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«Nobil natura è quella che confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale»

Dice Leopardi, ne La ginestra, o il fiore del deserto (vv. 111-117): Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato, e che con franca lingua, / nulla al ver detraendo, / confessa il mal che ci fu dato in sorte, / e il basso stato e frale.

Ma come! Aveva ragione Leopardi, dunque, e la speranza cristiana sarebbe vana? Niente affatto; Leopardi aveva torto e la speranza cristiana è solidamente fondata. Nondimeno, una parte del discorso di Leopardi può essere condiviso da un cristiano: quello in cui egli denuncia la bassezza e la fragilità della condizione umana, e, nello stesso tempo, si fa giustamente beffe degli ottimisti di professione, dei presuntuosi, i quali vorrebbero innalzare la condizione umana fin sopra le stelle, quasi fosse invidiabile e meravigliosa in senso assoluto. La prospettiva di Leopardi, come quella di Schopenhauer, è puramente materialista, e ciò impedisce all’uno e all’altro, che pure hanno compreso, in contrasto con la filosofia dominante al loro tempo, tutta la vacuità e l’inconsistenza di voler fare della condizione umana quanto di più meraviglioso si possa immaginare, di vedere tutto il quadro di essa e di trovare le risposte alle domande che, giustamente, si facevano. Perché l’uomo, pur aspirando alla felicità, è infelice? E perché, pur aspirando alla perfezione, è quanto mai imperfetto? E perché, come si domandava san Paolo, egli non riesce a fare il bene che vorrebbe, ma si trova a compiere il male che non vorrebbe? Leopardi, peraltro, interamente immerso in un orizzonte materialista, anzi, sensista, e genio poetico ma non filosofico, resta completamente impigliato nelle aporie dell’illuminismo settecentesco, che già erano apparse evidenti agli stessi idéologues, cioè agl’illuministi autocritici della seconda o terza generazione ad esempio, confondendo il concetto di piacere con quello di felicità, e dando per scontato che siano, press’a poco, sinonimi, non essendosi mai reso conto della grande differenza e del salto logico che implica il passaggio dal primo al secondo; mentre Schopenhauer, almeno, vede i limiti della concezione illuminista e tenta, a suo modo, di superarla. La povertà, o per meglio dire, l’aridità della filosofia di Leopardi e di Schopenahuer, emerge nella seconda parte del loro discorso: laddove il primo non sa far meglio che prendersela con la Natura matrigna, che prima mette al mondo i suoi figli con una gran sete di piacere/felicità, poi li abbandona al loro destino; e il secondo non va oltre l’invito alla soppressione della volontà di vivere, che, se non porta al suicidio in senso fisico, ci va, però, assai vicino in senso spirituale, dato che le sue raffinate elucubrazioni sull’arte, la compassione e l’ascesi, altro non sono che delle tecniche di eutanasia della volontà di vivere. Entrambi restano prigionieri del loro pessimismo, senza essersi dati la pena di verificare in maniera rigorosa se esso sia pienamente giustificato, sul piano razionale non meno che su quello esistenziale.

Ma perché, allora, sosteniamo che la prima parte del loro ragionamento è, per un cristiano, sostanzialmente condivisibile? Perché entrambi hanno la piena consapevolezza del fatto che la condizione umana è quella che è: fragile, precaria, mortale; esposta a tutte le delusioni, a tutte le sofferenze, le sconfitte; e, quel che è peggio, che pur desiderando l’armonia, l’equilibrio, la pace con se stessi, gli uomini paiono afferrati da un demone maligno che, fin da bambini, li spinge a dire no a ciò che è bene, a lasciar emergere il loro lato oscuro, egoista, prevaricatore, e una quantità d’impulsi primordiali che non si accordano né con la morale, né con la evidente necessità di stabilire delle relazioni minime di convivenza con gli altri — e anche con se stessi. Solo che, per il cristiano, l’inclinazione dell’uomo al male – non diciamo la sua malvagità innata, perché questa sarebbe già una forzatura, e la lasciamo a Lutero; ma l’inclinazione al male, certamente sì — non è un dato originario; non fa parte dello statuto ontologico della persona umana. Per il cristiano, questa era, originariamente, buona: il Creatore l’aveva dotata di ogni perfezione, per quanto compatibile con la sua condizione di creatura. Poi si è verificato un qualcosa, un evento, una rottura disastrosa di quella perfezione: evento che i cristiani identificano con il Peccato originale, radice di tutti i mali dell’umanità. Come conseguenza di esso, che fu, in buona sostanza, un atto d’invidia, di superbia e di ribellione al Creatore, la natura umana è miserevolmente decaduta, si è abbassata, è sprofondata nella palude della concupiscenza, della superbia e dell’avidità, e vi sguazza compiaciuta.

Ma, a parte la Scrittura e la sacra Tradizione, in base a quali elementi oggettivi la concezione cristiana si basa sul dato della caduta? È molto semplice: in base al fatto che una specie di ricordo, di nostalgia del paradiso perduto, o, se si preferisce, una vaga, ma indubitabile aspirazione al bene, al vero, al giusto, al bello, permane nell’anima umana, anche in quella dell’uomo più depravato e lontano da Dio. L’indizio principale risiede nella coscienza morale: l’uomo la possiede, innegabilmente, perché essa gli rimorde quando compie il male, anche se lo compie lo stesso; anche mentre si abbandona ai peggiori eccessi, ai più spaventevoli delitti, egli sente che sta trasgredendo alla legge morale: e chi l’ha impressa nel suo cuore, se tutto quel che siamo, che sentiamo e che pensiamo, derivano dalla sfera sensoriale o, al massimo, dall’educazione ricevuta nei primi anni? Evidentemente, la legge morale è inscritta nella nostra coscienza. E che altro è la nostra coscienza, cioè la nostra capacità di riconoscere e distinguere il bene dal male, se non il marchio originario che è stato impresso nella nostra anima, quando essa fu creata? Ora, se questa legge è dentro di noi, significa che è esistito un tempo in cui noi la vedevamo realizzata: non si prova lo stimolo della sete, se non si è fatta l’esperienza del bere; e non si prova quello del magiare, se non si è fatta l’esperienza del magiare, o quello del sonno, se non si è sperimentato che sia il dormire. Bere, mangiare, dormire, sono bisogni primari: non sono capricci, non sono fronzoli: se l’uomo non potesse soddisfarli, morirebbe in brevissimo tempo. Dunque, se si ha la nozione di un qualcosa che è perfetto, pacifico, ordinato e armonioso; se se ne rimpiange la mancanza; se si prova il rimorso di essersi allontanati di molto da tali mète, ciò sta a indicare che la natura umana, di quelle cose, ha fatto l’esperienza, perché appartenevano al suo statuto originario. Adamo ed Eva, infatti (o chi per essi; con buona pace dell’evoluzionismo, del fantasioso brodo primordiale e dei nostri improbabili antenati scimmieschi e irragionevoli) erano perfetti, sia moralmente che fisicamente: non avrebbero potuto desiderare una condizione migliore di quella che possedevano, in quanto creature. Il male è che, appunto, di quella condizione non si accontentarono; e che, ispirati e istigati dal Diavolo, ambirono a eguagliare la condizione del loro Creatore, al quale dovevano tale perfezione e felicità.

Dopo la caduta, scomparvero sia i doni soprannaturali, sia i doni preternaturali di cui Dio aveva adornato le sue creature: rimasero solo le qualità naturali. Però, anche così decaduto, l’uomo conservò sempre un confuso ricordo, o una vaga aspirazione, a ritornare nel pieno possesso della perfezione originaria: ossia lo slancio dell’anima verso il Bene, il Vero, il Giusto e il Bello. Tale è l’ideale della santità; e tale è l’obiettivo della teologia morale cristiana: ripristinare lo stato originario della santità. I più grandi santi vi si sono avvicinati; ma tutti i cristiani dovrebbero porsi una simile meta. Per il cristiano, per il cristiano autentico, s’intende, e non quello fasullo, la santità non è una riserva di caccia destinata a pochi: è la via maestra sulla quale dovrebbero incamminarsi tutti. Del resto, il fatto che a molti cristiani l’ideale della santità appare così difficile, dipende non da altro che dalla debolezza della loro fede. Se avessero fede quanto un granello di senape, potrebbero ambire a qualunque meta: anche alla santità. Infatti, non è l’uomo che si santifica da se stesso, con le sue sole forze naturali: questo è l’ideale, impossibile e irrealizzabile, del giudaismo, che san Paolo ha dimostrato essere impossibile e irrealizzabile, appunto perché nessun essere umano è capace di osservare interamente la Legge, per cui, in base alla Legge, nessuno potrà mai salvarsi. No; ci vuol altro; ci vuole l’aiuto soprannaturale di Dio, la sua grazia, e l’intervento dello Spirito Santo. Che arriva, arriva senza fallo e senza indugio, ma solo a colui che lo cerca e che lo chiede con semplicità, con umiltà e mitezza; non arriva a colui che lo chiede con superbia, credendosi migliore degli atri, vantandosi di essere meno peccatori degli altri; o a colui che lo chiede con poca fede. Gesù ha detto e ridetto tali cose: inutile insistervi sopra ulteriormente.

E adesso torniamo al concetto iniziale: la fragilità dell’uomo e la miseria della sua condizione – quale effetto del Peccato originale — sia per la sua intima inclinazione al male, sia per le miserie fisiche connesse alla sua natura decaduta dalla grazia: le malattie, la vecchiaia e la morte. Una certa teologia modernista e progressista, pullulata negli ultimi decenni, dopo il Concilio Vaticano II, sembra avere poca simpatia per questo concetto, tanto è vero che ne parla pochissimo e vi fa riferimento il minimo indispensabile, e anche di meno ancora. Essa non ama parlare della fragilità e della miseria della condizione umana, perché, così facendo, pensa che ne uscirebbe svalutata e disprezzata la vita terrena, che essa ritiene, invece, essere un bene. Ma la sana dottrina cattolica non ha mai negato che la vita terrena sia un bene — basta leggere il Cantico delle creature di san Francesco per convincersene -, bensì che essa sia un bene assoluto, che sia un bene in se stessa. No: in se stessa è un male, se non altro perché, quand’anche fosse adornata da tutti i pregi del corpo e della mente, e accompagnata da tutte le circostanze esterne più fortunate che sia dato immaginare, essa è pur sempre destinata a concludersi nella miseria e nel pianto: malattia, vecchiaia e morte attendono al varco ogni creatura umana, a meno che la fine non arrivi prima, in maniera più o meno improvvisa e più o meno dolorosa. Dunque, la condizione dei viventi non è un bene assoluto: nessun vivente gode nel lasciare la sua vita; tanto meno gode nel soffrire o nell’invecchiare, cioè nel perdere i beni della salute, dell’autonomia, della lucidità, della coscienza del proprio vigore. Non parliamo, poi, nel caso della creatura umana, della perdita della speranza, intesa come aspettativa di qualcosa di bello, ancorché indistinto, che accompagna la giovinezza e la maturità, e che rende a ciascuno più sopportabili le miserie presenti, e li consola nel ricordo dei mali passati. Ricordati, uomo, che sei polvere, ed in polvere ritornerai, diceva il ministro di Dio nel corso di una cerimonia molto suggestiva e molto significativa, spargendo una manciata di cenere sul capo del penitente. Ma la Chiesa, ripetiamo, ha molto attenuato, negli ultimi tempi, la consapevolezza della fragilità umana, principalmente per influsso della società secolarizzata, che non si rassegna a quella fragilità e a quella debolezza, e sogna e vaneggia d’impossibili rivincite contro la natura stessa, magari per mezzo della bioingegneria. E non si è resa conto, così facendo, di scivolare nuovamente lungo il piano inclinato della umana superbia e del rifiuto della condizione creaturale: ossia verso le stesse condizioni psicologiche da cui nacque il Peccato originale, per compensare il quale fu necessario il solenne mistero della Incarnazione del Figlio di Dio, della sua Passione, Morte e Resurrezione.

Oggi i teologi, i sacerdoti, i catechisti, generalmente parlando, in omaggio alle recenti tendenze, si guardano bene dall’insistere troppo su questa miseria, su questa debolezza della condizione umana. Oggi sarebbe quasi inimmaginabile un testo scolastico di religione cattolica come quello, eccellente, di Padre Cristoforo, Fra Cielo e terra (Milano, Aristea Editrice, 1957, p. 78), in cui si affermava:

BEATI GLI AFFLITTI PERCHÉ SARANNO CONSOLATI

Gesù sapeva che il dolore è il nostro pane quotidiano; Egli stesso non ebbe neppure un istante della sua vita sena dolore di passione. Non solo ogni grande vittoria, ogni conquista importante, in noi o fuori di noi, costa intensa sofferenza; ma anche le cose più semplici e ordinarie ci sono causa di lacrime. È così la nostra vita. Siamo figli di Adamo, e il dolore è il nostro retaggio sino alla fine del mondo.

Siamo come gente provvisoriamente accampata su una riva inospitale, sbattuta dalle ondate di una alluvione di guai. Protestare, ribellarci è inutile. Possiamo, invece, fare del nostro dolore causa, strumento di beatitudine, offrendo a Dio in espiazione per noi e per tutti i nostri fratelli, unendo il nostro soffrire al martirio dell’Uomo-Dio e a quello dei suoi eletti, innestandoci così nella Comunione dei Santi[…]. Dio non si lascia vincere in generosità ed effonderà su di noi non immaginate consolazioni.

Parlando sempre meno del valore salvifico e rigenerante della sofferenza, e cessando di parlare del significato della Croce, non solo per Gesù, ma anche per i cristiani, una certa teologia odierna si lascia sfuggire la cosa essenziale: il fatto che il Regno di Dio comincia qui, ora, nel nostro intimo: ma solo se sappiamo e se vogliamo farci veramente seguaci di Gesù, compresa la Sua santa Croce…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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