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6 Gennaio 2017Può darsi che il nome del capitano Thomas Mayne Reid dica poco o niente al pubblico odierno, specialmente al di fuori dei Paesi anglosassoni; eppure ha identificato uno degli scrittori più prolifici, più apprezzati e più amati dal pubblico giovanile di centocinquanta anni fa, tanto che lo possiamo paragonare ad un Salgari nordamericano. L’accostamento è più che giustificato, sia sul piano del genere letterario da lui praticato, quello del romanzo d’avventura rivolto a un pubblico di giovanissimi, sia per la mole impressionante della sua produzione, scaturita, però, dal tempo libero ritagliato in una vita estremamente attiva, movimentata e avventurosa, simile a quella dei personaggi delle sue storie, e non, come nel caso dell’italiano, da una vita chiusa e sacrificata, tutta trascorsa al tavolino, fra le pareti domestiche, in un’atmosfera resa soffocante dalle preoccupazioni di una famiglia da mantenere e di una moglie con gravi problemi psichici. In complesso, si contano più di sessanta opere, pubblicate nell’arco di tempo che va dal 1850, con The Rifle Rangers, or Adventures in Southern Mexico, ad alcuni anni dopo la morte, quando apparve un gruppo di romanzi postumi, che l’autore non aveva fatto in tempo a licenziare.
Ma chi era Mayne Reid? La sua stessa vita sembra uscita dalle pagine d’uno dei suoi romanzi. Era nato a Ballyroney, in Irlanda, e precisamente nell’Ulster, il 4 aprile 1818, e morì a Londra il 22 ottobre 1883, dopo essersi naturalizzato cittadino statunitense. Era figlio di un ministro presbiteriano della Chiesa irlandese, il reverendo Thomas, da cui ricevette il nome di battesimo. Nei suoi sessantacinque anni di vita — non pochi, ma neppure molti, in fondo — egli fece in tempo a fare una quantità impressionante di cose, a svolgere una quantità di professioni e attività, e, non certo per ultimo, a scrivere un romanzo dietro l’altro. Eppure si mise a scrivere piuttosto tardi: la sua fu, come si usa dire, una vocazione tardiva, dato che la sua prima opera fu composta quando aveva già trentatré anni. Aveva lasciato l’Irlanda e l’Europa assai giovane, trasferendosi nella repubblica nordamericana; sbarca, infatti, nel gennaio del 1840, appena ventunenne, a New Orleans, e poi si guadagna da vivere in parte come cacciatore, in parte come esploratore, nella zona semidesertica, aspra e selvaggia, posta a cavallo del confine tra gli Stati Uniti e il Messico. Ma questo è solo l’inizio.
The White Squaw, pubblicato nel 1868 – e tradotto poi in italiano con il titolo La sorellina rapita, più esplicativo del contenuto, poiché narra la storia di una fanciulla rapita dagli Indiani -, è uno dei romanzi "minori" di Mayne Reid, ma non per questo giace su un piano di minor valore letterario; anzi, possiamo dire che, nel suo genere, è un piccolo gioiello, anche se oggi un po’ dimenticato. Due volte dimenticato, dunque: perché tale è il suo autore, un tempo famosissimo, e tale questa sua opera, appartenente ad un genere, quello esotico-avventuroso per bambini e ragazzi, che, oggi, si può ritenere quasi scomparso. Si tratta di una storia agile, dal ritmo veloce e nervoso: niente fronzoli; descrizioni brevi; dialoghi stringati; per delineare un paesaggio, quattro segni, vigorosi ed efficaci; per tratteggiare un carattere, appena una battuta, o uno sguardo; nessuna ricerca di facili effetti, di suspense ad ogni occasione. Mayne Reid non è uno scrittore che ami tirarla in lungo; non gli piace sfruttare un’idea per più di poche pagine; non punta all’effetto sorpresa, ma a catturare il lettore nel ritmo complessivo della storia. Soprattutto, non si compiace ingenuamente — come accade sovente a Salgari — di sfoggiare le sue conoscenze geografiche, storiche e naturalistiche, e meno che meno di stiracchiare un capitolo o due, solo per tenere il lettore col fiato sospeso.
In un certo senso, sono esattamente i romanzi che ci si può aspettare da un uomo d’azione, quale egli è stato. Aveva fatto un po’ di tutto: oltre che l’esploratore e il cacciatore, fu tutore dei figli di un piantatore presso Nashville, nel Tennessee, un certo Peyton Robertson, fino alla morte di questi; poi cercò lavoro come commesso o impiegato, si spostò, si adattò, e, per un certo periodo, non si sa bene di che cosa visse; nel 1842 lo troviamo a Pittsburgh, in Pennsylvania, dove intraprende la carriera giornalistica, scrivendo per il Morning Chronicle, e intanto comincia a cimentarsi con la letteratura, scrivendo alcune poesie di soggetto storico, Scenes in the West Indies. Al principio del 1843 è a Filadelfia, dove collabora intensamente a diverse testate giornalistiche, e dove si ferma per tre anni — un lasso di tempo considerevole, per i suoi standard di eterno vagabondo. Qui conosce Edgar Allan Poe, ne diviene amico e lo frequenta per un certo tempo; senza dubbio, ne subisce l’influsso, non tanto per i temi narrativi che avrebbe poi trattato, quanto per la passione letteraria in sé e per sé, oltre che per una certa atmosfera romantica che aleggia ovunque. Nel 1846 scoppia la guerra fra Stati Uniti e Messico, e Mayne Reid corre ad arruolarsi, non bastandogli di fare il reporter di guerra; entra nel Primo reggimento di volontari di New York, e partecipa, nel 1847, allo sbarco del corpo di spedizione del generale Winfield Scott a Veracruz, cui è affidato il teatro di guerra principale: quello ove si giocherà la partita per la conquista della capitale nemica, Città del Messico, mentre sul fronte settentrionale, quello del Rio Grande, le operazioni si trascinano con esito incerto (cfr. il nostro articolo Chi ha vinto la battaglia di Buena Vista?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 21/02/2012, e ripubblicato sul Il Corriere delle Regioni il 15/04/2016). Riceve il battesimo del fuoco il 13 settembre nella sanguinosa battaglia di Chapultepec, dopo di che il giovane ufficiale irlandese-americano partecipa al vittorioso ingresso delle truppe di Scott nella capitale messicana, evento che segna, in pratica, la fine della guerra (siglata l’anno dopo con il trattato di pace di Guadalupe-Hidalgo, ove il Messico si vedrà costretto a cedere una buona metà del proprio territorio). Nel maggio del 1848, Mayne Reid lascia l’esercito e torna a New York, dove si fa un nome pubblicando i suoi ricordi della campagna messicana, col titolo War Life.
Frattanto, in Europa, sono scoppiate le rivoluzioni del 1848, e lui parte per la Germania, per seguire da vicino gli avvenimenti della Baviera. Poi prende casa nell’Irlanda del Nord, travolto dall’onda dei ricordi della sua isola natia; passa a Londra; si sposa, nel 1853, con una nobile fanciulla appena quindicenne, Elizabeth Hyde, la figlia del suo editore; e comincia a scrivere i suoi romanzi avventurosi, con ritmo sempre più forsennato. Ambientati in tutti i luoghi del mondo, purché remoti e selvaggi, ma specialmente nelle terre quasi inesplorate del Far West, popolate da fieri pellerossa verso i quali l’Autore nutre sentimenti di ammirazione e simpatia, essi incontrano un successo di pubblico strepitoso, soprattutto negli Stati Uniti; Teddy Roosevelt, da ragazzo, li legge avidamente; il nome di Mayne Red è famoso, almeno presso i giovani, quanto quello di Robert Louis Stevenson. Le traduzioni nelle varie lingue si susseguono: in francese, in italiano, in russo, in polacco, segno sicuro di un crescente interesse a livello internazionale. Nel 1866 lascia Londra per riattraversare l’Atlantico e stabilirsi a Newport, nel Rhode Island; però il momento magico è passato, il pubblico, incostante nei suoi umori e nei suoi favori, sembra meno interessato alla sua opera, e lo scrittore scivola in una forma di depressione che rende tristi i suoi ultimi anni, caratterizzati da frequenti ricoveri clinici. Muore a Londra a sessantacinque anni ed è sepolto nel cimitero di Kensal Green, ove riposano numerosi artisti, scienziati e altri uomini illustri.
La storia de La fanciulla rapita (useremo, d’ora in poi, il titolo italiano, dato che quello originale non è stato adottato nelle traduzioni nella nostra lingua) è piuttosto semplice. Il dottor Halberger è un naturalista tedesco che ha lasciato la Germania e si è stabilito in Sud America, nel Paraguay, per farsi una posizione e mantenere la sua famiglia, composta, oltre che dalla moglie, dal figlio Ludovico e dalla giovane figlia Francesca. Per sfuggire alla tirannia del dittatore paraguayano (forse José Gaspar Rodriguez de Francia, o forse Francisco Solano Lopez: il nome non viene precisato), Halberger, amante della libertà, dopo essere evaso dal carcere di Asunción, si ritira in una fattoria in un territorio selvaggio, sulle rive del fiume Pilcomayo, ai limiti del Gran Chaco, dove la famigliola trascorre una vita serena. Ma un giorno quella serenità viene spezzata in modo drammatico: mentre il dottore si è allontanato, a cavallo, per una ricognizione naturalistica, la sua grande passione, insieme a Francesca, una ventina d’indiani sferrano un attacco improvviso: cosa strana e del tutto inaspettata, perché la tribù cui essi appartengono, quella dei Tovas, è in rapporto amichevoli con loro. Halberger viene subito ucciso, con un colpo di lancia al cuore, da un individuo che sembra più un bianco che un indiano, e infatti si saprà poi che è Valdez, un sicario del dittatore; mentre il capo della banda è il giovane Aguara – appena succeduto al defunto padre Naguara, vecchio amico di Halberger – da tempo innamorato di Francesca, che viene rapita e condotta al villaggio, spaventata e piangente, ma non rassegnata, con la prospettiva di diventare sua moglie. Evidentemente, Valdez si è accordato con Aguara per prendere due piccioni con una fava: eliminare il tedesco per conto del governo, e catturare la fanciulla bianca, per farne la squaw del nuovo capo tribù.
Mentre la ragazza trascorre i giorni al campo indiano, sotto la sorveglianza della vecchia Shebotha, in attesa che passino le lune destinate al lutto per la morte di Naguara, suo fratello Ludovico si mette alla sua ricerca, accompagnato dal cugino Cipriano e dal gaucho Gaspare. Dopo aver trovato il cadavere di Halberger e il cavallino abbandonato di Francesca, Pym, studiando il terreno i tre capiscono quel che deve essere accaduto e si mettono sulle tracce, pur con molta circospezione, dei rapitori. Intanto Francesca è osservata con sentimenti contrastanti da una giovane india, Nacena, che in parte sembra ammirarla, in parte odiarla; si scoprirà che è la figlia di un valoroso guerriero, già fidanzata di Aguara, ora furibonda perché costui ha rinnegato la promessa di sposarla, per rivolgere tutto il suo interesse alla fanciulla bianca. Nacena dapprima tenta di avvelenare Francesca, poi si accorda con Shebotha, che è esperta d’incantesimi e di pozioni venefiche, per far morire la rivale. Ma questa è stata avvicinata da un’altra fanciulla, Fior di Rioccia, fidanzata a un valoroso guerriero, Aquila Nera, attualmente lontano dal villaggio, la quale le promette che l’aiuterà a fuggire, procurandole un cavallo; questo perché è amica del fratello di Nacena, e, aiutandola ad allontanarsi, favorirà il ritorno di Aguara dalla sua prima fidanzata. Ma il tempo passa veloce, manca appena un giorno alla celebrazione delle nozze, allorché, all’ultimo momento, il consiglio dei Tovas decide di rinviare la cerimonia, per consentire ad Aquila Nera di tornare e prender parte alle decisioni da prendere. Vi è, infatti, un partito che non è favorevole alla successione di Aguara al comando; partito che è stato rafforzato dal disdicevole comportamento del giovane, che ha ripudiato Nacena e deciso di sposare una straniera, una bianca, con grande scandalo di molti Tovas, i quali giudicano inadatto al comando un guerriero incapace di dominare le sue passioni e di rispettare le tradizioni.
A questo punto… Ci consenta, il benevolo e paziente lettore, di non procedere oltre nell’esposizione della trama; se lo facessimo, forse toglieremmo la curiosità necessaria per andarsi a leggere direttamente questo simpatico e piacevole romanzo per la gioventù: fermo restando che l’età del lettore è quella ch’egli sente di avere, non quella anagrafica; e, del resto, non è un segreto per nessuno che gli adulti amano i libri d’avventura, e persino i fumetti western come Il piccolo Ranger, Il grande Blek, Tex e Zagor, non meno di quanto li amino i ragazzi. Perché nella natura dei giovani, siano essi tali per l’età o per lo spirito, vi è l’istinto dell’avventura, la curiosità per le cose lontane e affascinanti, il desiderio di veder trionfare i buoni sentimenti: l’amore, l’amicizia, la lealtà, l’onore, il coraggio, la tenacia, la laboriosità. Il fatto che oggi la fantasia venga così poco stimolata, specialmente nei giovani, a causa dell’invasione che la tecnologia ha operato nel nostro mondo interiore, sostituendo i giochi elettronici, e perfino i libri elettronici, ai giochi naturali e ai libri di carta, con le loro belle illustrazioni a colori, contribuisce al generale inaridimento e al sempre più grave impoverimento della vita interiore, che si nutre, appunto, di fantasia e di emozioni spontanee, e non artificialmente prodotte da videogiochi che si sostituiscono al giocatore. Non è stato un bene che i libri per l’infanzia siano stati quasi abbandonati in favore di altri regali per i bambini e i ragazzi, nessuno dei quali – si tratti di telefonini, orologi di marca o vestiti costosi (magari a brandelli, come i jeans che vanno ora di moda) – svolge una analoga funzione educativa, ma, al contrario, ciascuno dei quali è un incentivo al consumismo, alla superficialità e al narcisismo.
La sorellina rapita parla di buoni sentimenti; di una famiglia che lotta per riunirsi e superare le più gravi difficoltà; e, nello stesso tempo, mette in scena foreste popolate di giaguari, e tribù indiane seminomadi, che si spostano a cavallo e guerreggiano sulle rive lussureggianti di fiumi tropicali. Se ci fossero ancora scrittori per i giovani come Mayne Reid, forse il mondo sarebbe un po’ migliore…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels