innaturale come risultato di diete ferree e di attività fisica ossessiva, mentre i poveri sono spesso molto grassi, cosa che li mette ancor più in difficoltà nella ricerca di un impiego in un paese in cui l’obesità è ritenuta sinonimo di fallimento. La bassa stima di sé causata dal basso reddito innesca un circolo vizioso di "comportamenti disfunzionali", secondo la definizione degli specialisti, conducendo così a un’ulteriore riduzione del redito. Forme di dipendenza meno legali hanno poi conseguenze anche più gravi.
È interessante che Luttwak veda in questo atteggiamento auto-punitivo dei perdenti la ragione per cui, in America, non è mai sorto, né mai potrà sorgere, un partito politico o un movimento sociale finalizzato ad obiettivi rivoluzionari: il perdente se la prende con se stesso per la sua sorte disgraziata, e non con la società; non incolpa i ricchi, ma la spropria inettitudine. Questo, comunque, è un lato della questione tipicamente americano; mentre una parte delle osservazioni di Luttwak di carattere generale sono adatte a descrivere il rapporto fra bruttezza e infelicità da un punto di vista più ampio, e dunque anche europeo.
Naturalmente, qualcuno potrebbe obiettare che "bello" e "brutto", riferiti all’aspetto esteriore delle persone, sono concetti labili e volubili, che hanno conosciuto parecchie trasformazioni nel corso del tempo: basta guardare le giunoniche donne di Tiziano o di Rubens e confrontarle con Twiggy e le indossatrici dei nostri giorni, per toccare con mano quanto le mode svolgano, anche in questo ambito, il ruolo decisivo. Sia come sia, oggi avere qualche chilo in più è considerato sinonimo di trasandatezza, se non di vera e propria bruttezza, e, nello stesso tempo, di un certo grado d’insoddisfazione, se non anche d’insuccesso, a livello sociale: l’una cosa influenza l’altra. Questo è tipico delle società del benessere (o del post-benessere; perché nemmeno la crisi del 2007 è riuscita a modificare l’atteggiamento dei popoli consumisti dalla dura cervice), esattamente come, nelle società pre-moderne, un fisico robusto appariva sinonimo di buona salute e, nel caso delle donne, di una felice predisposizione alla maternità. Ai nostri tempi, la vecchia associazione psicologica di grassezza e salute, e di magrezza e povertà, è stata letteralmente ribaltata; e ad essa si è sommato un ulteriore fattore estetico, legato alla cura della persona: magrezza è diventata sinonimo di sport, esercizio fisico, sauna, dieta, come obesità fa venire subito in mente la perdita della cura di sé, la trasandatezza, il lasciarsi andare. Ed è così che la persona che si trova in una situazione precaria dal punto di vista economico-sociale, curandosi sempre meno del proprio aspetto e assumendo comportamenti e stili di vita improntati al disamore di sé, finisce per aggravare ulteriormente la propria condizione, sia sotto il profilo sociale che quello psicologico: perché la bruttezza rende palese la sua infelicità, mentre ‘aumenta inesorabilmente la bruttezza. E a questo circolo vizioso non c’è rimedio, date le premesse.
L’unica maniera di spezzare il circolo vizioso è rifiutare le premesse, cioè rifiutare il gioco consumista e la logica della competizione sfrenata. E c’è una sola maniera certa di riuscirvi: non identificarsi nel modello del "vincente" o del "perdente" deciso da qualcun altro, ma sentirsi dei vincenti o dei perdenti in base ai propri valori, alle proprie aspirazioni e al proprio giudizio. Quel che pensano gli altri non ha alcun valore, se si sente di essere sulla strada giusta per rispondere nella maniera migliore alla chiamata che ciascuno di noi ha nella vita. E quanto più si procede in direzione di una crescita spirituale, tanto meno importanti appaiono le cose esteriori, i gingilli del consumismo, e tanto meno significativa l’opinione che gli altri hanno di noi. Anche andare contro il politically correct crea, inevitabilmente, solitudine e un senso di isolamento, perché gli altri non capiranno: i pecoroni, coloro che vanno a rimorchio della massa, giudicano secondo quello scarso e falso sapere che hanno imparato a memoria, e sul quale non hanno mai riflettuto, e quindi non approvano quanti escono dal sentiero e percorrono strade proprie, in piena autonomia. Ma chi ha conquistato tale autonomia è libero dal giudizio degli altri, non si lascia minimamente influenzare o condizionare dalle loro aspettative e dalle loro eventuali critiche. Per costui, vestire in modo sobrio e modesto, viaggiare su una semplice utilitaria, o anche andare in bicicletta, non sono problemi; non ha complessi perché non può permettersi un Rolex, o perché non può comparare un gioco da duemila euro a suo figlio.
Per l’uomo religioso, poi, l’importante è piacere a Dio, non agli uomini. Per costui, il giudizio del mondo vale zero, mentre la chiamata di Dio è tutto. All’uomo religioso tutto è fonte di sorpresa, di gioia, di arricchimento; e ciò che per un altro sarebbe una rinuncia, una sofferenza, un’amarezza, per lui è un’esperienza normalissima, dalla quale non si sente affatto sminuito, perché egli non misura se stesso secondo il metro del mondo, ma secondo l’invito di Dio. L’uomo religioso pensa che ogni cosa, nella vita, abbia un significato che deve essere compreso; che ogni cosa sia parte del discorso che Dio rivolge ai suoi figli; e che, per capire le parole di quel discorso, sia necessario sbarazzarsi del superfluo, dell’esteriore, del banale, e indossare i panni dell’umiltà, della semplicità e della benevolenza. La luce che brilla nei suoi occhi, e che illumina tutta la sua persona, fa sparire il resto: il vestito, le rughe, l’età; chi lo incontra (o la incontra), non si chiede quanto costi la sua camicia o da quale parrucchiere sia andato a tagliarsi i capelli, ma resta colpito e affascinato da quel qualcosa che è dentro di lui e che non fa parte del normale bagaglio delle persone omologate della società consumista. Il suo modo di parlare, di guardare, di camminare, è diverso e inconfondibile: è come se egli si muovesse su di un altro piano di esistenza, come se fosse proiettato in un’altra dimensione. Diremo di più: quanto più l’uomo si spiritualizza, tanto più il suo aspetto esteriore diventa irrilevante per coloro che si pongono sulla sua stessa lunghezza d’onda. Com’era Gesù, fisicamente? Non lo sappiamo; gli evangelisti non lo hanno ritenuto importante. Significativo, vero?
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