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Così Ottone III salì penitente alla grotta di S. Michele

Ottone III di Sassonia, figlio di Ottone II e della principessa bizantina Teofano, re di Germania a tre anni e sacro romano imperatore a diciassette, morto a soli ventuno anni, fu un genio impetuoso e per certi aspetti utopistico e quasi donchisciottesco. Nella sua breve vita e nella sua meteorica vicenda politica, che lo vide impegnato in una Renovatio Imperii in chiave di universalismo cristiano, e perciò a fare di Roma e dell’Italia il perno della sua azione, ebbe modo di colpire l’immaginazione dei suoi contemporanei, fra le altre cose, con la pubblica penitenza cui si sottopose per volontà di san Romulado, dopo essersi macchiato le mani di sangue nella crudele repressione di un’ennesima rivolta dei baroni romani e per punire l’insediamento di un ennesimo antipapa, nella persona di Giovanni XVI.

Così quel celebre episodio è stato rievocato, per sommi capi, da Mario Azzarone nell’articolo Ottone III di Sassonia, imperatore e pellegrino (sulla rivista-bollettino Michael del Santuario del Gargano, n.87 del febbraio 1997, pp. 16-18):

Risorgeva frattanto in Roma la potenza dei Crescenzi che, non avendo sopportato l’elezione del papa tedesco, deposero Gregorio V ed elessero al suo posto un greco di Calabria col nome di Giovanni XVI. Tutto questo irritò Ottone che subito fece ritorno a Roma. Qui con molta determinazione sedò la rivolta, facendo uccidere Giovanni Crescenzi, il cui cadavere venne pubblicamente impiccato. Non migliore sorte toccò al papa Giovanni XVI che fu mutilato ed imprigionato; fu insediato come nuovo papa il maestro di Ottone, Gerberto d’Aurillac, ch assunse il nome di Silvestro II, primo papa francese sul soglio pontificio.

A questo punto un grande turbamento si insinuò nell’animo di Ottone III macchiatosi di gravi delitti che tutti i cittadini romani avevano avuto la possibilità di constatare. Un pubblico delitto doveva essere lavato con una pubblica penitenza.

E san Romualdo impose al giovane imperatore di recarsi sul Monte Gargano nella grotta santa di San Michele dove, per speciali virtù connesse al sacro luogo, tutti i peccati vengono rimossi chiedendo perdono al principe delle milizie angeliche.

Tutti gli scrittori dell’epoca trascrissero questo episodio e questo pellegrinaggio che l’imperatore volle compiere.

Il viaggio fu lungo e faticoso in pieno inverno del 999 ed Ottone, accompagnati da nobili e gente comune, giunse alla sacra grotta dive sostò per qualche giorno. Le soste più importanti durante l’itinerario verso il Gargano furono Montecassino, Capua (20 febbraio), Benevento e Siponto

Questo pellegrinaggio dal Lazio al Gargano e dal Gargano a Roma, oltre a segnare un grande successo politico per Ottone che passò come trionfatore in paesi ostili che non avevano accettato l’autorità imperiale, costituì un esempio di atto penitenziale che le popolazioni delle province di Roma e di Frosinone puntualmente ogni anno da mille anni ripetono, effettuando il pellegrinaggio verso il Gargano per venerare san Michele.

«Il pellegrinaggio dell’Imperatore dei romani sul Gargano — scrive il Gregorovius — fece sensazione nel mondo di allora e contribuì a diffondere il culto dell’Arcangelo in tutto l’Occidente. Da questo momento si videro Longobardi dell’Italia settentrionale e meridionale, Franchi, Sassoni, Anglosassoni, Normanni, gente altolocata ed umile, andare tutto l’anno in pellegrinaggio per l’erto sentiero che conduce al Gargano, con amuleti consacrati, con la conchiglia del pellegrino pugliese attaccata al cappello o all’abito e con il rampo di pino del Gargano…»

Ritornando a Roma, Ottone andò a ritrovare san Nilo nel suo monastero a Serpiri, vicino a Gaeta e poi proseguì verso Ravenna, fermandosi presso il monastero di Sant’Apollinare in Classe per incontrare san Romualdo, senza però ritrovarvi il santo abate. Nel detto monastero l’imperatore rimase per quaranta giorni in stretta disciplina di penitenza come una iscrizione in latino posta su una lapide della basilica ravennate ricorda:

«Ottone III imperatore Germanico dei Romani sottoponendosi per i suoi peccati alla strettissima disciplina di san Romualdo, pellegrinò a piedi nudi da Roma al Monte Gargano: dimorò penitente in questo convento, espiò le sue colpe con il cilicio e con volontarie mortificazioni, dette un luminoso esempio di umiltà e, quale Imperatore nobilitò questo tempio e la sua penitenza» (Cfr. ANGELILLIS C., in "Michael" n.1, 2, 1948).

Ma i pellegrinaggi di Ottone non finirono.

All’inizio dell’anno 1000, Ottone percorse tutta la Germania in solenni pellegrinaggi. Il giorno della Pentecoste, Ottone si fece aprire la tomba di Carlomagno nella cappella di Aquisgrana, il cui sito gli era stato rivelato in sogno. Discese nella cripta, meditò lungamente davanti alle spoglie del grande imperatore, ne distaccò una piccola croce e, in modo solenne, fece sistemare il corpo in un sarcofago. Era un modo per far rivivere e per continuare l’epoca carolingia.

Di altra natura fu il pellegrinaggio a Giezno, centro importante in Polonia da cui dipendevamo diversi vescovadi, compreso quello di Cracovia.

Qui venne a pregare sulla tomba del suo amico sant’Adalberto.

Ricapitolando. Ottone II, imperatore del Sacro Romano Impero Germanico, fece diversi pellegrinaggi nel corso del suo regno, uno dei quali, quello alla grotta dell’Arcangelo San Michele sul Monte Gargano, ebbe scopo di pubblica penitenza e perciò di pubblica edificazione, seguendo docilmente l’ordine impartitogli, a lui, il sovrano più potente dell’epoca, da Romulado, un monaco che disponeva solamente delle armi spirituali e che non aveva esitato a lanciare l’anatema contro di lui e anche contro il papa Gregorio per la crudeltà usata nella repressione del moto dei Crescenzi e nella severissima punizione inflitta all’antipapa Giovanni XVI, per il quale san Nilo aveva chiesto invano che fosse usata clemenza.

Lo spettacolo di un sovrano potente e temuto, in teoria il sovrano di tutti i sovrani, che si mette in pellegrinaggio ed entra a piedi scalzi in un famoso santuario per pregare l’arcangelo Michele e chiedere a Dio perdono dei propri peccati, e che poi si ritira in un convento e per quaranta giorni, a imitazione di Gesù Cristo nel deserto, si sottomette a una ferrea disciplina penitenziale, dovette colpire profondamente i contemporanei, dai nobili all’ultimo popolano: compiendo simili gesti, Ottone mostrava di non considerarsi superiore a qualunque altro uomo di fronte alla legge del Signore e di essere pronto a espiare i suoi peccati e a mostrare apertamente il suo pentimento, senza che ciò fosse interpretato come un segno d’irresolutezza o in qualunque maniera di debolezza. Il messaggio era chiaro: di fronte a Dio non ci sono imperatori o contadini, ma solamente anime: anime che cercano la salvezza sottomettendosi dolcemente ai Suoi voleri, oppure anime che si ribellano a Lui e che meritano così le pene dell’inferno. A quei tempi, i capi delle nazioni non desideravano in alcun modo mostrarsi diversi dai loro sudditi quanto al senso morale, alla fede religiosa e al comune sentire fondato sui valori morali: erano perfettamente in linea con la società e la cultura del loro tempo, e si presentavano davanti alla Chiesa con la stessa umiltà che veniva richiesta a chiunque altro, né più né meno. L’idea che un uomo politico debba essere più "avanti", più emancipato, più spregiudicato in fatto di morale o di credenze religiose rispetto alla gente comune, si sarebbe affermata solo assai più tardi, in particolare con l’illuminismo e la Rivoluzione francese; e prima ancora col Rinascimento, la Rivoluzione luterana e dal cosiddetto assolutismo illuminato.

In questo senso, Luigi XVI non fu solo l’ultimo sovrano assoluto di diritto divino, fu anche l’ultimo sovrano cattolico, che riteneva la difesa dei diritti della Chiesa parte integrante del suo mandato: di fatto si può interpretare la sua caduta, il suo processo e la sua condanna a morte come una conseguenza del suo rifiuto di approvare la Costituzione civile del clero e perciò le persecuzioni anticattoliche scatenate in Francia dai rivoluzionari; a buon diritto pertanto lo si può considerare un martire della fede. Egli è stato veramente l’ultimo dei sovrani europei che hanno concepito il proprio potere come uno strumento per la gloria del Signore, sulla linea di un Luigi il Santo, condottiero dell’Ottava crociata. Gli ultimi epigoni di questa concezione politica sono stati poi Nicola II Romanov in Russia, con riguardo alla Chiesa ortodossa, e Carlo I d’Austria (e Carlo IV d’Ungheria), beatificato nel 2004 da Giovanni Paolo II, il cui brevissimo regno, nella fase più aspra della Prima guerra mondiale, fu troncato dalla volontà massonica di cancellare dalla carta geografica l’ultimo impero multinazionale fondato sulla tradizione cattolica. Fuori d’Europa, ma sempre nella tradizione cattolica, l’ultimo capo di Stato a incarnare pienamente l’ideale religioso fu probabilmente il presidente dell’Ecuador, Garcia Moreno, anche lui eliminato dalla longa manus delle logge ormai votate alla cancellazione di quella tradizione.

Noi tutti abbiamo appreso, fin dai banchi della scuola elementare, e poi ancora ci è stato ripetuto quando eravamo nelle aule del liceo e dell’università, che i sovrani medievali avevano la strana pretesa di credersi incoronati per volontà di Dio e che il loro assolutismo era tanto spietato quanto arbitrario, non trovando limite alcuno nelle leggi umane, rispetto alle quali si consideravano superiori e perciò non giudicabili da alcuno. Solo pochi di noi, nel corso degli anni, si sono disintossicati dalla cultura progressista ricevuta dalla scuola e hanno riflettuto che nessun sovrano assoluto dell’epoca pre-illuminista si è mai macchiato di crimini orrendi anche solo lontanamente paragonabili a quelli dei dittatori moderni come Hitler o Stalin, ma anche i capi delle nazioni democratiche come Churchill o Roosevel, ad esempio con la malvagia (e inutile) distruzione aerea di Dresda affollata di profughi, o le bombe atomiche sganciate su due inermi città giapponesi; e che, se è vero che non riconoscevano ad alcun tribunale umano il diritto di giudicarli (tale fu anche la linea processuale adottata da Carlo I Stuart allorché venne trascinato in giudizio dai suoi sudditi ribelli), non per questo si ritenevano al di sopra di qualsiasi legge, perché; al contrario, si consideravano soggetti alla legge divina quanto e più dei loro sudditi, accettando, all’occasione, di essere ammoniti e anche condannati e scomunicati dai pontefici, se il loro comportamento era stato biasimevole e tale da recare pubblico scandalo al senso morale. Insomma, per conto nostro e mettendo in discussione tutto ciò che ci era stato insegnato come verità sacrosanta, ci siamo accorti, o meglio alcuni di noi si sono accorti, che qualcosa non torna nella narrazione dei secoli nei quali i sovrani erano cristiani praticanti e si sforzavano di far sì che anche i loro sudditi lo fossero, e qualcos’altro non torna nella narrazione della storia moderna, dove la sovranità popolare" è andata al potere sulla scia delle idee di Locke, degli illuministi, di e di Rousseau.

Lungi da noi voler idealizzare ad ogni costo i secoli della civiltà cristiana e dal voler demonizzare per partito preso tutto ciò che è uscito dalla politica moderna. Sappiamo bene che alcuni sovrani cristiani calpestavano la legge divina non meno di quella umana, e che se mostravamo pentimento, come Enrico IV a Canossa, era sovente solo per farsi togliere la scomunica, e poter ricominciare come prima e peggio di prima; e sappiamo pure che molti pontefici medievali distribuivano scomuniche o corone di re e imperatori in base a calcoli meramente politici. E tuttavia, riteniamo innegabile che il rapporto fra prima e dopo l’avvento della modernità, fra prima e dopo l’avvento della cosiddetta sovranità popolare, fra prima e dopo la laicizzazione dello stato e l’estromissione di ogni traccia della tradizione religiosa dalla vita civile, sia stato falsato a bella posta per fuorviare il nostro giudizio e che perciò richieda un radicale ripensamento, pur senza cadere in sterili nostalgie e utopistiche fughe dalla realtà. Riteniamo inoltre, da cattolici, che uno stato nel quale vi è una salda coscienza della propria tradizione e della propria identità e civiltà, sia, anche giudicando da un punto di vista puramente umano, tanto più sano, coeso e umano, rispetto ad uno stato agnostico o anticristiano, massonico e tutto proiettato verso le crudeli ideologie della modernità, dominate da un utilitarismo spietato e da una concezione puramente materiale e quantitativa dell’uomo e di tutte le questioni umane, come se fossero riducibili a pure e semplici equazioni algebriche e le si potesse risolvere con dei meri provvedimenti burocratici o con interventi tecnologici. Qualcuno riesce per caso a immaginare uno di questi uomini di stato e di governo dei nostri dì, chiedere pubblicamente perdono per i loro errori (se così vogliamo chiamare i crimini attuati nel corso del colpo di stato globale scattato dal marzo 2020) e fare penitenza sotto gli occhi dei loro concittadini? Certo, sarebbe una cosa impossibile, dal momento che sono tutti asserviti alle forze sataniche e anti-umane della massoneria internazionale e della grande finanza speculativa. A ciascun secolo, i suoi statisti…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Biswajeet Mohanty from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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