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L’elemento satanico dell’uomo moderno è il compiacimento della separatezza

Satana è colui che ha scelto di separarsi da Dio, di coltivare l’odio per Dio e l’invidia nei confronti degli uomini; egli vive in una dimensione nella quale non c’è altro che odio, ed è per questo che non potrà mai pentirsi: nulla esiste, nel suo universo interiore, se non la rabbia, l’invidia e la perversa volontà di nuocere, di ostacolare, di provocare il male. In ebraico e in aramaico, Satàn è un verbo che significa "osteggiare", "aggredire" e che in greco antico della koiné diventa Satanâs; per cui, passato il vocabolo a designare un essere personale, questi è "l’avversario" per antonomasia, l’"accusatore" (dell’uomo davanti a Dio) e, da ultimo, il "calunniatore"

Orbene: esiste, nell’uomo moderno, un elemento che si può definire come tipicamente satanico, ed è il compiacimento della separatezza: separatezza da Dio, dagli altri esseri, e perfino da sé stessi; separatezza che nasce dal rifiuto dell’amore di Dio e dal desiderio compulsivo, patologico, della propria orgogliosa affermazione, il che equivale a un desiderio sfrenato di dominare, manipolare, strumentalizzare ogni cosa e ogni persona intorno a sé.

La disgregazione dell’uomo moderno, che è stata acutamente analizzata dal primo dei moderni, Francesco Petrarca, nasce da qui. Finché l’uomo rimane unito a Dio e alla sua offerta d’amore, egli non è affatto disgregato, per quanto forti possano essere le spinte contrastanti che in lui si manifestano; al contrario, è saldo e coeso in se stesso, perché sa da dove viene, sa dove sta andando, sa qual è il significato della sua esistenza; e, cosa più importante di tutte, sa chi è (ossia uno, e non uno, nessuno e centomila, come sostiene Pirandello). In questo senso, il vero manifesto dell’uomo moderno è racchiuso nel titolo del famoso quadro di Paul Gauguin: Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Può essere di un certo interesse sapere che l’artista, già oppresso da numerosi problemi e difficoltà, tentò di suicidarsi, ingerendo dell’arsenico, proprio perché temeva di non riuscire a completare quest’opera; sicché si può dire che essa è stata realizzata immergendo letteralmente i pennelli nell’angoscia e nella disperazione umani.

La tela, ora conservata presso il Museum of Fine Arts di Boston, è stata dipinta nel 1897: cioè proprio nella fase storica in cui la modernità irrompe nella vita di ciascuno (mentre prima era cosa che riguardava soltanto le élites), attraverso i meccanismi della società di massa, generando squilibri gravissimi, che investirono non solo le forme esteriori di vita, ma le più intime relazioni dell’uomo con se stesso, in una misura quale mai si era verificata nel passato, se non in forme episodiche, come in occasione delle pestilenze e delle crisi sociali del 1300, o relativamente diluite nel tempo, come fu nel caso delle migrazioni dei popoli germanici, slavi, iranici e turchi, che sconvolsero l’Europa fra la tarda romanità e i secoli dell’alto Medioevo. A partire dall’avvento della società di massa, a nessuno è dato di sottrarsi ai meccanismi alienanti e omologanti della modernità, se non altro perché a nessun uomo e a nessuna comunità è concesso di restare al di fuori del circuito produttivo capitalista: a meno, naturalmente, di ritirarsi in un convento di clausura; e tuttavia, per taluni aspetti non troppo marginali, neppure in quel caso.

L’uomo moderno, quindi, non solamente è scisso, disgregato, separato; ma, cosa ancor più grave, e indizio di quanto sia avanzata la sua malattia (la malattia che ha nome modernità), si compiace di tale situazione, e rifiuta ostinatamente d’intraprendere qualunque strada che sia suscettibile di portarlo fuori dal vicolo cieco, nel quale si è messo. Anzi, la sua malattia, che a questo punto assume i connotati di una perversione, consiste proprio nel disprezzare ciò che è semplice, coeso, unitario, da lui giudicato infantile, ingenuo o menzognero, e di ritenere, grazie alla cultura del sospetto, che solo nella complessità esasperata, nella problematicità, nell’ambiguità, vi sia il modo di realizzare la propria personalità e di portare a compimento il suo progetto esistenziale (ammesso e non concesso che egli ne abbia uno, o che ritenga sensato e ragionevole sforzarsi di individuarne e perseguirne uno).

Il più tipico rappresentante della mentalità moderna, colta nell’atto del suo formarsi, è stato Nicolò Machiavelli: perché la modernità culmina tra XIX e XX secolo, ma compare fin dal XIV e consolida le sue basi ideologiche, psicologiche e sociali già nel XV-XVI secolo, ossia all’epoca del passaggio dalle forme della vita comunale a quelle proprie delle signorie italiane nell’epoca del Rinascimento; e appunto su Machiavelli come esponente più rappresentativo del pensiero moderno ha dedicato delle pagine acute e illuminati il filosofo belga, da noi purtroppo assai poco conosciuto, Marcel De Corte (nato a Genappe, nel Brabante, il 20 aprile 1905 e spentosi a Tilff, presso Liegi, il 19 giugno 1994).

Osserva, dunque, De Corte nella Fenomenologia dell’autodistruttore. Saggio sull’uomo occidentale contemporaneo (titolo originale: L’homme contre lui-même, Paris, Nouvelles Editions Latines, 1962; traduzione dal francese di Roberto Antonetto, Torino, Borla, 1967, pp. 178-181):

Per la prima volta nella storia dell’umanità, la condotta dell’uomo è considerata come un sistema di riflessi meccanici che permettono quasi sempre previsioni infallibili.

Infine, la ragione dell’uomo, nel’applicarsi ad oggetti e situazioni puramente meccaniche, diventa anch’essa un meccanismo. Non c’è altra forma d’intelligenza per Machiavelli se non quella del calcolo. Cartesio diceva che la sua fisica era tutta geometria: prima di lui, Machiavelli avrebbe potuto affermare che la sua politica era tutta matematica, con i suoi segni fondamentali: PIÙ, MENO, UGUALE. Del resto, per cogliere nell’uomo soltanto gli aspetti quantitativi, occorre evidentemente che la ragione che li coglie sia essa stessa completamente matematizzata e meccanizzata. Si può dire, senza cadere nella caricatura, che Machiavelli vede nell’"homo duplex" il meccanismo della ragione che agisce su quello della passione e degli istinti, e la loro giustapposizione che agisce a sua volta sulla macchina del mondo.

Soltanto in questo modo è possibile conservare il potere conquistato. Nel’equazione della potenza ci sono tutti i rischi di perdere il potere, e insieme tutti gli stratagemmi che servono a conservarlo: i primi con il segno positivo, i secondi con il segno negativo. Resta da fare l’operazione, e il risultato sarà senza errore. Machiavelli lo ripete continuamente, e aggiunge, con la consueta ardente freddezza, che "bisogna dare al popolo soltanto dei risultati".

Egli non è dunque, in nessun modo, il tecnocrate puro della politica che troppo spesso ci si compiace di immaginare. Le sue tecniche affondano in una concezione dell’uomo e del mondo dissonantistica e dualistica ben determinata. Basta leggerlo attentamente per convincersene. Quando si dice che l’interesse e la potenza non hanno bisogno di giustificazioni e di fondamenti, che vanno da sé, si fa torto all’intelligenza dell’autore de "Il Principe". Machiavelli ha davanti un tipo d’uomo del tutto nuovo, avido del solo potere su gli altri uomini e sulle cose, la cui struttura precede tutte le tecniche ch’egli preconizza; ha operati di fronte a questo tipo neoplatonico dell’uomo lo stesso rovesciamento che Marx effettuerà più tardi nella dialettica hegeliana, con la stessa intenzione: dominare gli altri uomini ed il mondo.

È chiaro che un pensiero rigorosamente matematico come quello di Machiavelli ignora le nozioni di bene e di male. In matematica, non c’è bene né male, non c’è neppure vero o falso nel senso proprio del termine, ma soltanto esatto o inesatto. Per questo Machiavelli è il pensatore contemporaneo per eccellenza, in un mondo in mano alla tecnica: il suo pensiero non può non suscitare scandalo, ed è dal nome di Niccolò Machiavelli che gli inglesi hanno tratto l’appellativo che danno al diavolo: "old Nick".

È naturale che questa rigorosa meccanizzazione dell’uomo e del mondo sotto il governo d’una intelligenza puramente quantitativa appaia "satanica" al cristiano. Eppure, il satanico di Machiavelli non è in questo, ma piuttosto nella sua concezione dissonantistica dell’uomo e del mondo, che i suoi calcoli metodici si sforzano di ridurre e mascherare sotto rapporti di forza. Satana è un realtà l’essere disgregato per eccellenza, perché deriva il suo essere da Dio, e da Dio si è allontanato: non ha più unità interiore, è lacerato fin nel profondo. De Vigny gli ha fatto dire: "Tanto grande è la distanza fra me e me, che non capisco più quel che dice l’innocenza".

Satana comprende soltanto più il peccato, separazione da sé e separazione da Dio, dal quale dipende tutto l’essere. Secondo i Padri della Chiesa, la definizione stessa del peccato originale è lo scegliere arbitrariamente una parte del proprio essere a danno delle altre, e sottrarla al dominio divino: "Con il primo peccato", scrive uno di essi, "Adamo si è separato da se stesso e dagli altri". Adamo ha rotto i legami che lo uniscono come creatura a tutte le altre e al resto della creazione nel’amore per il Creatore.

È esattamente la posizione di Machiavelli, la cui concezione dell’uomo e del mondo è la più pessimistica possibile. "Si può dire che gli uomini in generale sono ingrati, incostanti, vili, interessati… e il Principe che si è basato sulle loro parole, senza prendere altre precauzioni, crolla… Lo dimostrano tutti coloro che hanno trattato della vita pubblica, e la storia ne offre esempi su esempi: chiunque organizzi una repubblica e ne ordini le leggi deve per forza supporre che tutti gli uomini sono cattivi, e diano sfogo alla malvagità della loro anima ogni volta che possono farlo liberamente… Gli uomini non fanno mai nulla di bene se non per necessità". Di passi come questo se ne trovano a centinaia nell’opera del Fiorentino.

Un uomo disgregato, che sa vedere, ragionare e sentire solo in senso meccanico, matematico, quantitativo: non è chi non veda, qui, come il pensiero di Machiavelli prosegua in quello di Galilei, che ne è il naturale e legittimo erede; Galilei farà per le scienze quel che Machiavelli ha fatto per la politica, la riduzione del molteplice ad uno, il calcolo matematico, e la semplificazione del reale, mediante l’eliminazione di tutto quel che non è aggiungere, togliere, prevedere; in altre parole: l’equiparazione dell’intera realtà ad un solo aspetto di essa, quello quantitativo, e la cancellazione degli elementi spirituali, morali, interori dal quadro, come se, avendoli tolti dal ragionamento, fossero anche scomparsi alla realtà. Machiavelli assolutizza la matematica, un secolo prima di Galilei e un secolo e mezzo prima di Spinoza: ne fa, al tempo stesso, il principio di realtà, il criterio di ragionamento e lo strumento dell’azione pratica. In un certo senso, nel suo modo di concepire il reale, la matematica prende il posto di Dio, che, di fatto, è scomparso dall’orizzonte speculativo ed esistenziale, poiché non serve più né a spiegare il mondo, né, tanto meno, a redimerlo. Gli uomini si redimono da soli, o almeno ci provano, oppure non hanno nulla da sperare; e la loro redenzione è qualcosa di pienamente laico ed immanente: non è in vista della vita eterna, ma in funzione di questa vita, e di null’altro. Lo scientismo sperimentale di Galilei e il panteismo razionalista di Spinoza sviluppano i medesimi presupposti e procedono nella medesima prospettiva, con la stessa ambizione e con analoghe modalità: cercare il vero e il necessario attraverso la matematica ed eliminare tutto il resto, come insignificante e ininfluente.

È quasi inutile osservare che, in questo modo, la cultura moderna, sviluppatasi alla loro scuola, ha gettato via dal proprio orizzonte e dalla propria meta la cosa più importante: la dimensione della ragione che non è riducibile a Logos puramente strumentale e calcolante, cioè la ragione totale, che include in se stessa l’intuizione e la creatività, e soprattutto la dimensione etica e affettiva; quella ragione che sta al di là e al di sopra della ragione matematica in senso stretto, e che si coglie, ad esempio, nelle meravigliose armonie di Bach. Le quali rivelano, sì, una sapientissima misura matematica ed una ricerca delle proporzioni architettoniche di tipo squisitamente geometrico, paragonabile all’applicazione della sezione aurea in pittura (e nella stessa architettura), ma nelle quali si coglie una nota ulteriore, un possente soffio di poesia che le fonde e le armonizza, che dà loro vita e le trasforma da principio meramente logico e quantitativo in una realtà vitale, palpitante, fremente, spirante il respiro stesso dell’esistenza, ma trasportata su di un piano spirituale, incommensurabilmente più elevato di quello pratico e meccanico. Chi abbia una sia pur minima familiarità con l’opera di Bach, coglierà immediatamente che si tratta d’un elemento religioso: ossia il ritorno dell’anima alle sue sorgenti, a Dio, e la ricomposizione, nell’uomo, dell’unità spezzata…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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