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La nostra civiltà si sta dissolvendo perché ha smarrito l’etica del dovere

Quante sono le persone che amano la verità, che sono pronte a lottare per trovarla, che sono disposte a sobbarcarsi sacrifici, veglie, amarezze e incomprensioni, pur di raggiungerla, o almeno di avvicinarvisi? E quante sono le persone che non vivono secondo la logica dell’edonismo, del profitto e dell’interesse, ma possiedono un robusto senso etico, e sono capaci di lavorare non perché sperano di vedere i frutti della loro fatica, ma solo perché sentono il dovere di rispondere a una chiamata, e perché sentono di avere una responsabilità ben precisa, e ineludibile, nei confronti delle generazioni che verranno?

Fin verso la metà del XX secolo, se vogliamo indicare una data approssimativa, di persone così ce n’erano, e parecchie: quelle che hanno trasmesso un solido esempio di vita ai loro figli e ai loro nipoti; quelle che hanno costruito quasi tutto ciò che ci circondata, e che ci ha consentito di vivere agitatamente, sia in senso fisico che spirituale: nelle professioni, nei mestieri, nelle vocazioni religiose e sacerdotali; mentre quelle venute dopo non hanno fatto altro che consumare il patrimonio ricevuto, disperderlo, dilapidarlo, e non hanno saputo costruire, a loro volta, nulla di durevole, nulla di significativo. E ciò vale sia per quanto riguarda l’esistenza dei singoli, delle persone comuni, sia per la cultura, per l’arte, per il pensiero dell’intera società.

La nostra civiltà si sta sgretolando, sta letteralmente franando, si sta dissolvendo, sta evaporando, come se non avesse più nulla da dire, nemmeno un rimpianto, nemmeno un sussulto di fierezza, di dignità, o di amore per la vita; e noi siamo gli abitanti di un mondo crepuscolare, popolato da esistenze fallite, da miti crollarti, da speranze schiantate, o, peggio, popolato da fantasmi di uomini e donne che furono vivi un tempo, ma che ora sono morti, sono interiormente morti, solo che non lo sanno, e non percepiscono l’odore di morte che da essi emana. Perciò se ne vanno ancora in giorno, come se nulla fosse; portano a spasso i loro cadaveri, ma come dei sopravvissuto a se stessi: senza una idea, una passione, uno slancio della mente o del cuore; senza nulla che distingua realmente la loro non-vita dalla morte vera e propria.

Vi sono parecchi responsabili per la dissoluzione della nostra civiltà, ma uno spicca su tutti gli altri: il crollo dell’etica del dovere, sostituita da un’etica dei diritti a senso unico, da una forsennata smania di narcisismo, di protagonismo, di rivendicazione di sempre nuovi spazi di libertà, mai in positivo, mai per fare qualcosa, o quasi mai, e quasi sempre, invece, per andare contro qualcosa, contro qualcuno, per togliere qualcosa a qualcun altro, per contestare agli altri ciò che possiedono, o che credevano di possedere. Da quando abbiamo smesso di sentire il valore e la responsabilità dell’etica del dovere, e di trasmetterla a nostra volta, la nostra civiltà ha incominciato a morire: da allora, non ha fatto altro che trascinare la sua interminabile agonia. Noi siamo i becchini di una civiltà, che sarebbe più giusto chiamare contro-civiltà, che noi stessi abbiamo assassinato, suicidandoci con essa.

La pigrizia, l’indolenza, il conformismo, l’ignavia, hanno fatto il resto. Abituati sempre a chiedere, senza dare nulla in cambio, abbiamo trasmesso ai nostri figli la medesima attitudine: ma il fondo della pentola era già stato raschiato, e a raschiarlo eravamo stati proprio noi; sicché i nostri figli non hanno trovato più nulla da raschiare a loro volta, e si sono sentiti ingannati, traditi, si sono rivoltati contro di noi, ci hanno accusati, ci hanno lanciato contro terribili maledizioni. Maledizioni meritate, in verità. Abbiamo raccolto quel che avevamo seminato: abbiamo ricevuto in noi stessi la giusta ricompensa della nostra viltà, della nostra ipocrisia e della nostra inverosimile leggerezza. La vita non perdona a chi non sa calcolare il peso dei propri passi. Possiamo prendere in giro gli altri, ma, alla fine, il conto ci verrà presentato, che ci piaccia o no. E sarà un conto tanto più salato, tanto più insolvibile, quanto più avremo fatto finta di nulla e ci saremo ostinati a vivere al di sopra dei nostri mezzi spirituali, a spendere più di quel che la nostra anima, la nostra volontà, la nostra intelligenza, fossero capaci di creare. Non c’è posto per chi firma solo cambiali in bianco. E quando il numero delle specie parassite supera quello delle specie parassitate, è inevitabile che avvenga il collasso dell’intero sistema, seppellendo insieme colpevoli e innocenti.

Sotto questo punto di vista, le civiltà perfette sono quelle degli insetti, come le api, le termiti e le formiche: esse sono perfette perché si reggono sull’istinto del dovere e sulla pratica del sacrificio del singolo a vantaggio del gruppo (cfr. il nostro lavoro: Quante cose può dire al filosofo la vita segreta delle api, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 28/01/2008): in tali società, il bene dell’insieme è tutto, quello dell’individuo è niente. Le società umane non saranno mai perfette, perché l’uomo differisce dall’animale proprio in questo: nel volersi affermare anche come singolo, oltre che come membro del gruppo. Tuttavia, in tutte le civiltà pre-moderne lo scarto fra le due cose è stato contenuto entro limiti accettabili: l’individuo cerca di realizzarsi come singolo, ma senza danneggiare il gruppo, anzi, in sinergia con il gruppo; e, se proprio si trova costretto a fare una scelta alternativa, il più delle volte sceglie il gruppo, a cominciare dalla famiglia, perché sa che nel gruppo egli continuerà a vivere, per esempio nei proprio figli e nipoti, mentre come individuo egli finisce con la morte. E questo è quel che s’intende quando si parla di etica del dovere e del sacrificio: il nonno pianta degli alberi dei quali non vedrà mai il frutto, e alla cui fresca ombra non siederà mai, nei pomeriggi d’estate, ma lo fa ugualmente, affinché la possano vedere, in un giorno lontano, i suoi nipotini; il padre e la madre fanno sacrifici e rinunce per il bene dei loro figli, compreso il sacrificio di rimanere insieme e di tenere unita la famiglia, anche se l’uno o l’altro avrebbero gravi ragioni per essere stanchi e per desiderare di andarsene.

Si può dire che la bilancia, in tutte le società pre-moderne, è sempre rimasta in equilibrio, e che, in Europa, ciò si è protratto fino all’epoca dell’umanesimo; poi, mano a mano che si è affermata la civiltà moderna, sostituendosi a quella medievale, l’equilibrio si è rotto e la bilancia si è piegata definitivamente a favore dell’individualismo. Ma, con ciò, la civiltà moderna, nata da una esaltazione dell’Uomo, ha imboccato anche la strada che la conduce verso l’implosione, quella dell’affermazione dei diritti e del piacere del singolo come scopo supremo dell’esistenza. La filosofia politica che ha codificato e legittimato pienamente questo atteggiamento è il liberalismo, dal quale, per gemmazione, è nato poi il socialismo, e, per reazione, il fascismo: tutte "risposte", più o meno legittime, più o meno paranoiche, allo squilibrio creato nelle società moderne dalla schiacciante prevalenza dell’interesse individuale su quello collettivo. Ed era inevitabile che così fosse: la catastrofe era implicita nelle premesse, perché una civiltà che nasce per esaltare l’Uomo, non può non risolversi in una esaltazione dei diritti e del piacere di ciascun singolo uomo; ma, se ciascun singolo individuo ha dei diritti assoluti e immediati da far valere, ciò significa che altri individui devono, necessariamente, mortificare la propria libertà, e quindi i loro diritti e il loro piacere. Ne deriva la progressiva perdita di efficienza e di vitalità di tutto il sistema, la sua fatale paralisi, il disperdersi delle sue acque in mille rivoli che s’insabbiano nel deserto. Le società, in quanto organismi, nulla sanno, infatti, di diritti assoluti: i diritti sono sempre relativi, anzi, il concetto stesso di "diritto" è figlio di una astrazione molto pericolosa, la tipica astrazione illuminista, secondo la quale il mondo deve rispettare le aspettative della ragione. Ma la ragione umana non è la Ragione assoluta; non è, per esempio, la ragione di Dio. Di conseguenza, può darsi che esista una ragione più alta, una razionalità superiore, che gli uomini non arriveranno mai, non diciamo a comprendere, ma neppure a vedere, neppure a intuire; e quelli che noi, sulla scia della mentalità illuminista, siamo soliti chiamare "diritti", devono cedere il passo, nella realtà concreta del fenomeno "vita", ad altre forme di esistenza, ad altre situazioni reali, e inchinarsi alla logica dei fatti, davanti ai quali non c’è diritto che tenga.

Un esempio di ciò è dato dalla morte. Secondo la logica dei diritti, la morte è qualcosa di assurdo e d’inaccettabile, perché lede quello che noi riteniamo, con tipico ottimismo illuminista, il nostro bene primario, il "diritto" alla vita. Se la morte ci sottrae questo presunto diritto, ci arrabbiamo e cerchiamo un colpevole sul quale scaricare la nostra frustrazione e la nostra rabbia impotente. Talvolta un responsabile, effettivamente, c’è: un datore di lavoro poco scrupoloso, che espone i suoi dipendenti, ad esempio dei minatori, a dei gravi pericoli che si potrebbero evitare, ne è un esempio; un altro esempio è un automobilista "pirata", che si mette al volante ubriaco, investe un passante e poi prosegue la sua corsa, senza fermarsi. Fin qui, le cose sono chiare. Ma che dire del crollo di una casa, o dell’esito infausto di una operazione chirurgica? Dovremo, per principio, trascinare in tribunale quell’architetto o quel medico, accusandoli di non aver lavorato secondo coscienza, e di aver causato la morte di persone innocenti? Forse sì, forse no. Da situazioni abbastanza chiare, ci stiamo addentrando in una nebbia sempre più fitta, dove è quasi impossibile distinguere eventuali responsabilità. Il camion che non ha frenato in tempo, sotto la pioggia, per esempio: colpa dei freni, colpa dei pneumatici, colpa delle previsioni meteorologiche sbagliate? A chi addosseremo la colpa dell’incidente? E quello sciatore travolto da una slavina, quel subacqueo ucciso da un’embolia, quel bagnante attaccato da uno squalo, quella pacifica popolazione decimata dal terremoto, o dall’eruzione vulcanica, o dallo tsunami, o dalla peste: di chi sarà la colpa, in tutti questi casi? Con chi ce la prenderemo? Il fatto è che morire si deve; ma l’uomo moderno, figlio della civiltà moderna, che esalta l’Uomo in astratto, e codifica migliaia e milioni di diritti, in concreto, di singoli individui, non può ammetterlo, non ci riesce, ciò è superiore alle sue forze. Se lo ammettesse, impazzirebbe. Perciò la civiltà moderna produce non solo società squilibrate, dove l’interesse e il vantaggio del singolo predominano implacabilmente sul bene comune, ma anche individui squilibrati, incapaci di accettare qualsiasi limitazione ai loro supposti diritti, a cominciare da quell’oltraggio irrimediabile e definitivo che è la morte. Ecco il punto: la civiltà moderna è fondata sul rifiuto dell’idea della morte, perché, esaltando la dignità dell’Uomo, in un senso puramente immanente e materialistico, non sa darsi ragione della morte, la considera alla stregua di una ladra, di una faina che cerca di penetrare nel pollaio, per fare strage delle galline. L’ideale della civiltà moderna, che ha la fissazione paranoide di "mettere in sicurezza" ogni cosa, dalle pareti franose di una montagna al comportamento di un ex amante deluso e incattivito, sarebbe quello di mettere al bando, definitivamente e inappellabilmente, questa spregevole e sleale nemica, la morte; di mettere delle tagliole per catturare la faina che ha osato introdursi nel pollaio, e assestarle il colpo di grazia, con tutta la rabbia accumulata in proporzione alla paura di dover morire. In altre parole, la civiltà moderna nasce da una ripresa dell’antichissima follia di Adamo ed Eva: essere come Dio e non morire mai, esser padroni del segreto della vita eterna. L’uomo moderno sta impazzendo perché vorrebbe essere come dio, ma la presenza della morte gli ricorda continuamente la sua condizione di creatura, condizione alla quale vorrebbe ribellarsi.

Per darsi ragione della morte, c’è una strada soltanto: quella dell’umiltà; quella del riconoscersi creature, e quindi esseri mortali, fragili, che un soffio di vento può spegnere come candeline, in qualsiasi momento. Da questa umiltà e da questa accettazione può rinascere un senso di pace e di sicurezza ben diverso da quello, irrealistico e megalomane, alimentato dalle società umanistiche: un senso di pace e di sicurezza che nasce dal sentimento religioso e della certezza che il mondo è stato creato da Dio, che Dio è il Dio della vita e non della morte, e, pertanto, che la morte non avrà su di noi l’ultima parola, ma non sul piano fisico, bensì sul piano soprannaturale. O sopravvivremo come anime, o periremo del tutto: non vi sono altre possibilità. Perché una cosa assolutamente certa è che il nostro corpo fisico finirà divorato dai vermi. Tutta la lotta faustiana dell’uomo moderno si risolve nel grottesco e patetico tentativo di prolungare indefinitamente la vita, la salute e la giovinezza del suo corpo fisico, impresa palesemente impossibile e contraddittoria. L’ultima follia è quella della ibernazione, come se, facendosi seppellire nel ghiaccio, l’uomo potesse realmente porre una ipoteca sulla ineluttabilità della morte.

Se vogliamo spezzare questo circolo vizioso, e riaprire orizzonti di speranza, dobbiamo riscoprire l’etica del dovere e del sacrificio e abbandonare la funesta pretesa di far valere dei presunti "diritti" ad ogni pie’ sospinto. Una volta fatto ciò, riacquisteremo anche il senso della nostra posizione nel mondo, del nostro statuto ontologico di creature: cioè di esseri voluti e amati dal Dio della vita…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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