
«Dove non si può più amare, bisogna passare oltre!»
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22 Gennaio 2017Quando gli studenti di liceo s’imbattono nel canto XIV dell’Inferno dantesco, viene spiegato loro che la figura del Veglio di Creta è stata ispirata a Dante dal sogno di Nabucodonosor e che, pertanto, la sua fonte letteraria risiede nel secondo capitolo del Libro di Daniele. Tuttavia, resta inevasa la domanda — e crediamo che ben pochi professori si diano la pena di rispondervi — sul perché il Veglio, d’ispirazione biblica, sia stato trasportato dalla fantasia di Dante nel sottosuolo del Monte Ida, nell’isola di Creta. Perché proprio lì, dal momento che l’Antico Testamento non parla affatto della grande isola greca? Non si può certo immaginare che si tratti di una collocazione arbitraria; nel cosmo di Dante ogni cosa si tiene con l’altra, tutto è mirabilmente concatenato, nessuna licenza poetica consente di derogare alla scienza e alla geografia del suo tempo; non ci vediamo, pertanto, il Poeta porre a caso la punta dell’indice su una carta della superficie terrestre e scegliere a caso la collocazione di quel famoso episodio della Divina Commedia.
In effetti, esiste una ragione ben precisa di quella scelta. Secondo una diffusa credenza medievale, dopo essere stati cacciati dal Paradiso terrestre a causa del Peccato originale, Adamo ed Eva erano stati trasportati da un Angelo di Dio sull’isola di Creta, che fu, pertanto, la prima culla del genere umano. Di conseguenza, è logico che la progressiva corruzione morale dell’umanità, simboleggiata dalla gigantesca statua del Veglio, che è formata da materiali diversi — oro, argento, rame, ferro e terracotta – sia collocata in quel luogo e non altrove. Il fatto che in una caverna del Monte Ida fosse stato nascosto Zeus da bambino — là dove sua madre, Rea, lo aveva partorito — per sottrarlo alla crudeltà di Crono, non c’entra; così come è un po’ tirata per i capelli la spiegazione classica, secondo la quale Dante avrebbe posto il Veglio nell’isola di Creta perché questa si trova a metà strada fra Damietta, simbolo delle civiltà orientali, e Roma, centro della civiltà latina e cristiana. Tuttavia, se il nostro ipoetico studente ha la curiosità di saperne di più, di solito i libri su cui studia non gli danno la risposta, e forse non gliela darà neanche l’ insegnante. A meno che costui non sia uno studioso di tutto il mondo di Dante, e non solo della Divina Commedia o delle più note fra le opere minori.
Ecco, questo è uno di quei casi — e ce ne sono parecchi — nei quali appare evidente che, che per comprendere pienamente il senso della immaginazione poetica di Dante — che, come si è detto, non è mai arbitraria né corre che virtù no’l guidi, ma poggia sempre su solide basi dottrinali, teologiche, filosofiche, scientifiche e morali — sarebbe necessaria anche una certa conoscenza delle sue idee in fatto di geografia e di cosmografia, che vada oltre i soliti schemi e le solute cartine inserite normalmente nelle edizioni scolastiche, e sui quali, del resto — diciamo la verità — ben pochi insegnanti si soffermano per attirare l’attenzione dei loro studenti. Così questi, divenuti adulti, se pure continuano ad amare e a leggere Dante, si sono ormai formati la convinzione che, per capire il Poeta, non sia affatto necessario conoscere il "suo" mondo geografico. Eppure si tratta di una convinzione erronea, anche se piuttosto diffusa, perché lo spazio fisico – terrestre e cosmico – nel quale Dante colloca il suo poema, è una proiezione, sì, del suo universo morale (diciamo il suo, per dire quello del cristianesimo medievale), ma, appunto perché fondato su di una allegoria, o meglio, su tutta una serie di allegorie, non prescinde mai da una concezione del reale estremamente rispettosa dei dati scientifici allora disponibili. Pertanto, la sua conoscenza è necessaria per avere una comprensione ampia, a trecentosessanta gradi, dei significati del poema. Al contrario, di solito per le opere moderne vale un criterio di larghissima discrezionalità fantastica: non è importante localizzare esattamente l’isola del Robinson Crusoe di Defoe, o quella del Giorno Prima di Eco: non lo è dal punto di vista della fruizione e della piena comprensione del significato di quei romanzi.
Serviamoci allora della Esposizione critico-esegetica in prosa della Divina Commedia di Dante di Salvatore Sciuto, per chiarirci un po’ le idee in materia (Torino, S.E.I., 1941-XIX, pp. 52-56):
La terra è, per Dante, un minuscolo globo, immobile al centro dell’immenso Universo sferico. Essa è divisa in due emisferi eguali da due meridiani che, partendosi dai Poli, vengono a tagliare perpendicolarmente il piano dell’Equatore. Di questi meridiani l’uno è tangente alle foci dell’Indo, l’altro rasenta le isole Fortunate o Canarie, ad Ovest dell’Africa. L’emisfero occidentale è il solo abitato, l’orientale invece è occupato per intero da un immenso oceano, salvo un’isoletta (la montagna del Purgatorio), che è agli antipodi di Gerusalemme.
Nei più remoti tempi della creazione, prima ancora della comparsa dell’uomo sulla terra, le acque e i continenti erano equamente distribuiti su tutta quanta la superficie terrestre; ma, allorché Lucifero (cacciato dall’Empireo) venne a precipitare a capofitto nell’emisfero orientale, i continenti, impauriti per l’avvicinarsi dell’angelo ribelle, corsero quasi a rifugio verso l’opposta parte dando origine all’Asia, Africa ed Europa, e lasciando nel posto evacuato l’immensa solitudine delle acque. Lucifero, nel suo cadere, forò pel mezzo il nostro pianeta, e venne ad incastrarsi nel centro di esso: anche la terra del sottosuolo, che stava sul capo al "gran verme", ne fuggì atterrita il contatto lasciando un gran vuoto a forma d’imbuto e, ricorrendo internamente all’insù, si ammassò tutta nell’emisfero orientale venendo così a formare un altissimo monte o isola emergente dalla superficie delle acque. L’orgoglioso nemico di Dio rimase pertanto prigione nel centro della terra, ove esercita il suo triste impero sugli altri angeli ribelli, abitatori con lui della voragine sotterranea (Inferno): perpendicolarmente al suo capo trovasi il Calvario — ove G. Cristo compì la redenzione del genere umano — ai suoi piedi l’isola o il monte destinato alla purificazione delle anime (Purgatorio), nella cui cima verdeggia l’Eden o Paradiso terrestre. L’asse morale del cosmo dantesco, nella sua mirabile armonica simmetria, è pertanto costituito dalla retta che passa per Gerusalemme (la Redenzione), Satana (il male), montagna del Purgatorio (l’espiazione) e, attraverso ai vari ordini di cieli che a mo’ di fasce avvolgono la terra, perviene all’Empireo (Dio). Lucifero dunque trovasi rinchiuso al centro dell’Universo, nel punto più da Dio remoto e ad egual distanza dai luoghi della Redenzione e dell’espiazione. La cavità infernale ha, come si è detto, la forma d’imbuto ed è, in proporzione all’intero globo terrestre, di assai piccole dimensioni: il suo cerchio superiore o massimo ha infatti per raggio la retta che congiunge Gerusalemme col monte Ida nell’isola di Creta, d’una lunghezza approssimativa di km. 1060. In una caverna di questo monte trovasi, come già si è accennato, la colossale statua di un Veglio (raffigurante l’umanità), dalle cui fenditure scorrono lacrime che, raccogliendosi perpendicolarmente nel sottosuolo, vanno successivamente a formare i fiumi infernali, Acheronte, Stige e Flegetonte, e di poi vengono a congelarsi all’imo nella ghiaccia di Cocito, su cui sporge il capo Lucifero. Il monte Ida dunque deve necessariamente esser sito al di sopra e in direzione della periferia di detto circolo massimo.
La cavità sotterranea è superiormente ricoperta da uno strato concavo di crosta terrestre e comunica all’esterno per mezzo di due aperture: l’una al basso, costituita da un foro ("la burella" ultrainfernale) che dallo stagno gelato di Cocito mena in sulla spiaggia dell’isola del Purgatorio; l’altra in alto (porta d’ingresso dell’Inferno), disposta a settentrione lungo la periferia del Vestibolo infernale. Tra la porta dell’Inferno e la superficie terrestre (ossia attraverso allo spessore della crosta terrestre) è praticato, a pendio piuttosto ripido, uno stretto passaggio a guida di pozzo. L’apertura esterna di cotesto pozzo dev’essere in vicinanza del colle della felicità, ossia poco lontano da Roma. Se, infatti, alle foci del sacro Tevere, vale a dire alla destra di Roma (considerata l’Italia come persona avente il capo a Nord e i piedi a Sud), si radunano le anime dei giusti per essere di là traghettate dall’Angelo all’isola del Purgatorio (cfr. Purg., II, 100-105), sarà appunto verso la sinistra della Città Eterna sita l’imboccatura del pozzo che, attraverso alla selva, conduce le anime dei dannati alla "trista riviera d’Acheronte"; giacché è costume di Dante porre antiteticamente la via del bene a mano destra e quella del male a sinistra. Probabilmente, secondo noi, l’apertura di cotesto passaggio sotterraneo deve identificarsi col famoso antro della Sibilla, presso Cuma. Comunque, Dante e Virgilio, messisi pel "cammino alto e silvestro" e battendo un sentiero a velocità fantastica, giungono verso l’ora della mezzanotte del 25-26 marzo 1300 dinanzi alla porta infernale.
Da un paio di decenni almeno vi è stato un calo verticale nella considerazione della geografia come materia di studio. Da quando hanno fatto irruzione le tecnologie informatiche, e da quando l’inglese si è definitivamente imposto — sbaragliando ogni residua concorrenza – come la lingua universale e obbligatoria della globalizzazione, gli "esperti" di cose scolastiche sono andati a caccia di discipline "sacrificabili" per fare spazio a questi nuovi "saperi" (orribile ma fondamentale neologismo dello scolastiche politically correct), e quella della geografia è stata una delle prime teste a cadere. Invece lo studio della geografia è importante — sia quella fisica, sia quella antropica — e, nel caso specifico, la conoscenza della geografia su cui si regge l’universo dantesco è indispensabile per una adeguata comprensione della Divina Commedia.
L’universo geografico di Dante si estende dalle Colonne d’Ercole, all’estremo occidente, alla foce dell’Indo, all’estremo oriente, dice Salvatore Sciuto, un dantista che è rimasto un po’ nell’ombra e che oggi è pressoché dimenticato, ma che ebbe una certa notorietà, non immeritata, negli anni fra le due guerre mondiali (la prima edizione dell’opera citata è del 1920); in verità, fino al Gange: cfr. Purgatorio, II, 5, e Paradiso, XI, 51, come lo era per gli antichi, sulla scorta delle storie di Alessandro Magno, come quella di Curzio Rufo o come la biografia contenuta nelle Vite parallele di Plutarco. Al di là delle Colonne d’Ercole vi era solamente un immenso oceano, così come al di là delle foci del Gange; per cui si pensava che tutta l’ecumene fosse compresa fra queste due località. Il fatto che Gerusalemme si trovi, press’a poco, a metà strada fra esse, stava a indicare, nella concezione medievale, la perfetta provvidenzialità divina: Il Verbo si è incarnato in un luogo geografico dal quale è stato più facile, poi, ai discepoli di Cristo, diffondere il suo Vangelo in direzione dei quattro punti cardinali, secondo l’esortazione di Gesù stesso: Andare in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura (Marco, 16, 15).
Ecco: questa è un’altra delle circostanze che suggeriscono l’importanza di conoscere abbastanza bene l’universo geografico di Dante per poter entrare nella sua prospettiva, in modo da leggere il suo poema non restandone all’esterno, ma entrando, per quanto possibile, all’interno di esso. Non si tratta per niente di arido nozionismo: si tratta di sforzarsi di vedere il mondo come lo vedeva Dante, mentre componeva il suo poema; e, per farlo, è necessario sapere anche come egli lo immaginava fisicamente, e per quale motivo pensava che fosse fatto così come è fatto. Capire come e dove Dante collocava i personaggi e le situazioni dei regni oltremondani, sullo sfondo di un mondo fisico estremamente reale, che comprende i vivi e i morti, è molto importante, perché conferisce alla comprensione della sua prospettiva una profondità maggiore, un po’ come acquistare una visione tridimensionale delle cose. Ma tutto questo diventa perfettamente chiaro solo se si tiene presente il realismo di fondo della concezione dantesca del reale: realismo in senso cristiano (un po’, se si vuole, come quello del Manzoni), che non ha alcuna parentela con il realismo brutalmente immanentistico e materialista proprio della poesia e della cultura moderne.
Questo ci aiuta a capire perché non sia poi tanto importante localizzare l’isola di Robinson o quella di Roberto de la Grive: l’uomo moderno rifiuta le proprie radici, ha fastidio della propria identità, vorrebbe "liberarsi" da tutto ciò che lo definisce e che, secondo lui, lo condiziona, assetato com’è di una libertà assoluta (vedi L’Albatro di Baudelaire, o, ancor più, Il battello ebbro di Rimbaud), senza rendersi conto che essa, qualora riuscisse a conseguirla, lo distruggerebbe. L’uomo medievale, invece, poggia i piedi al suolo con forza, si sente cittadino di un qui e di un adesso ben definiti, proprio perché il suo sguardo è rivolto al Cielo e la sua anima anela all’eternità. Per trovare Dio, bisogna avere un io da oltrepassare, ma senza rinnegarlo. Mentre la civiltà moderna si compiace dell’io, pur avendone un segreto disgusto e desiderando di vederlo annientato: quel doppio uomo che è in me, dice Petrarca, il primo dei moderni.
Siamo così approdati ad una conclusione piuttosto interessante. La cultura moderna esalta il pluralismo, il cosmopolitismo, il cosiddetto multiculturalismo, e ora insegue anche l’idea che l’uomo sia privo di una vera identità, anche sessuale: sogna di potersi inventare una identità mutevole, volta per volta, secondo i suoi impulsi. Questo, naturalmente, lo porta verso l’auto-annientamento e fomenta il suo istinto di morte, già molto pronunciato. Intanto egli cerca di rassicurarsi con la filosofia dell’hinc et nunc, ma è solo una formula scaramantica: in realtà, sa benissimo di andare alla deriva verso il nulla, perché le forze da lui stesso messe in moto lo spingono verso la dissoluzione dell’io, ma senza nulla con cui sostituirlo. Il suo è un desiderio del nulla, un nichilismo radicale, che nasce dal suo fondamentale disamore di se stesso, per quanto camuffato da generosi strati di narcisismo. L’uomo medievale, che aveva i piedi ben piantati al suolo e che non era narcisista, perché amava la vita per davvero, sapeva quale strada seguire per oltrepassare l’io e trovare, al di là di esso, una realtà più luminosa e confortante: la dimensione del divino. Dante, nel suo poema, esprime questa doppia operazione dell’anima: la distruzione dell’io, e l’abbandono e la rinascita nel grembo di Dio. Per questo il mondo di Dante ha bisogno di precisione, anche in senso geografico: l’uomo, per lui, vuol sapere dove sta posando i piedi, perché è perennemente in cammino, homo viator, come dice anche Giovanni Duns Scoto, suo illustre contemporaneo (erano nati nello stesso anno): in cammino verso la liberazione e verso Dio, l’amor che move il sole e l’altre stelle.
Ed ecco la fondamentale differenza fra la geografia fantastica di un Tolkien, o di un Lovecraft, o di un Howard, e la geografia dell’Aldilà di Dante. Quest’ultima non è affatto fantastica, nel senso che noi attribuiamo alla parola: Dante, pervaso dall’idea della serietà della vita, non si permetterebbe di fantasticare su cose tanto importanti, come il percorso verso la salvezza: perciò la sua geografia, compresa quella del mondo ultraterreno, è disegnata sul solido fondamento delle conoscenze scientifiche del suo tempo. Il fatto che a noi quelle conoscenze possano apparire "fantastiche", come l’assegnare l’isola di Creta quale dimora di Adamo ed Eva dopo il Peccato originale, non dovrebbe far dimenticare che, al tempo di Dante e nella prospettiva dell’uomo medievale, non di fantasie si trattava, ma di solide certezze, attestate dalla Bibbia e dalla tradizione, e confermate dalla scienza (di allora, evidentemente). E con la stessa serietà l’uomo medievale prendeva anche l’astrologia, che per lui era scienza, tanto quanto quella che noi, oggi, chiamiamo — separandola nettamente da quella – astronomia. Dante non contesta la verità dell’astrologia, ma la liceità delle pratiche astrologiche sotto il profilo morale e religioso, nonché gli abusi e le falsificazioni cui esse davano sovente luogo. L’uomo moderno, che non ha una tale idea della serietà della vita, e che si considera, anzi, figlio del caso e diretto verso il nulla, si cura assai meno di sapere su quel terreno stia posando i piedi: nella sua geografia non vi sono né Gerusalemme, luogo della redenzione, né il Paradiso terrestre, luogo della purificazione, e nemmeno l’Inferno, luogo della dannazione. O così, almeno, egli crede.
In realtà, le cose stanno un po’ diversamente. L’uomo moderno è già all’inferno, ed è un inferno che si è costruito con le sue stesse mani, distruggendo sistematicamente, con passione e con tenacia, ogni occasione e possibilità di bene. Se potrà ancora salvarsi, sarà questione di quanto gli ci vorrà per prendere atto della sua vera situazione. Bisognerà che tutti i Vitangelo Moscarda del mondo moderno si rendano conto che essere uno, nessuno e centomila è soltanto un pietoso eufemismo per dire che si è nessuno e che si è già morti, morti e dannati, solo che non se ne è ancora interamente persuasi.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels