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Il nodo della questione modernista: quale rapporto fra scienza e fede?

Il modernismo cattolico è stato un fenomeno complesso e molto articolato, sul quale è stato detto molto. Non intendiamo ripetere cose già note, né ribadire il nostro personale giudizio nettamene negativo, non solo quanto agli esiti sul piano teologico, disastrosi per la dottrina e per la fede stessa, ma nelle stesse premesse filologiche, critiche e storiche dalle quali prese le mosse, in maniera ovattata e, apparentemente, quasi innocente. Quel che ci preme, in questa sede, è porre sul tappeto la perenne questione modernista, che non è legata ad un contesto storico ben preciso e circoscritto, e perciò superato, ossia alle vicende di oltre un secolo fa – che culminarono, come si sa, nella solenne condanna da parte di san Pio X, con l’enciclica Pascendi Dominici gregis, del 1907 – ma che tende continuamente a riaffacciarsi e che in questi ultimi anni, anzi, pare aver segnato una sorta di rivincita, se non del modernismo del primo ‘900, di gran parte delle novità e delle impostazioni che allora emersero e cercarono di affermarsi e di farsi accettare dalla cultura cattolica e dallo stesso Magistero ecclesiastico.

La questione di fondo era, ed è, sempre la stessa: il rapporto tra scienza e fede; intendendo per "scienza" non solo l’ambito delle scienze fisiche e naturali, come l’evoluzionismo biologico, o delle cosiddette scienze dello spirito, come la psicologia, la psichiatria, la sociologia, ma anche la storia, la filologia, l’esegesi biblica, con tutti i loro riflessi sulla religione cristiana, ad ogni livello: da quello della liturgia a quello della dogmatica e della morale. Si tratta, pertanto, di capire in che cosa consista lo spirito modernista, per essere in grado di riconoscerlo e distinguerlo da una legittima curiosità scientifica e da una naturale tendenza a cercare la chiarezza e la verità in ogni ambito del sapere, fin dove ciò sia umanamente possibile. Oggi, per esempio, l’ermeneutica biblica di un Hans Küng, influenzata da quella del protestante Rudolf Bultmann e dalla Formgeschichte, la critica delle forme, tende a ridurre le verità della fede cattolica a una serie di miti, tramandati da una comunità cristiana che viveva nella spasmodica attesa del ritorno di Cristo e dell’avvento del Regno di Dio: il che porta necessariamente alla dissoluzione del cristianesimo, se per cristianesimo si intende l’annuncio del Vangelo da parte del Verbo incarnato, Dio fattosi uomo. Se Cristo non era Dio e se Egli non è risorto, la speranza cristiana è vana, come dice san Paolo: e tali sono gli esiti di una critica biblica che pretende di spazzar via, in nome di una razionalità tutta e solo umana, quel che di non conforme a sé si incontra nelle Scritture e nella Tradizione. Come dire la pretesa di togliere il soprannaturale dal messaggio cristiano.

Che cosa distingue, dunque, il modernismo – "sintesi di tutte le eresie", come lo definì san Pio X, perché finisce per eliminare la divinità di Cristo, la vita eterna e tutti i sacramenti, cioè la vita della Grazia – dalla sana ricerca storica, biblica, teologica? Essenzialmente, l’atteggiamento di fondo e la prospettiva, l’orizzonte spirituale — per così dire — in cui ci si colloca. Si è sulla strada giusta se ci si pone in un atteggiamento di fede, di umiltà, e si cerca l’illuminazione in quella sapienza che non è cosa umana, ma che viene da Dio, come dice san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (2, 14, 15): Ma l’uomo che non ha ricevuto lo Spirito di Dio non è in grado di accogliere le verità che lo Spirito di Dio fa conoscere. Gli sembrano assurdità e non le può comprendere perché devono essere capite in modo spirituale. Chi invece ha ricevuto lo Spirito è capace di giudicare ogni cosa, ma nessuno è in grado di giudicarlo. Chi non possiede l’umiltà, non riceve lo Spirito; e allora, per lui, la sapienza umana gli diventa motivo di scandalo e pietra d’inciampo.

Alla luce di questa intuizione, proviamo a riandare agli esordi del movimento modernista, allorché, tra la fine del XIX e i primi anni del XX secolo, alcuni biblisti cattolici, alcuni laici, altri religiosi, vollero cimentarsi con le Scritture secondo il metodo critico delle scienze positive, ben decisi a restaurare i testi nella loro forma originale, togliendovi, cioè, le sovrastrutture che secoli di vicende storiche, di copiature, di smarrimenti e ricomposizione degli antichi manoscritti, di confusione tra parola orale e parola scritta, avevano, secondo loro, provocato. Evidentemente, o non si rendevano ben conto, o sottovalutavano la portata dirompente di ciò che si accingevano a fare: correggere la Bibbia, tale e quale come se fosse un libro qualsiasi, un libro scritto da uomini per altri uomini. È ben vero che alcuni di essi, e specialmente i sacerdoti, non intendevano giungere fino alla negazione della divina ispirazione delle Scritture; però è evidente, dal modo in cui si mossero, che non fecero la doverosa riflessione sulle due "sapienze" di cui pala san Paolo (e di cui parla, soprattutto, il Vangelo, e proprio per bocca di Gesù), quella puramente umana e quella divina, ma partirono all’assalto del testo biblico con lo stesso atteggiamento mentale di un filologo classico che vada a caccia degli errori che si annidano in un manoscritto del De Bello Gallico di Cesare o delle Filippiche di Cicerone.

Soprattutto, erano dominati da una sorta d’impazienza, da una fretta a stento trattenuta, perché incalzati dall’idea che la Chiesa, e la cultura cattolica con essa, fossero ormai "in ritardo", naturalmente rispetto ai tempi rapidi del Progresso: non per nulla si era in piena età positivista e gran parte della cultura profana era dominata dal miraggio delle magnifiche sorti e progressive che le macchine, frutto della scienza e della tecnica, avrebbero apportato al genere umano. Questo era già, da parte di quegli studiosi, un atteggiamento di per sé sbagliato: senza rendersene conto, avevano introiettato il punto di vista della modernità e non sentivano, né pensavano più da cattolici; di conseguenza, era pressoché inevitabile che giungessero a delle conclusioni eccessive, deformanti e incompatibili con la fede, perché le premesse li portavano sulla strada di una demolizione progressiva di ciò che, nella Scrittura, deve essere letto anzitutto con fede, poi con scienza, e la scienza sempre sotto la guida della fede. Giocò anche il fatto, ovviamente in senso negativo, che molti di essi avevano una sorta di complesso d’inferiorità nei confronti della critica biblica protestante e della stessa teologia protestante, molto più audaci e spregiudicate quanto all’esegesi biblica, dal momento che incominciavano ad avvertire il Magistero come un ostacolo, o, se non proprio come un ostacolo, come una sgradevole fonte di limitazioni alla loro libertà di ricerca. Insomma, ragionavano già da "specialisti", da "tecnici", per i quali la Bibbia non è, in primissimo luogo, la Parola che Dio rivolge agli uomini, ma un libro che deve essere studiato, corretto e interpretato secondo criteri scientifici, che sono, pur sempre – anzi, in maniera eminente — criteri esclusivamente umani.

Diamo la parola a Roger Aubert (1914-2009), uno storico e teologo belga di tendenza progressista, specialista della storia del cattolicesimo fra Otto e Novecento (da Il risveglio culturale dei cattolici, (in: Storia del cristianesimo, a cura di Elio Guerriero, vol. La Chiesa e la modernità, Milano, Edizioni San Paolo, 2005, pp. 219-221):

Se la maggior parte dei teologi, a Roma e in Italia in particolare, colse soprattutto gli aspetti conservatori dell’enciclica ["Providentissimus" di Leone XIII, del 18 novembre 1893], un crescente numero di esegeti, una volta passata la prima emozione, insistette sul fatto che essa condannava solo gli eccessi dell’"ipercritica", e spronava invece ad applicare allo studio delle Sacre Scritture i principi di una corretta critica. Si cessò di parlare di eventuali "errori" della Bibbia, cercando invece in altre direzioni la soluzione di difficoltà impossibili da negare.

Alcuni parlarono di "verità relativa", altri fecero ricorso alla teoria delle "citazioni implicite" (l’autore introdurrebbe tacitamente nel suo racconto documenti non ispirati senza garantirne la veridicità), altri ancora proposero di estendere a certi passaggi dei libri storici della Bibbia la teoria delle "apparenze", proposta dall’enciclica per risolvere le difficoltà sollevate in nome delle scienze naturali: gli autori ispirati, cioè, avrebbero riportato certi avvenimenti dal punto di vista del loro ambiente. Il padre Lagrange in particolare si impegnò su questa via e sviluppò le sue idee in una serie di conferenze raccolte in seguito in un volume dal titolo "La Méthode historique surtout à propos de l’Ancien Testament" (1903), che in un primo momento incontrò favorevolissima accoglienza in molti ambienti cattolici.

A quell’epoca Lagrange stava preparando con la sua équipe di Gerusalemme un ampio commento alla Sacra Scrittura "con una particolare attenzione alla critica letteraria", completato da studi di sintesi su diversi problemi scritturistici. Annunciata nel 1900, la raccolta degli "Etudes bibliques" cominciò a uscire nel 1902.

Ma progetti e pubblicazioni decisamente progressisti spuntavano un po’ dappertutto. In Germania se la collezione dei "Bibische Studien", fondata nel 1895, si pone su un piano ancora piuttosto conservatore, la "Biblische Zeitschrift", iniziata nel 1903 dai professori J. Gottsberger e J. Sickenberger, è invece concepita con lo stesso spirito della "Revue biblique". A Lovanio il professore A. Van Hoonacker si afferma con crescente autorevolezza, e il suo giovane collega P. Ladeuze, incaricato nel 1900 del corso di esegesi del Nuovo Testamento, intraprende una via che anticipa perfino, su certi aspetti, la scuola della "Formgeschichte". Il congresso degli studiosi cattolici di Friburgo del 1897, dove due relazioni in particolare attirarono l’attenzione, quella del padre Lagrange sull’autenticità mosaica del Pentateuco, e quella del barone von Hügel sulle fonti dell’Exateuco, poté essere considerato come "il momento felice di uno stato di grazia della critica biblica". Nuove delusioni, tuttavia, non avrebbero tardato a venire. […]

La pubblicazione, avvenuta il 13 gennaio 1897, di un decreto del Sant’Ufficio che proibiva di porre in dubbio l’autenticità del "Comma Johanneum", una interpolazione manifestamente tarda del resto della prima lettera di san Giovanni (5,7) è un tipico esempio della mentalità ancora dominante nel mondo dei teologi: si pretendeva di risolvere un problema di critica testuale in nome dell’autorità ecclesiastica, e, peggio ancora, in base a un ragionamento puramente teologico.

Nei mesi che seguirono, diversi episodi confermarono l’irrigidimento degli ambienti romani che avevano autorità in campo biblico, in particolare sotto l’influenza di alcuni Gesuiti. Il cardinal Parocchi si vide praticamente obbligato a porre fine alle attività della "Società per gli studi biblici" dopo una relazione del padre Genocchi del dicembre 1897 che avanzava dubbi sull’autenticità mosaica del Pentateuco. Al termine dell’anno accademico 1897-1898 a quest’ultimo fu tolto l’insegnamento di esegesi all’università pontificia dell’Apollinare, nonostante l’appoggio dei cardinali Parocchi e Satolli. Il 25 novembre 1898 Leone XIII indirizzava al generale dei Francescani una lettera per metterlo in guardia soprattutto da un modo "audax atque immodice liberum" di commentare le Sacre Scritture…

Evidente, in queste righe, la partigianeria di Aubert e la sua dichiarata simpatia verso i progressisti, e la sua critica nei confronti dei conservatori: il solo fatto che egli adoperi questi termini, presi dal linguaggio dell’ideologia politica, senza ombra di dubbio o d’imbarazzo, la dice lunga su come la pensi e su come valuti quella stagione della cultura cattolica. Per lui, "buona" era la critica biblica sviluppata in senso "scientifico", cioè modernista, e non buona quella che pretendeva di porre la teologia prima della filologia. Rivelatrice, a proposito del Comma Johanneum, la sua osservazione: si pretendeva di risolvere un problema di critica testuale in nome dell’autorità ecclesiastica, e, peggio ancora, in base a un ragionamento puramente teologico. Incredibile a dirsi, sembra quasi d’esser tornati ai tempi del processo a Galilei, stavolta, però, capovolgendo la prospettiva: se la scienza dice che le cose stanno così, largo alla scienza e taccia la religione. Era un po’ quel diceva Galilei, appunto, nella famosa lettera a don Benedetto Castelli, quando parlava delle due maniere in cui Dio parla agli uomini: una, la Scrittura, per tutti; l’altra, il gran libro della natura, per i matematici: inutile precisare che, poste così le cose, sono i primi che devono inchinarsi ai secondi, qualora vi sia un apparente contrasto fra la Bibbia e le leggi della natura…

Non vogliamo, però, dar l’impressione di sottrarci alle inevitabili conseguenze di quanto abbiamo detto. Se qualcuno ci chiedesse, pertanto: Ma allora, che cosa dovevano fare i biblisti? Dichiarare il falso, cioè che il Comma Johanneum (tanto per fare un esempio) è autentico, solo per non turbare le anime devote? Semplicemente, per prima cosa dovevano essere più prudenti (perfino ai nostri giorni, non tutti i biblisti son convinti che si tratti d’una aggiunta tardiva); secondo, non confondere il piano filologico con quello teologico. La Rivelazione cristiana si manifesta nelle due vie della Scrittura e della Tradizione. Se si perde di vista il fatto che entrambe sono divinamente ispirate; se ci si scorda, anche solo per un attimo, che la parola di Dio non vuole porsi sul piano della ragione scientifica, e che, pertanto, è sbagliato volerla comprendere all’interno di tale dimensione; se non ci si arma di umiltà e non si chiede alla Grazia divina di illuminare i dubbi, sia i dubbi di fede, sia i dubbi che ineriscono ai mezzi dei quali si è servita (e si serve tuttora) la divina Rivelazione, compresa la lettura e l’interpretazione della Bibbia, allora si è già fuori dalla retta comprensione della Parola di Dio. Pertanto, i filologi possono benissimo segnalare quanto vi è, nel testo biblico, di imperfetto, o anche d’inesatto, umanamente parlando: l’importante è che non finiscano, come è accaduto ai modernisti, per assolutizzare quelle loro "scoperte", e per ricavarne l’arbitraria conclusione che, dopotutto, la Bibbia è un libro come un altro. Da lì si origina, infatti, tutta la catena degli errori che allontanano il credente da Dio: il dubbio sistematico sul testo porta al dubbio sulla sua divina ispirazione; questo, al dubbio sulla figura storica di Gesù Cristo e sulla sua reale natura; e quest’ultimo, all’Incarnazione e alla Trinità, i due dogmi centrali del cristianesimo, senza i quali non c’è più il cristianesimo, ma un sapere puramente umano, che, del cristianesimo, conserva ancora, tutt’al più, l’impalcatura esteriore, mentre, all’interno, non vi sono che rovine e sterpaglie. Non sarà certo un caso se i vari Loisy, Laberthonnière, Tyrrell, Buonaiuti, hanno finito per scivolare in una concezione del cristianesimo che era tutto, fuorché cattolica: una sorta di vago misticismo panteista, curiosamente impastato di pregiudizi scientisti e positivisti: amalgama impossibile fra le ragioni del "secolo" (la fede assoluta nella scienza positiva) e le ragioni del "cuore" (una religiosità confusa e sentimentale, lontanissima dalla virile, schietta concezione cristiana).

Citiamo ancora una volta san Paolo (1 Cor., 2, 5-9):

Così la vostra fede non è fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio. Anche noi però, tra i cristiani spiritualmente adulti, parliamo di una sapienza. Ma non si tratta di una sapienza di questo mondo né di quella dei potenti che lo governano, e che presto saranno distrutti. Parliamo della misteriosa sapienza di Dio, del suo progetto di farci partecipare alla sua gloria. Dio lo aveva già stabilito prima della creazione del mondo, ma noi non lo avevamo conosciuto. Nessuna delle potenze che governano questo mondo ha conosciuto questa sapienza. Se l’avessero conosciuta non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Ma come si legge nella Bibbia: quel che nessuno ha mai visto e udito, / quel che nessuno ha mai immaginato, / Dio lo ha preparato per quelli che lo amano".

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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