
Preghiamo per loro
24 Gennaio 2017
Inquietante attualità dell’ultimo papa di Nietzsche
24 Gennaio 2017Immaginiamoci due regni, che da moltissimo tempo stiano combattendo una guerra per disputarsi la sovranità su di un vasto territorio, ricco e popoloso: una guerra interminabile, estenuante, che si trascina da generazioni e generazioni, e della quale nessuno riesce a vedere una prossima conclusione. Tutti i tentativi di pace sono falliti, e i due sovrani, con i loro eserciti e con i loro popoli, sono tornati alle armo ogni volta con maggior determinazione, con una più strenua volontà di vittoria. Sono stati arruolati anche i giovanissimi, le donne hanno sostituito gli uomini in tutti i lavori dell’agricoltura, del commercio e dell’industria, sono stati contratti dei grossi debiti con i ricchi banchieri, e ogni singolo abitante è stato coinvolto negli scopi della guerra, nonché negli obiettivi della pace da conseguire attraverso di essa.
Poi, improvvisamente, uno dei due re decide di sospendere ogni offensiva, convoca i suoi generali e impone loro di non attaccare più, di restare con le armi al piede, anzi, di favorire una fraternizzazione fra le loro truppe e quelle del nemico. Solennemente, con aria compunta, egli dichiara loro che non c’è più alcun nemico, che si è combattuto invano e che le ragioni del buon vicinato, della solidarietà e della fratellanza umana devono prevalere. Aggiunge che bisogna estirpare sia nelle truppe, sia nella popolazione – e qui si rivolge ai suoi ministri – ogni spirito bellicoso; che bisogna riconvertire la produzione da tempo di guerra in quella del tempo di pace, che non si devono più fabbricare armi, ma aratri per il lavori dei campi. Infine, conclude dicendo che Dio li aiuterà nel nobile proposito di porre termine a così prolungate sofferenze, e che le generazioni future li benediranno e li ricorderanno con riconoscenza infinita.
Generali e ministri hanno ascoltato in silenzio; poi, come un sol uomo, escono dalla sala del consiglio e si affrettano ciascuno ad eseguire le istruzioni ricevute. I generali riuniscono le truppe, le informano delle decisioni del sovrano, incominciano a smobilitarle; ed esse, incredule e festose, si mettono senza indugio sulla via di casa. I ministri ritornano ai loro uffici e cominciano a diramare le nuove disposizioni; ovunque ci si abbandona alla gioia per la fine della guerra, sfilate di ringraziamento percorrono le strade, e inviti amichevoli vengono rivolti agli ex nemici, affinché vengano anch’essi e partecipino all’esultanza generale. Intanto ogni generale e ogni ministro incomincia a comportarsi come se fosse un piccolo sovrano, emana nuove disposizioni, prende decisioni autonome. Le truppe e la popolazione, a loro volta, formano degli organismi rappresentativi spontanei, e tutti incominciano a parlare in pubblico, a proporre modifiche a questa o quella legge, a suggerire riforme e novità: tutto questo con l’approvazione del sovrano, il quale, anzi, pur conservando la forma di governo della monarchia assoluta, ma solo sulla carta, non si stanca di incoraggiare forme sempre più avanzate di autogoverno, esperimenti sociali sempre più radicali, che investono ogni forma della vita pubblica.
In tanta esultanza, in tanta festa, c’è, però, qualcosa che non torna. Il nemico non ha smobilitato il suo esercito, non ha riconvertito le proprie attività produttive da quelle di guerra a quelle di pace. Continua, al contrario, a fabbricare armi, continua a richiamare sempre nuovi giovani nelle file dell’esercito. Il sovrano di quel regno non ha deposto affatto l’obiettivo di vincere la guerra e d’impadronirsi del vasto territorio conteso fra le due nazioni. La popolazione non si gode i vantaggi della pace, ma pregusta i frutti della prossima vittoria: molti progettano di trasferirsi nel regno vicino, non appena questo sarà stato occupato, e di sfruttarne le ricchezze a proprio vantaggio. Intanto, spie e sabotatori percorrono il regno che ha deposto le armi e sobillano i suoi abitanti a trastullarsi sempre più fiduciosamente nell’idea che la guerra sia finita per sempre, che non vi sia più nulla da temere e che non c’è ragione alcuna per stare in guardia contro eventuali sorprese. Alcuni ministri e generali si sono segretamente accordati con il re bellicoso, ne hanno ricevuto denaro e promesse, e ora, spronati dall’avidità e dall’ambizione, non tralasciano alcun mezzo per fiaccare ogni residuo di spirito combattivo e per favorire la diffusione di ogni sorta di vizio e di dissolutezza, affinché il regno sprofondi nella lussuria e nella gozzoviglia.
Soltanto pochissimi soldati e un unico comandante hanno accolto l’annuncio del re convertitosi alla pace, con stupore, sconcerto, angoscia. Sanno bene che il nemico non nutre gli stessi sentimenti di pace, però vedono che nessuno ha osato dirlo; constatano che non una sola voce si è levata, in quel fatidico consiglio, per ammonire il re contro i pericoli gravissimi insiti nella sua decisione unilaterale. Una guerra non finisce così, da un giorno all’altro, solo perché uno dei due contendenti ha deciso che non vale più la pena di combatterla: una guerra finisce quando uno dei due regni prevale sull’altro, oppure quando entrambi i sovrani si accordano per stipulare, di comune accordo e con eguale volontà, un vero e proprio trattato di pace. Ma qui non c’è stato alcun trattato, l’esercito nemico è intatto e pronto a scattare all’offensiva, nulla fa pensare che da lì possa venire un sincero desiderio di affratellamento. Le ragioni del contendere esistono tuttora, ed è assurdo pensare che si sia combattuto tanto a lungo senza ragione alcuna. Quell’unico comandante che è rimasto al suo posto, è stato criticato e deriso dagli altri; il re, alla fine, lo ha destituito e gli ha ordinato di allontanarsi. Fra le truppe, pochi reparti sono rimasti negli accampamenti, decisi a vigilare per difendere il paese, se le truppe nemiche sferreranno un’offensiva: cosa che molti segnai fanno pensare sia imminente. Ma quei pochi reparti sono isolati, e, alle loro spalle, non hanno né le simpatie, né il sostegno della popolazione. Al contrario: essi vengono visti come degli irriducibili amanti della guerra, che non vogliono rassegnarsi all’avvento della pace; e perciò sono odiati, vilipesi, calunniati. Sono doppiamente soli: soli di fronte al nemico, soli nella loro stessa patria.
E ora proviamo ad illustrare il significato di questa parabola.
I due regni sono la Chiesa e il mondo. Che siano in guerra, e che lo siano sempre stati, lo hanno sempre saputo entrambi: come vide bene sant’Agostino, tutta la storia umana, dall’avvento di Cristo in poi, è stata una lunga battaglia fra la Città di Dio, retta dall’amore, e la città dell’uomo, retta dall’egoismo. Il mondo lo ha sempre saputo e ha sempre odiato la Chiesa; ha sempre cercato di combatterla e distruggerla, ora assalendola dall’esterno, con calunnie, persecuzioni e guerre (che proseguono tuttora, se qualcuno se ne fosse dimenticato: mancano all’appello, negli ultimi tre o quattro anni, alcuni milioni di cristiani della Siria, dell’Iraq e di altri Pesi dell’Asia anteriore), ora infiltrandola e avvelenandola dal’interno, con eresie, scismi, apostasie. Anche la Chiesa, da parte sua, è sempre stata consapevole sia della guerra, sia della posta in gioco, e quindi del pericolo; e si è sempre regolata di conseguenza, difendendosi sia contro i nemici esterni, sia contro quelli interni. Talvolta lo ha fatto con severità eccessiva; talvolta, per difendersi, è passata all’attacco per prima, come nel caso delle Crociate; mai, però, ha smarrito la coscienza che il nemico la insidiava da ogni parte e che ogni distrazione, ogni debolezza, sarebbero stati poi pagati a carissimo prezzo. Non si è trattato solo di una difesa armata; crociate ed Inquisizione non sono state le sue sole armi; al contrario: la difesa principale è stata affidata all’istruzione dottrinale, per custodire la verità del Vangelo, e alla cura verso la santificazione quotidiana, dando il buon esempio e vigilando per proteggere i buoni costumi e la vita morale.
Poi è arrivato il Concilio Vaticano II. Pio XII ne aveva avuto l’idea, ma vi aveva rinunciato: non perché vecchio e malato, ma perché conscio del pericolo. Sapeva quanto la massoneria si fosse già infiltrata nella Chiesa, e, infatti, aveva dato a don Luigi Villa l’incarico di indagare per snidarla e denunciarla. Sapeva anche che alcuni vescovi e teologi di tendenza modernista non aspettavano altro per forzare la Chiesa su di un binario nuovo, per imprimerle la svolta da essi desiderata, rompendo con la Tradizione e iniziando una sottile, graduale, paziente opera di re-interpretazione della Scrittura, in senso semi-protestante. Sapeva anche che esponenti degli altri culti e delle altre religioni erano pronti, anch’essi, a sfruttare vecchi e nuovi sensi di colpa dei cattolici per i tragici eventi del XX secolo, e specialmente per il dramma del popolo ebreo: lui stesso, il papa, era stato oggetto di una perfida campagna denigratoria incentrata sul suo presunto "silenzio" davanti al genocidio perpetrato dai nazisti. Ma quando morì e venne eletto Giovanni XXIII, che pure era anziano e malato anche lui, ogni remora cadde, e le forze potenti che premevano per la convocazione del concilio, prevalsero. Nessuno saprà mai con assoluta certezza fin dove arrivassero le intenzioni di papa Roncalli, e fin dove le cose andarono oltre le sue previsioni e i suoi desideri. E non c’è bisogno, crediamo, di specificare chi sia stato quell’unico generale che non volle disarmare davanti al nemico: tutto di lui si può dire, ma non che sia stato un eretico; al contrario, egli fu l’esatto contrario di un eretico: chiese semplicemente di poter seguitare a servire Dio così come la Chiesa cattolica aveva sempre fatto, e sempre insegnato che si dovesse fare. A partire da quel momento, gli eventi presero un ritmo sempre più veloce, quasi frenetico: un vento di novità, una febbre di cambiamento squassò la Chiesa, dal vertice alla base; vi fu quasi una gara, fra i teologi e i vescovi più "avanzati", per spingersi sempre più innanzi, sempre più lontano dalla Tradizione, con il generoso e volonteroso supporto dei mass media, a loro volta indottrinati dalle forze occulte anticristiane. Ogni aspetto del cattolicesimo ne fu investito: non fu solo una riforma liturgica (e architettonica, tale da deturpare migliaia di chiese, cattedrali e abbazie millenarie), ma una rivoluzione totale, anche se quella decisiva – ossia quella dottrinale – venne attuata con eccezionale abilità e cautela, anzi, venne perfino negata, e questo mentre la si portava avanti, tenacemente, subdolamente, giorno dopo giorno, anno dopo anno.
Sappiamo bene che parlare di "guerra" fra la Chiesa e il "mondo" suona male, malissimo, ai delicati orecchi di tutti i cattolici progressisti e neo-modernisti (questi ultimi li chiameremo ancora così, per praticità, ma sia chiaro che il modernismo è un’eresia e quindi che i modernisti non sono dei veri cattolici, ma degli anti-cattolici), e che essi rifiutano ogni metafora bellicosa, ogni accostamento, sia pure simbolico, fra la Chiesa e un esercito combattente. Si tratta di un problema loro. La verità è che la guerra esiste, anche se il "mondo" che odia la Chiesa, per usare le precise parole di Gesù (se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me), e contro il quale la Chiesa è, di fatto, in guerra, che piaccia o che non piaccia ai preti di sinistra, come padre Turoldo o come i vari don Gallo, non è tutto il mondo, ma quella parte di esso che è incompatibile con il Vangelo, perché fondata sull’amore di sé e sulla pretesa di fare dell’uomo il dio di se stesso. Perciò, tanto peggio per quei cattolici che non vogliono prendere atto della realtà, e che predicano il dovere di abbracciare tutti, anche coloro che odiano la Chiesa e vorrebbero vederla distrutta: si comportano esattamente come quel re di cui abbiamo parlato sopra, e come i suoi ministri e generali, inebriati dall’idea di una pace illusoria, di una fratellanza artificiale e improvvisata, ma soprattutto irrealistica. Che altro deve ancora accadere, che non sia già accaduto, se non basta nemmeno che dei nemici di Cristo entrino in chiesa e sgozzino il sacerdote sull’altare, perché codesti cattolici buonisti e dialoganti aprano finalmente gli occhi sulla realtà? Ma tant’è: i pastori infedeli presenti nel clero cattolico, i cattivi teologi, e i cardinali e vescovi massoni, non metteranno mai le carte in tavola, non si presenteranno mai per quel che sono realmente. Seguiteranno a fingersi cattolici e a fingere che, nella Chiesa, nonostante la loro opera nefasta, non sia ambiato niente: mentre è cambiato quasi tutto, e, soprattutto, è cambiato l’essenziale.
L’essenziale è Dio, la sua presenza viva e vera: e questa presenza, nel cattolicesimo, è data dall’Eucarestia. Quando un cattolico entra in chiesa, per prima cosa cerca, o dovrebbe cercare, con lo sguardo, la lampada rossa che indica, sull’altare, la presenza del Santissimo. Ora in molte chiese non si capisce più dove sia il Santissimo; il tabernacolo è stato spostato, quasi nascosto; e in alcune, ahimè, già comincia ad essere spenta quella luce benefica, quella luce soprannaturale. Già alcuni teologi, che pur si definiscono ancora cattolici, incominciano ad insinuare che, nell’Ostia consacrata, non c’è la presenza reale di Gesù Cristo, ma che si tratta di una presenza simbolica: in altre parole, si stanno adoperando per eliminare Dio dalla Messa, e quindi per eliminare la presenza viva di Gesù tra i fedeli, e, con ciò, tutto il valore ed il significato della Messa. Questa, ormai, è la posta in gioco: e se siamo arrivati a questo punto, è perché, a partire dal Concilio Vaticano II, è stato permesso ai lupi travestiti da agnelli di spargere la loro zizzania in mezzo al grano, e di lavorare occultamente, ma con audacia sempre più esplicita, per demolire le fondamenta stesse del grandioso edificio, che Gesù in persona ha fondato due millenni or sono. Se, Dio non voglia, le cose proseguiranno secondo il ritmo attuale, arriverà presto il momento profetizzato da Pio XII: l’avvento di una Chiesa senza Cristo, di una religione senza Dio, di una redenzione senza conversione. E’ davvero questo che vogliamo?
Forse ai signori ecumenisti postconciliari, ai sostenitori entusiasti degli incontri e delle marce inter-religiosi di Assisi, ai devoti ascoltatori di Enzo Bianchi ed estimatori della comunità di Bose, farebbe bene rileggersi questo solenne ammonimento (non è una semplice affermazione, non è una opinione personale: è un monito vero e proprio) di papa Leone XIII, che pure, forse per via della Rerum Novarum, viene solitamente gabellato dai modernisti per un pontefice progressista, secondo i loro desideri:
Che ognuno eviti qualsiasi rapporto con coloro che si nascondono dietro la maschera della tolleranza, del rispetto di tutte le religioni, della mania di conciliare le massime del Vangelo con quelle della rivoluzione, Cristo con Belial, la Chiesa con lo stato senza Dio.
Sono parole piuttosto chiare, e anche abbastanza forti: non è vero?
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Biswajeet Mohanty from Pexels