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La cultura del caos nasce da una mente lucidissima

È una domenica mattina, il cielo è tutto grigio e coperto, e fa molto, molto freddo: persino più freddo di quanto ne faccia abitualmente in questa parte del Paese, ai primi di gennaio, dove si registrano sovente le temperature più basse in assoluto. Mezzogiorno si avvicina, ma il termometro non sale: resta ostinatamente bloccato parecchi gradi sotto lo zero, e intanto un vento crudo e maligno si è levato a rendere la giornata ancora più proibitiva. A ciò si aggiunge una elevata percentuale di umidità nell’aria, che rende il freddo ancora più ostile e sgradevole, e moltiplica la sensazione di disagio: non è il freddo secco e "pulito" della Germania, per esempio, e neppure quello "leggero" che si sente in montagna. Pochissima gente per la strada: dato che non si va a lavorare, non c’è motivo di esporsi ai rigori del gelo, e quasi tutti hanno rinunciato alla consueta passeggiata in centro, per fare colazione al bar o arrivare fino all’edicola più vicina per acquistare il giornale. Meglio restarsene a casa, al calduccio.

Ma no, ecco che qualcuno c’è: se ne sta appoggiato a un lampione ed è impegnato in una conversazione telefonica. Che cosa stia dicendo, non si sa: è un negro (è permesso dire "negro", o è razzismo?; eppure, nessuno dice che sia una manifestazione di razzismo chiamare "bianco" un europeo o un nordamericano) e parla in una lingua incomprensibile. Deve avere un freddo così atroce che tiene le spalle incassate e la schiena addirittura incurvata, ingobbita, come se proprio non ce la facesse più a sopportarlo. Infatti, si direbbe che stia tremando. Poveretto, viene da pensare, chissà che sofferenza, per lui, abituato a ben altri climi, al caldo sole africano, alle tiepide brezze tropicali: lo sbalzo, per lui, sia termico che psicologico, deve essere quasi inimmaginabile. Ma poi, passandogli accanto, notiamo un dettaglio che ci lascia a dir poco sconcertati. Quel giovane uomo che trema di freddo, che si contorce letteralmente per il freddo, nonostante la giacca a vento imbottita, porta i pantaloni a vita bassa, ma così bassa che lascia vedere a tutti quanti le mutande che indossa, e anche un bel po’ di quello che c’è sotto. Sono mutande firmate, naturalmente: di un bel colore rosso fiammante. Mutande sexy, come si vedono nelle immagini pubblicitarie; mutande per chi ha voglia di sedurre, di sentirsi erotico e attraente.

E se ne sta lì, quel ragazzo, irrigidito nel gelido mattino, con questo clima polare, coi suoi jeans dal cavallo raso terra, con il sedere al vento, a telefonare chissà dove, a chissà chi: se ne sta a prendersi il vento e il gelo nelle chiappe, eroico, patetico, grottesco, come se questa fosse la cosa più naturale del mondo; come se quell’abbigliamento fosse il più logico, il più funzionale, il più adatto alla situazione. È come se dicesse agl’increduli passanti, peraltro pochissimo interessati alle sue mutande rosse e al suo sedere al vento, semmai piuttosto disgustati: Che volete farci, son dieci gradi sotto zero, ma questo è il modo in cui voglio vestirmi, non ne conosco altri, non ve sono altri di possibili per me; preferirei buscarmi una polmonite doppia, piuttosto che rinunciarvi. Chiedetemi qualsiasi cosa, chiedetemi un mese di stipendio, chiedetemi di giocarmi il permesso di soggiorno, o meglio la speranza di ottenerlo; chiedetemi tutto, insomma, anche la vita, ma non chiedetemi di portare i pantaloni a vita alta, non domandatemi di tirarli su, di coprirmi il ventre e il sederino: quelli no, mai, come potrei sopravvivere a una così crudele mutilazione, a un così brutale oltraggio ai miei diritti civili, alla mia sacrosanta libertà?

Ecco: se qualcuno desidera una definizione di che cosa sia la barbarie, venga qui e veda questa scena. Questa è la barbarie. Una barbarie inimmaginabile, inconcepibile, perfino sconcia: una barbarie da esseri sub-umani, da idioti irrecuperabili, da dementi senza alcuna speranza. Ecco perché si viene in Europa, traversando il deserto del Sahara, poi il Mare Mediterraneo sui barconi, indi stipandosi nei centri di accoglienza, in attesa di ottenere lo status di rifugiati, anche se non si proviene affatto da Paesi in guerra, o nei quali imperversino calamità naturali, carestie o inondazioni: per mostrare il sedere e le mutande di marca, con dieci gradi sotto zero, in una città deserta del Nord Italia, facendo una telefonata che si potrebbe fare benissimo stando all’interno di un locale, anche di una sala d’aspetto della stazione ferroviaria, dove non si paga niente per entrare e star vicino al termosifone.

Siamo in mezzo al caos: questa è la cultura del caos, della follia, della illogicità, della demenza; ed è un follia volontaria, desiderata, ambita, bramata; è una demenza rivendicata come componente essenziale e irrinunciabile di un pacchetto di diritti umani e civili: il diritto di tuffarsi nel consumismo, anche nelle forme più pazzesche, anche se si manca dell’essenziale, di una casa, di un lavoro, però non si vuole rinunciare alla biancheria firmata, né, soprattutto, al piacere di mostrarla a tutti quanti, o a tutte quante. Il messaggio è chiarissimo: Vedete come sono sexy, che aspettate a interpellarmi? Potrei anche dir di sì. Ebbene, questo è un comportamento da barbari, da barbari del più infimo livello: perché i barbari distruggono, ma non si auto-distruggono; qui, invece, non c’è nemmeno quel minimo di discernimento istintivo necessario a sopravvivere. Oh, sappiamo bene come insorgeranno, sdegnati, i signorini del politically correct, umanitari, buonisti e antirazzisti: diranno che è infame prendersela con un povero immigrato, probabilmente clandestino, quando tanti ragazzi italiani inseguono gli stessi miti demenziali, e adottano gli stessi comportanti balordi e un poco repellenti. Verissimo che lo fanno. Ciò non toglie che, se uno sta morendo di freddo, e magari non ha casa né lavoro, e si trova in terra straniera, lontanissimo dalla sua patria e dalla sua famiglia, forse dovrebbe adottare un altro stile; forse dovrebbe almeno coprirsi le natiche; forse dovrebbe risparmiare i soldi delle mutande firmate, per comprarsi quattro o cinque paia di mutande normali, oppure un piatto di minestra calda. Si chiama istinto di conservazione, ce l’hanno tutti gli esseri viventi; chi non ce l’ha, chi se lo è scordato, vuol dire che non possiede più neanche ciò che possiedono gli animali inferiori: l’istinto di restare in vita, di proteggersi, di cercare quel che aiuta la propria conservazione e fuggire ciò che la minaccia.

Naturalmente, ci sono in gioco anche altri fattori. Forse la minestra calda gliela passa lo stato italiano, cosa che non fa per i poveri di nazionalità italiana; forse lo stato gli paga anche internet e il wi-fi, nonché le sigarette; per cui le mutande di marca, ovviamente da esibire come un trofeo, come uno status (ma di che cosa, mio Dio?), sono quel di più che costui si può e si vuole permettere; e lo impiega così. Ci dicono che il primo pensiero degli immigrati stranieri è quello di mandare quattro soldi a casa; e, senza dubbio, ve ne saranno di quelli che fanno così: ma non costui, e, come lui, ce ne sono parecchi altri che si regolano secondo la filosofia dei consumi. Al cogito cartesiano, dubito, dunque sono, si è sostituito il cogito consumista: ti mostro le mie mutande, dunque esisto. È la filosofia dell’apparire, più ancora che dell’avere; quanto all’essere, non se ne parla proprio. Come le baracche degli zingari, sudice baracche di lamiera e di cartone, sulle quali svetta, però, una vistosa antenna parabolica: manca l’essenziale, ma il di più no, non può, né deve mancare. All’imbecillità del consumismo si unisce l’imbecillità della estinzione dell’istinto di sopravvivenza, in nome dell’apparire. Un tempo, i primi soldi guadagnati in Italia servivano agli immigrati dell’Europa orientale per comprarsi la macchina, di solito a rate, e tornare a casa loro, per le ferie, ostentando quel bene di "lusso", e far crepare d’invidia i parenti e gli amici rimasti in Macedonia o in Romania. Ma le mutande rosse di quel povero disgraziato tremante di freddo, a chi voleva esibirle? A noi? Comunque si consideri la cosa, qui manca ogni sia pur debole nesso logico. Qui non esiste più senso comune: benvenuti nell’impero del caos.

Ora, lo stesso caos regna ovunque nella nostra società moderna, adoratrice della Scienza e del Progresso: dalla finanza all’economia, dalla’amministrazione alla politica, dallo sport all’istruzione, dall’arte alla cultura. E non solo nel mondo profano; anche nella religione, anche nella Chiesa cattolica. Che cosa vogliono i cattolici modernisti e progressisti? Vogliono traghettare il cattolicesimo verso una dimensione nuova, cosmopolita e relativista; vogliono che s’imbeva di giudaismo e di protestantesimo; vanno in visibilio per i "fratelli maggiori" e per le 95 tesi di Lutero. E non vedono le contraddizioni più stridenti: Lutero detestava gli ebrei, scrisse pagine di fuoco contro di loro: tranne la morte, incoraggiò i principi del tempo a perseguitarli in ogni forma possibile, fino a bruciar loro la casa, per spingerli ad andarsene (cfr. il nostro articolo: Lutero e gli Ebrei, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 26/03/2008, e ripubblicato su Il Corriere delle Regioni il 12/02/2016). E allora, come pensano codesti teologi progressisti e modernisti, di conciliare il loro filo-giudaismo con il loro filo-protestantesimo? Mah: misteri. Misteri di cui non si arriverà mai a intravedere il fondo.

Si direbbe che il comun denominatore di tutta una serie di pensieri e di atteggiamenti contraddittori, scoordinati, schizofrenici, non consista in qualche elemento di ordine logico, e sia pure di una qualche logica aberrante, ma in una "superiore" strategia, in una regia occulta, in una provvidenza alla rovescia, rivolta a diffondere sempre più caos, sempre più follia, sempre più allucinazione, al fine preciso e pianificato di bruciare i tempi della dissoluzione finale. Viviamo in una società agonizzante: ci sono tutti i segni del collasso; e intanto noi, imperterriti, andiamo avanti per la strada sbagliata, sena ripensamenti, senza un barlume di autocritica, come se fossimo afferrati e travolti da un furioso, parossistico cupio dissolvi. Il giornale di oggi riporta un fatto avvenuto non lontano da qui: un ragazzo sedicenne ha massacrato suo padre e sua madre, mentre dormivano, a colpi d’accetta, facendosi aiutare da un altro ragazzo un poco più grande, al quale aveva promesso un "premio" di 1.000 euro. Il gesto non sarebbe nato da motivazioni economiche: quel sedicenne non voleva ereditare tutto e subito; semplicemente, non gli garbava di essere rimproverato dai suoi genitori perché non aveva voglia di studiare, e nemmeno di lavorare.

Fatti del genere, come tutti sanno, si stanno ripetendo con una frequenza sempre maggiore; e, pur facendo la tara allo sciacallaggio dei media, è indubbio che ad aumentare non sono solo le notizie sui giornali e alla televisione, ma proprio i fatti in se stessi. Che cosa dedurne? Che la nostra società ha imboccato l’ultimo rettilineo prima della fine. Non c’è più niente che ci separi dall’abisso: fra noi ed esso, non esiste più alcuna cosa cui ci potremmo aggrappare. Umanamente parlando, siamo spacciati: la nostra civiltà ha i decenni contati, forse solamente gli anni. Soltanto Dio ci può salvare; e non è detto che non lo faccia, se mostreremo un sia pur minimo grado di ravvedimento. Se persisteremo nell’orientamento attuale, tuttavia, nemmeno il Suo amore potrebbe trattenerci dal piombare nell’abisso spalancato sotto i nostri piedi, materialmente e spiritualmente. Ma saremo capaci di quel salvifico atto di umiltà? Sapremo gettarci ai Suoi piedi, dicendo: Padre, abbiamo peccato contro il cielo e contro di te; non siamo più degni di essere chiamati Tuoi figli: trattaci come gli ultimi dei tuoi servi.

Sul piano umano, una cosa certamente possiamo fare: usare quel poco di lucidità che ancora ci rimane per decodificare i segnali della distruzione, della quale noi stessi ci siamo fatti volonterosi manovali. L’impero del caos non nasce dal caos, ma da una lucida intelligenza. C’è qualcuno dietro tutta questa frenesia di auto-distruzione, così potente, ormai, da annullare perfino il puro e semplice istinto di conservazione, il più antico, il più originario di tutti gl’istinti, sia umani che animali. Ma a chi appartiene una tale intelligenza, così lucida e fredda, così spietata e inesorabile? Di solito, arrivati a questo punto, si pensa alla massoneria, al B’nai B’rith, agl’illuminati, alla Commissione Trilaterale, al Gruppo Bilderberg, e così via. Certo, vi sono anche queste forze, vi sono anche questi agenti della distruzione programmata e pianificata. Tuttavia, non li si deve sopravvalutare: per quanto facciano, non potrebbero far nulla, se non fossero coordinati da una regia superiore, che tiene in pugno tutti i fili. Essi credono di sapere, ma, probabilmente, non sanno molto più di quanto sappiano le basse manovalanze della distruzione e del caos: i divi del rock, le star del cinema e dello spettacolo, gli artisti maledetti e gl’intellettuali nichilisti: vale a dire che non sanno praticamente nulla. È tipico della regia occulta sfruttare l’ambizione e il narcisismo delle anime meschine, rozze, ciecamente egoistiche, facendo loro credere di essere qualcuno: li fa diventar famosi, li fa vendere milioni di dischi, porta migliaia di fan ai loro concerti, oppure fa loro posto nei giornali più letti, con le case editrici più importanti, e fa sì che la critica dica mirabilie delle loro opere, dei loro quadri, delle loro architetture; ma li valuta per quel che sono, dei nani presuntuosi, e se ne serve in una maniera che quelli non arriverebbero neppure a immaginare. Sono veramente dei poveri idioti nelle mani di qualcosa o di qualcuno immensamente superiore a loro. Ciò vale anche per la finanza e la politica, ovviamente: i Rotschild, gli Obama sono solo uomini di paglia. Chi sta dietro di loro non è interessato alla celebrità, e preferisce non mostrarsi affatto. E c’è una ragione importante, se vuol restare nell’ombra: chi lo vedesse, compresi i suoi servitori sciocchi, morirebbe di spavento…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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