
«Tutta la sapienza è timore di Dio» (Sir. 19, 19)
18 Gennaio 2017
Quei teologi dalla fama immeritata che sfruttano per seminare il veleno modernista
20 Gennaio 2017La ragione umana, la ragione naturale, può condurre l’uomo fino alla comprensione della verità? Oppure questo traguardo le è fatalmente precluso dai suoi limiti intrinseci, dalla sua imperfezione di strumento puramente umano?
I filosofi, naturalmente, si sono sempre posti il problema; e se lo sono posti, come loro e più di loro, i teologi. Semplificando un po’ i termini della questione, che sarebbe vastissima, si può dire che i filosofi hanno quasi sempre risposto affermativamente: che la ragione umana, per quanto oggettivamente limitata, può condurre l’uomo fino alla comprensione della verità, o, almeno, molto vicino ad essa; che può condurre l’uomo a individuare il giusto percorso per avvicinarsi significativamente alla verità. I teologi, invece, hanno evidenziato come uno strumento umano, per quanto prefetto in relazione alle cose create, non potrà mai rivelarsi sufficiente per la comprensione del piano soprannaturale, perché la Verità, per essi, è Dio, e alla conoscenza di Dio, che è l’Assoluto, la ragione umana, finita e relativa, non può assolutamente bastare.
Fino a quando gli uomini hanno creduto, e tenuto per fermo, che la verità ultima coincide con l’Essere, la ragione umana ha sempre riconosciuto il proprio limite. Platone, nel Fedone, dice chiaramente che delle cose soprannaturali, è possibile parlare solo in maniera impropria e figurata; non per nulla egli fece ricorso a tutta una serie di miti, a cominciare da quelli della biga alata e della caverna, per tentare di esprimere ciò che razionalmente non si può dire compiutamente: non perché si tratti di una conoscenza irrazionale, ma, al contrario, perché, delle cose superiori alla natura, ragione compresa, si può parlare solo in maniera allusiva e indiretta. Nel medioevo, poi, la filosofia cristiana si incontra con la teologia, si tiene per mano con essa, e infine si lascia guidare verso la comprensione delle verità più alte: la teologia, infatti, era vista come il vertice del sapere, e le facoltà teologiche conferivamo il livello più ambito e più perfetto dell’umana conoscenza. Anche la teologia, poi, a un ceto punto, doveva lasciarsi guidare per mano da qualcos’altro, cioè dalla fede. Filosofia, teologia e fede costituivamo, così, i gradini di una scala ascendente, al vertice della quale c’è la contemplazione delle cose divine. L’uomo, infatti, era visto come un viator, un viandante, un povero pellegrino in cerca della verità: il senso del suo peregrinare era affidato al raggiungimento della meta soprannaturale, verso cui la ragione doveva indirizzarlo, almeno in linea di massima.
Da ultimo sono arrivati i filosofi moderni, con il loro empirismo, con il loro sensismo, con il loro razionalismo e il loro scetticismo. Sono arrivati i Locke, gli Hume, i Kant, gli Hegel: tutti fieri della loro "svolta copernicana", cioè di aver messo al centro non più l’Essere, ma l’uomo, anzi, la singola mente umana; tutti tronfi e compiaciuti di aver fatto la "grande" scoperta: che non il pensiero nasce dall’essere, ma l’essere dal pensiero. Quindi, per prima cosa hanno abolito la metafisica, cioè la parte più alta della filosofia, perché indimostrabile e ininfluente, dato che una vena crescente di utilitarismo si è insinuata, da allora, nella filosofia, e gli enti hanno cominciato a venir giudicati in base alla loro utilità pratica e immediata; per seconda cosa, hanno capovolto il normale rapporto fra l’essere e l’esistere, hanno assolutizzato l’esistere e hanno impostato tutta la ricerca speculativa sulle basi friabili del provvisorio e del contingente. I loro epigoni hanno imboccato sempre più decisamente la strada da essi indicata, con il risultato che la filosofia ha cessato di essere la ricerca della verità oggettiva ed è diventata il regno, amletico e nebuloso, della verità secondo me. E l’ultimo atto, in questa rovinosa discesa verso il caos, è stato l’approdo all’esistenzialismo.
Un importante filosofo medievale, Giovanni Duns Scoto (Duns, 1265/66-Colonia, 1308), così scriveva nel Prologo del suo capolavoro, l’Ordinatio, ovvero Opus oxoniense (da: O. Todisco, Giovanni Duns Scoto. Filosofo della libertà, Padova, Edizioni del Messaggero, 1996, pp. 103-111):
1. Si ricerca se sia necessario che all’uomo nello stato presente ("pro statu isto") venga rivelata una dottrina particolare, cui l’intelletto con la sua luce naturale non possa pervenire. […] I
5. In merito a questo problema sembra che non ci sia accordo fra i filosofi e i teologi. I filosofi difendono la perfezione della natura e rigettano la perfezione soprannaturale; i teologi invece conoscono la debolezza della natura, la necessità della grazia e la perfezione soprannaturale. Il filosofo dunque pensa che nessuna conoscenza soprannaturale sia necessaria nella presente condizione, perché ritiene che la conoscenza necessaria sia conseguibile mediante l’azione delle cause naturali. […]
12. Contro questa opinione dei filosofi si può argomentare in tre modi.
13. In primo luogo: ad ognuno che agisce consapevolmente è necessaria una conoscenza distinta del suo fine. lo provo, perché chiunque agisce per un fine, agisce per quanto mosso dal desiderio del fine, ora, chiunque agisce per sé, agisce per un fine; dunque, chiunque agisce per sé, desidera a suo modo il fine. Pertanto, come all’agente per forza di natura è necessario il desiderio del fine attraverso cui deve agire, così a colui che agisce consapevolmente è necessario il desiderio del fine, per il quale deve agire. La maggiore è dunque evidente. Ma l’uomo non è in grado con le sue forze naturali di conoscere in modo distinto il suo fine; dunque, in merito a ciò gli è necessaria una qualche conoscenza soprannaturale.
14. La minore è manifesta: primo, perché il Filosofo, seguendo la ragione naturale, o ripone la felicità perfetta nella conoscenza acquisita delle sostanze separate, come pare dia nel libro I e X dell’"Etica"oppure, se non afferma in modo determinato che essa è la suprema perfezione da noi raggiungibile, non ne indica un’altra con la ragione naturale, sicché, confidando solamente nella ragione naturale, o erra circa il fine specifico o permane nel dubbio. […]
17. In secondo luogo si argomenta così: colui che conosce e agisce per un fine è necessario che conosca come e in qual modo possa raggiungerlo; come anche è indispensabile la conoscenza di tutti i mezzi necessari per conseguirlo; e, finalmente, deve conoscere che tutti questi mezzi sono sufficienti per raggiungere quel fine. Il primo punto è chiaro, perché, se ignora come e in qual maniera il fine si consegua, non sa come disporsi al suo raggiungimento. Il secondo punto si prova, perché, se ignora tutti i mezzi necessari per questo stesso [fine], potrebbe rischiare di fallirlo per l’ignoranza di qualche atto necessariamente richiesto. Per quanto concerne il terzo punto, se non sa che quei mezzi sono sufficienti, non metterà in esecuzione in modo efficace ciò che è indispensabile, per il sospetto che ignori qualcosa di necessario.
18. Ma queste tre condizioni l’uomo viatore non può conoscerle con la ragione naturale. Circa la prima, lo si prova perché la felicità viene concessa in premio per i meriti che Dio accetta come degni di tale premio, e per conseguenza tale premio non segue per necessità naturale le nostre azioni, quantunque siano, ma viene concesso volontariamente da Dio, il quale accetta, come meritorie, alcune azioni indirizzate a lui. Il che non è naturalmente conoscibile, come sembra, anche perché a tal proposito i filosofi errarono, persuasi che proceda in modo necessario quanto proviene immediatamente da Dio. Le altre due condizioni sono evidenti: non si può infatti conoscere con la ragione naturale il gradimento da parte della volontà divina, che accetta liberamente queste o quelle opere come degne della vita eterna, come anche che siano sufficienti. […]
40. Terzo argomento principale. Parimenti in terzo luogo si trae argomento contro l’opinione del filosofi principalmente dal VI della "Metafisica". La conoscenza delle sostanze separate è la più nobile; pertanto, la conoscenza di ciò che è loro proprio è sommamente nobile e necessaria, poiché ciò che p loro proprio è più perfetto rispetto a ciò che hanno in comune con le cose sensibili. Ma ciò che è loro proprio non possiamo conoscerlo in base soltanto alle semplici forze naturali. In primo luogo perché se tali proprietà si trovassero in qualche scienza ora possibile perché fossero trasmesse, questa scienza sarebbe la metafisica, ma questa non è alla nostra portata in modo che consegua le proprietà specifiche di queste sostanze separate, come è evidente.
Meravigliosa chiarezza concettuale dei filosofi medievali, così bellamente trascurati o ignorati dai moderni professori di filosofia, in gran parete ex sessantottini o figli ideali di quella generazione: e molto coerentemente, del resto, dato che i giovani devono essere esposti il minimo indispensabile al "nocivo" influsso della cultura pre-moderna, spirituale, e specialmente di quella cristiana. Che la natura umana non sia solamente un dato biologico (debitamente evoluzionista e darwinista), ma un dover essere; che abbia, cioè, un fine ben preciso, e non sia un frammento di coscienza gettato a caso nel caos dell’esistenza; e che la filosofia debba servire proprio a questo, ossia a chiare quale sia il fine dell’uomo, e quali i mezzi per realizzarlo: non sia mai che i giovani d’oggi tornino ad abbeverarsi a simili idee, alla fonte della metafisica. A tale scopo, non potendo sopprimere l’insegnamento della filosofia greca, si è almeno fatto in modo di "neutralizzarne" gli effetti indesiderati, selezionando ad arte quelle componenti, specie nel pensiero di Aristotele, che si prestano ad una interpretazione di tipo immanentistico e materialistico, ed escludendo dall’orizzonte tutti quegli aspetti che, invece, vanno nella direzione opposta, anche se sono, in realtà, quelli centrali e irrinunciabili: quelli che conducono alla riflessione sull’essere e alla contemplazione dell’essere, al di sopra del disordine e della casualità degli accidenti. Per la filosofia medievale, è tutto più facile: qualche rapida lezione su sant’Agostino, poi si salta direttamente a san Tommaso d’Aquino, et voilà, il gioco è fatto: si passa all’umanesimo e alla rinascita della "dignità dell’uomo" (come se tale dignità fosse stata mai negata, o sminuita, da qualche pensatore medievale).
Dunque, la vita umana ha un fine: realizzare le potenzialità della natura umana; e poiché la ragione è la facoltà sovrana, che distingue la creatura umana da tutte le altre e le conferisce la sua eccellenza, sia pure relativa, ecco che la ragione non può e non deve essere un intralcio, ma, al contrario, lo strumento principe della realizzazione, da parte dell’uomo, del proprio fine. Ora, il fine dell’uomo è trovare la verità; ma la verità, nella prospettiva spirituale, non può essere che Dio: dunque, il fine dell’uomo è arrivare a comprendere, contemplare, amare, adorare e servire Dio. È chiaro che la conoscenza dell’uomo sarà sempre una conoscenza limitata e imperfetta: di Dio, nessuno può avere la piena conoscenza, se non Lui stesso. O luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi (Dante, Paradiso, XXXIII, 124-126). Ma anche per avere una conoscenza appropriata, e sia pure imperfetta, l’uomo non può far da solo: come potrebbe, la ragione naturale, giungere alla visione della verità soprannaturale? Ciò sarebbe impossibile, così come è impossibile che la parte possa includere il tutto, o che l’istante possa afferrare l’eternità. È logico e giusto, pertanto, che la filosofia, quando sia giunta agli estremi confini del suo dominio, e abbia proteso al massimo le sue facoltà, debba dare la mano alla teologia, che, poggiando sulla divina Rivelazione, prosegue il cammino, sempre secondo le modalità della ragione, ma una ragione non più solitaria e tutta umana, bensì una ragione riscaldata e illuminata dalla grazia divina. E infine verrà il momento in cui anche la teologia dovrà rallentare e fermare i suoi passi, e affidarsi alla guida di qualcosa che le è superiore, e che può spingersi avanti, là dove essa non saprebbe andare: la fede. La fede presuppone la teologia, così come la ragione presuppone la filosofia. Non vi è alcun contrasto fra l’indagine razionale del reale, e il fatto di proseguire tale indagine con l’aiuto di un fattore soprannaturale: al contrario, si tratta di un processo perfettamente logico, e illogico sarebbe il contrario. Illogico è quanto hanno fatto i pensatori moderni, i quali, accecati dall’orgoglio e inebriati da un concetto di "ragione" del tutto libera e spregiudicata (libera dal soprannaturale e spregiudicata rispetto alla tradizione speculativa, a cominciare dalla metafisica) hanno creduto di reinventare il pensiero umano, o di conferirgli, per la prima volta, quel carattere di reale autonomia, quella autosufficienza che non aveva mai avuto. E, in un certo senso, ciò è vero: il pensiero umano non è autosufficiente, per la stessa ragione per cui non è autosufficiente l’essere umano. Ci si mostri che l’uomo è autore del proprio essere, e noi crederemo che esiste una filosofia auto-sussistente, sciolta da ogni debito nei confronti della Verità. Ma se è vero che l’uomo non trae da sé il proprio essere, ma lo riceve da qualcos’altro, allora anche il pensiero dovrà fare lo stesso…
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