
Fede e ragione, binomio irrinunciabile
13 Dicembre 2016
Il cristianesimo è un umanesimo?
15 Dicembre 2016Régine Pernoud (nata a Château Chinon, in Borgogna, il 17 giugno 1909, e ivi spentasi il 22 aprile 1998), grande storica francese e grande medievalista, ha tracciato, nelle sue opere, un ritratto della civiltà cristiana medievale ben diverso da quello cui siamo stati abituati dalla dominante cultura neoilluminista e neopositivista, tetro e sgradevole: al contrario, dalle pagine della Pernoud emerge un mondo pervaso di freschezza e di poesia, vigore ed entusiasmo, slanci mistici e intensa gioia di vivere. Sissignori: gioia di vivere! Con buona pace di tutti gli Umberto Eco e di tutti i romanzi, e i film, come Il nome della Rosa, che, del Medioevo, vogliono trasmetterci ad ogni costo un ritratto a fosche tinte, popolato di monaci lussuriosi, ignoranti e criminali, e pervaso da una spiritualità malata, patologica, delirante, sempre a caccia di vittime da immolare sui roghi, ella ci raffigura una civiltà medievale in cui i conflitti interiori, tipici dell’uomo moderno, erano tenuti a fremo da sapienti spinte e controspinte sociali e morali, che incanalavano l’energia vitale degli uomini e delle donne verso obiettivi positivi, la famiglia, il lavoro, il sacerdozio, e creavano le condizioni per una esistenza non priva di gioia, anzi, caratterizzata da una piena capacità di godere in maniera umana, e non compulsiva, come si dà nella odierna società consumista, le cose buone del mondo.
Le cose buone del mondo! Sì, perché il mondo è stato fatto da Dio, e dunque è stato fatto bene: e Dio vide che era cosa buona, dice l’autore del libro della Genesi, quando descrive i sette giorni della creazione. Basta pensare al Cantico delle creature di san Francesco: Laudato si’, mi’ Signore, per tutte le tue creature: dov’è la tristezza, dov’è il pessimismo? Certo: il Medioevo non è solo questo; è anche Il trionfo della morte, ed è anche il Giudizio universale, con Dio, gli angeli, i santi, e con il diavolo e le sue schiere infernali che si dividono gli esseri umani in vista della vita eterna. Ma che cosa c’è di male a ricordarsi che si è creature mortali? Qui non si tratta solo dell’uomo medievale: si tratta del cristiano; quindi, anche del cristiano dei nostri giorni. Il cristiano pensa alla morte: senza morbosità, ma ci pensa: sa che essa è la porta da cui avrà inizio la vita vera. Ci pensa, pertanto, non per avvilire i suoi giorni mortali, ma, al contrario, per viverli bene: cioè in armonia con Dio, e non andando contro le sue leggi e rifiutando il suo amore. L’interesse per la morte dell’uomo medievale è il riflesso di una piena consapevolezza che la creatura umana è mortale, e che un dì i suoi giorni finiranno; inoltre, che a quel punto sarà giudicato, e non potrà barare.
L’uomo moderno cerca di non pensare mai alla morte e considera ineducato, per esempio, il fatto che qualcuno ne parli in maniera troppo esplicita, durante un pranzo o una riunione fra amici. Non bisogna pensare alla morte: bisogna pensare alla vita e a tutte le opportunità che essa offre. Tuttavia non si può pensare in maniera positiva alla vita, se non si è capaci di misurare con uno sguardo la morte: solo chi è capace di dare la propria vita per le cose in cui crede, sa apprezzare la vita al suo giusto valore. L’uomo medievale lo sapeva; e lo sapeva non perché medievale, ma perché cristiano: quindi, in teoria, il cristiano dovrebbe saperlo ancora oggi, Difatti, la tristitia era considerata un vero e proprio peccato, non una semplice inclinazione al male o una occasione di peccato. Il primo uomo moderno delle cui emozioni e dei cui sentimenti siamo ben documentati, Francesco Petrarca, si lamenta di una scissione nel proprio io: quel doppio uomo che è in me, scrive, nella lettera in cui descrive l’ascensione al Monte Ventoso. Petrarca è un’anima infelice, perché ama la vita in contraddizione con la coscienza del tempo che fugge e della morte che si avvicina; mentre Dante ama la vita perché sa che il progressivo avvicinarsi alla morte rappresenta non già una inspiegabile aberrazione della natura, ma una preparazione necessaria, e perché sa che la vita, senza la morte, sarebbe un vano ritornare su se stessi, come in un labirinto, senza mai evolvere, senza mai trascendersi, senza mai imparare nulla di nulla, di ciò che è veramente necessario.
Citiamo una pagina dal libro di Régine Pernoud Luce del Medioevo (titolo originale: Lumiére du Moyen Age, Paris, Editions Bernard Grasset, 1954; traduzione dal francese di Italo De Giorgio, Roma, Giovanni Volpe Editore, 1978, pp. 124-126):
Se la loro fede era ingenua, si deve peraltro dire che non escludeva un solido senso pratico. E le realizzazioni alle quali essa condusse, costringono a pensare che essa non consistesse solamente, come si è detto, nel culto delle reliquie. Il Medioevo ama le reliquie, come ama ogni segno di una realtà invisibile. Ma questo è realismo, non sentimentalismo. La reliquia ha qualcosa della "traditio", della consegna di un simbolo negli atti di vendita o nelle investiture: è una caratteristica dell’epoca, e non solo della religione di tale epoca.
Non è questo il luogo di discutere della credenza nell’inferno, che è un dogma del cristianesimo e quindi non è affatto specifico del Medioevo. Resta da vedere se le visioni infernali magistralmente evocate da poeti e pittori generavano quel paralizzante terrore di cui si parla tanto volentieri, e se le mortificazioni cui la chiesa induceva finivano per privar ei nostri antenati delle gioie dell’esistenza. Non si può negare che la spinta essenziale della fede medioevale sia l’amore e non la paura.: "senza amore nessuno può bene Dio" si diceva, e ancora:
"Sans amour nul ne peut à l’honneur parvenir / Sui doit être amoureux qui veut grand devenir" (Nessuno può senza amore giungere all’onore. / Così deve essere amante chi aspira a divenire grande).
Non senza stupore si trovano nei trattati di morale dell’epoca otto peccati capitali invece dei sette che conosciamo: l’ottavo è, inaspettatamente, la tristezza, "tristitia". I teologi la definiscono per condannarla, e prescrivono i "remedia tristitiae" ai quali conviene ricorrere quando ci si sente preda della malinconia:
"Car irié, morne et pensis / Peut l’on bien perdre Paradis, / et plein de Joje et envoisié — Mais qu’on gard d’autre péché — le peut-on bien conquerre aussi. (Perché possono bene far perdere il Paradiso / pieno di gioia e di delizia. / Ma ci si guardi da altro peccato, / e lo si può lo stesso conquistare.)
Alla base della concezione del mondo nel Medioevo si scopre semmai un solido ottimismo. A torto o a ragione si parte allora dal principio che il mondo è fatto bene, che se il peccato perde l’uomo, la Redenzione lo salva e che niente, prova o gioia, succede che non sia per il suo bene e da cui egli non possa trarre insegnamento e profitto.
"Car maintes fois aller à l’aventure / En ce qu’on craint, avoir peine et douleur / Vient à effet de douce nourriture: / Je tiens que Dieu fait tout pour le meilleur. / Dieu n’a pas fait chacun d’une jointure, / Terres ni fleurs toutes d’une couleur; / Mais rien n’advient dont fleur n’ait ouverture. / Je tiens que Dieu fait tout pour le meilleur",
così si esprime Eustache Deschamps, uno dei poeti che hanno offerto un panorama più completo ed esatto della vita del loro tempo ("Perché molte volte, andando all’avventura, / ciò che si teme, aver pena e dolore, / ha poi l’effetto di dolce nutrimento. / Penso che Dio fa tutto per il meglio. / Dio non ha fatto tutti d’un sol pezzo, / né terre e fiori tutti d’un colore; / ma nulla accade da cui non possa aprirsi un fiore. / Penso che Dio fa tutto per il meglio"). Davanti a simili testi, e senza nemmeno pensare alla gigantesca baldoria di cui erano occasione le feste religiose, vien da pensare che se vi fu nella storia del mondo un’epoca di gioia, questa fu il Medioevo, e non si può che concludere con il giustissimo rilievo di Drieu La Rochelle: ""Non a dispetto del cristianesimo, ma per mezzo del cristianesimo si rivela pienamente ed apertamente la gioia di vivere, di avere un corpo, un’anima in questo corpo… insomma la gioia di essere" (articolo su "La conception du corps au Moyen Age", in "Revue Française", n. 1, pag. 16).
Ora, la chiave per comprendere perché il Medioevo sia stato tanti denigrato, nella cultura moderna, specialmente dall’illuminismo in poi, sta proprio nella gioia di viere, che non ha nulla a che fare con la joie de vivre della cultura moderna, che è, piuttosto, una specie di allegria da disperati, la stessa che induce l’orchestra del Titanic a continuare a suonare, mentre il transatlantico si appresta a scendere per sempre nel buio della sua liquida bara. Il Medioevo, infatti, è stato una lunga epoca profondamente imbevuta di spirito religioso; dunque, se è stato anche un’epoca caratterizzata dalla gioia di vivere, ossia da un sano apprezzamento delle cose buone che a vita offre, ciò equivale a dire che il cristianesimo non è affatto nemico della vita, come i vari philosphes di allora e d’oggi sostengono, da Voltaire a Michel Onfray, senza scordare il troppo sopravvalutato Bertrand Russell, ma, al contrario, esso possiede in se stesso le caratteristiche per rendere gli esseri umani più gioiosi, ottimisti, sereni. Questo, però, la cultura moderno non è disposta ad ammetterlo a nessun costo. E ciò per una ragione evidente: l’uomo moderno non è sereno, né ottimista, né gioioso; al massimo, conosce dei brevi sprazzi di allegria malsana, sgangherata, di disordinata e rumorosa esaltazione, per poi ripiombare in un cupo disagio esistenziale, in una tetra sensazione di solitudine e fallimento. Il primo dei moderni, Francesco Petrarca, era perseguitato, per sua stessa ammissione, dall’accidia, ossia dalla aegritudo, dalla tristitia; ed era disposto ad ammettere – a differenza di quel che faranno i suoi successori — che tale atteggiamento interiore equivaleva ad un peccato, proprio nel senso cristiano del termine, cioè una grave disobbedienza alla volontà di Dio. Dunque, per il cristiano, Dio desidera che l’uomo sia gioioso, che sia sereno e ottimista; se non lo è, se si compiace di crogiolarsi nel pessimismo e nell’amarezza, ciò costituisce un male, ossia un peccato.
L’uomo moderno non può ammettere queste cose, perché se lo facesse, dovrebbe trarne la conclusione di aver sbagliato quasi tutto, e di essersi allontanato dalla strada del suo stesso bene, non per altra ragione che per una maligna, ostinata forma di resistenza ai piani di Dio e di gelosia nei suoi confronti; dovrebbe riconoscere che la civiltà da lui costruita, e ella quale va tanto fiero, è una forma di malattia, per quanto tecnologicamente raffinata, dalla quale deve liberarsi, se vuol ritrovare la salute interiore (E, in buona misura, anche quella fisica); e che è unicamente il suo orgoglio, un orgoglio smodato e diabolico, a trattenerlo da un cos’m necessario e saltare ripensamento, e a spingerlo a intestardirsi lungo una strada che lo sta portando sempre più lontano da se stesso, dalla parte migliore della sua anima, nella stessa misura in cui lo sta allontanando dall’amore di quel Dio che lo ha creato e che non si stanca di cercarlo e di chiamarlo a Sé, al punto da avergli mandato, per aiutarlo a ravvedersi, il Suo stesso Figlio unigenito. In definitiva, la civiltà moderna è la più compiuta realizzazione dell’anticristianesimo; e quei cristiani che non lo vogliono vedere, quei teologi, quei sacerdoti, quei vescovi e cardinali che continuano a rovistare in mezzo ad essa per trovarvi delle cose positive, con le quali trovare una maniera d’intendersi e costruire un cristianesimo "adulto" e, appunti, "moderno", non hanno capito nulla né del cristianesimo, né della modernità, e, di fatto, agiscono come i peggiori nemici del cristianesimo, oltre che di se stessi e dei loro simili, perché si danno un gran da fare per spegnere quella fiammella che, sola, potrebbe ancora indicare la via della salvezza fra le tenebre angosciose di un mondo stralunato, incattivito, abbandonato da Dio e dal bene.
L’uomo medievale amava la vita perché sapeva fare i conti con la morte. Non la temeva in se stessa, perché, da realista qual era, ne accettava la necessaria presenza; la temeva per le conseguenze morali di una morte che lo potesse cogliere lontano dalla volontà di Dio. E, per ricordargli la sua mortalità e la necessità del pentimento, il sacerdote gli diceva, il Mercoledì delle Ceneri, riecheggiando il Libro di Giobbe: Ricordati che sei polvere, ed in polvere ritornerai; frase che è risuonata, generazione dopo generazione, sotto la volta delle chiesette o delle cattedrali, fino a qualche decennio fa; ma che poi, dopo la riforma liturgica del Concilio Vaticano II, è stata sostituita da questa: Convertiti e credi al Vangelo. Complimenti a quelle teste d’uovo che hanno pensato e voluto una tale sostituzione, e a quei sacerdoti e vescovi che ci spiegano, con grande sfoggio di cultura biblica, che è proprio la stessa cosa, che non è cambiato nulla, che la Chiesa post-conciliare si è limitata a porre l’accento sull’aspetto della conversione, piuttosto che su quello della fragilità e mortalità dell’uomo. O mentono, o s’ingannano: in entrambi i casi, hanno smarrito completamente il senso autentico dello spirito cristiano — e, con esso, il cristiano moderno finisce per essere come tutti gli altri uomini moderni: triste, depresso, scoraggiato, infelice ed angosciato…
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