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Ma quante acrobazie per dar ragione Galilei anche quando ha torto marcio

Uno dei dogmi fondamentali del paradigma culturale della modernità è che i suoi "eroi", i suoi "campioni", i suoi padri costituenti, non possono essere colti in fallo, né la loro immagine sopporta la benché minima incrinatura: non si può dire che hanno sbagliato, e sia pure su questioni secondarie: no, essi hanno avuto sempre ragione, in tutto quello che hanno detto e che hanno fatto, perché la Ragione era con loro, il Progresso era con loro, la Modernità nasceva con loro e quindi, in un modo o nell’altro, essi avevano sempre ragione, e i loro oppositori avevano sempre torto; opinare diversamente, sarebbe come aprire una breccia nella fortezza inespugnabile del paradigma stesso, il che non è ammissibile, e neppur concepibile.

Parmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come L’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. Ma posto pur anco, come al Sarsi pare, che l’intelletto nostro debba farsi mancipio dell’intelletto d’un altr’uomo (lascio stare ch’egli, facendo così tutti, e se stesso ancora, copiatori, loderà in sé quello che ha biasimato nel signor Mario), e che nelle contemplazioni de’ moti celesti si debba aderire ad alcuno, io non veggo per qual ragione ei s’elegga Ticone, anteponendolo a Tolomeo e a Nicolò Copernico, de’ quali due abbiamo i sistemi del mondo interi e con sommo artificio costrutti e condotti al fine; cosa ch’io non veggo che Ticone abbia fatta, se già al Sarsi non basta l’aver negati gli altri due e promessone un altro, se ben poi non esseguito.

È, questo, un passaggio centrale del Saggiatore di Galileo Galilei: quello più volentieri riportato nelle antologie scolastiche e citato, in tutte le maniere e le occasioni, dagli irriducibili e inossidabili seguaci del Galilei fans’club: i quali fanno a gara per magnificare ora l’arte sopraffina dello scrittore e del polemista, ora l’acume impareggiabile dello scienziato e del fondatore del nuovo paradigma scientifico moderno. In effetti, di quest’opera turgida e vanagloriosa, narcisistica e disonesta, forse la più ingiustamente celebre di tutta la letteratura italiana, e dei suoi imperterriti laudatores odierni, si potrebbe dire ciò che soleva affermare Marx a proposito di Proudhon, cioè che aveva il diritto di essere un cattivo filosofo in Germania, perché passava per uno dei migliori economisti francesi, mentre in Francia godeva di una buona reputazione solo perché era considerato uno dei più validi filosofi tedeschi; così, anche per quest’opera di Galilei, gli storici della letteratura la esaltano come una pietra miliare nel percorso della scienza moderna, non potendola salutare come un capolavoro letterario, mentre gli storici della scienza sono costretti ad ammettere che si tratta di un lavoro scientificamente modestissimo e pieno di errori, tuttavia si affrettano a lodarne la magnificenza letteraria. Insomma: si ammette che vi sono dei limiti, però, inspiegabilmente, come tirando fuori un coniglio da sotto il cappello del prestigiatore, si giunge ad un giudizio decisamente favorevole, anzi, superlativo: e, giusto per salvare la forma, come trovandosi davanti a uno studente raccomandato che meriterebbe d’essere bocciato, ma che bisogna promuovere, e con un voto più che buono, si allega che l’eccellenza si troverà certamente dall’altro lato del muro, non potendola affatto vedere, né mostrare ad altri, in base a quel che appare da questa parte.

Ne abbiamo già parlato, in diverse occasioni; e non intendiamo ripetere cose già dette, quanto svolgere una riflessione sull’inesauribile servilismo di una critica la quale stabilisce a priori, in base alle sue opinioni ideologiche, cosa sia grande e giusto, e poi passa ad esaltare certe opere e certi autori, e a svalutarne altri; e sull’infinito conformismo del pubblico, che non vede le palesi contraddizioni e i capziosi ragionamenti della critica, perché è stato "programmato" per trangugiare tutto quel che gli dirà la critica stessa, e a fidarsi ciecamente di essa.

Tutto era cominciato, nell’agosto del 1618, con la comparsa di tre comete, che avevano stimolato la curiosità della comunità scientifica: si trattava di oggetti reali, oppure di semplici effetti luminosi, come l’arcobaleno o le aurore boreali? Nel gennaio 1619 il padre gesuita Orazio Grassi, docente di matematica presso il Collegio Romano — il grandioso complesso scolastico fondato da Sant’Ignazio di Loyola – pubblicò De tribus cometis 1618 disputatio astronomica, nella quale, basandosi sia sul metodo logico-scolastico, sia su delle osservazioni dirette, sostenne, seguendo in ciò il suo maestro ideale, Tycho Brahe, che esse erano dei corpi celesti veri e propri. Aveva ragione; ma Galilei, che non aveva nemmeno osservato le comete, perché tenuto a letto da una malattia, non tollerò che prendesse piede una tale spiegazione, che contrastava con la sua idea di un cosmo geometricamente perfetto, animato da movimenti regolari, mentre le comete non si sapeva donde venissero, né dove andassero. Perciò indusse il suo discepolo Mario Guiducci a entrare in polemica con il Grassi, attribuendosi un Discorso sulle comete che, in realtà, era stato scritto da lui, o, come minimo, da lui ispirato, rivisto e corretto, sostenendo che si trattava di effetti luminosi e non di corpi solidi, "perché delle pietre non possono cadere dal cielo" (con buona pace del tanto decantato metodo empirico-sperimentale, di cui Galilei sarebbe stato il teorico e quasi il creatore).

Finzione, quella della firma, più che trasparente, perché tutti sapevano chi fosse il vero autore del Discorso e il Grassi, difatti, non rispose al Guiducci, interlocutore fittizio, ma al suo vero avversario, Galilei, l’anno stesso, con la Libra astronomica ac philosophica, un trattato nel quale ribadiva le sue posizioni e confutava le tesi avverse: il titolo alludeva sia alla bilancia, sia alla regione celeste in cui era apparsa la più grande delle tre comete; anche se Galilei fece notare che essa era apparsa invece nella costellazione dello Scorpione, per cui il trattato avrebbe dovuto intitolarsi Astronomico e filosofico Scorpione. Questa serie di botte e risposte si succedettero nello spazio di pochi mesi, poiché la Libra – pubblicata sotto lo pseudonimo di Lotario Sarsi, ma il cui vero autore era noto a tutti – vide le stampe in ottobre dello stesso 1619. Quel che ci preme sottolineare è che la disputa era partita da un attacco di Galilei, per mezzo di un prestanome, per contestare con asprezza, e quasi con acredine, una tesi scientifica su di una questione nella quale non si era degnato nemmeno di eseguire osservazioni dirette, attaccando con animosità uno stimato matematico e architetto gesuita (del Grassi è il progetto della chiesa di Sant’Ignazio, annessa al Collegio Romano), oltretutto ignorando le buone relazioni e il rapporto di stima che esisteva fra lui stesso la Compagnia di Gesù, quasi che avesse voluto sfidare, col Grassi, tutto l’ordine di Loyola, immotivatamente e per pura vanagloria.

La cosa poteva anche finire lì. Invece, a freddo, quasi quattro anni dopo, nel maggio del 1623, ecco che Galilei licenzia alle stampe Il Saggiatore, che già nel titolo suona come una sfida al Grassi, facendo allusione al preciso bilancino dell’orefice, contro la rozza bilancia del fruttivendolo o del commerciante. In quest’opera, dedicata, con perfetto tempismo, al nuovo papa Urbano VIII, che Galilei conosceva da tempo come Maffeo Vincenzo Barberini, e che era un cultore di astronomia e un suo ammiratore (tanto è vero che l’opera gli piacque), egli ribadiva la sua tesi, completamente sbagliata, circa la natura delle comete; mostrava il massimo disprezzo per il grande astronomo danese Tycho Brahe, ammirato da tutta Europa, dichiarando "nullo" il suo sistema, una specie di compromesso fra quello tolemaico e quello copernicano; e accusava il Sarsi, con tono irridente e sarcastico, di essere uno scienziato da biblioteca e di non condurre la ricerca mediante l’osservazione diretta dei fenomeni: accusa doppiamente ingiusta e in perfetta malafede, perché Sarsi aveva compiuto tali osservazioni, mentre Galilei, che pur pretendeva di esaltare il metodo sperimentale, non le aveva compiute. Vale la pena di notare che una parte sproporzionata dell’opera è dedicata all’esaltazione di se stesso, alla rivendicazione dei propri meriti astronomici, e ad una accorata lamentazione per essere stato attaccato, lui (!), da persone invidiose, le quali volevano contendergli la meritata gloria scientifica: cosa di cui — scriveva con imbarazzante vittimismo — non riusciva a capacitarsi. Dopo aver pubblicato Il Saggiatore, vista la favorevole accoglienza, e senza tener conto del malumore e del risentimento che esso aveva, inevitabilmente e comprensibilmente, provocato in tutto l’ambiente dei gesuiti, Galilei accantonò ogni prudenza e pensò che fossero maturi i tempi per proclamare apertamente il modello copernicano, benché fosse già stato ammonito dall’Inquisizione romana di non insegnarlo e di non presentarlo pubblicamente, se non come una semplice ipotesi matematica.

Non vogliamo ripetere quanto è già stato detto e scritto da molti sulle vicende successive, che culminarono nel famoso processo del 1633; piuttosto ci sembra segno d’interesse osservare quante acrobazie sono stati disposti a fare i suoi ammiratori, a cominciare dagli storici della letteratura, per minimizzare i suoi errori e per esagerare i suoi meriti, nonché per sminuire le giuste osservazioni del Grassi e per risolvere l’intera faccenda in una disputa fra la scienza nuova, sperimentale e intelligente, rappresentata da Galilei, e quella vecchia, ottusamente ancorata al principio di autorità, impersonata dal Grassi: il che è più o meno un capovolgimento della realtà dei fatti. Eppure tale capovolgimento prosegue ininterrotto da quando la scienza accademica ha deciso di fare di Galilei il suo Padre nobile e il suo Santo patrono, ponendolo su un piedistallo così alto, che nessuna critica, per quanto fondata e documentata, possa mai sfiorarlo e oscurare, anche solo minimamente, la sua gloria imperitura. Difficile pensare che ciò non abbia anche fare con l’intento polemico di denigrare la tradizione cattolica, e di servirsi della figura di Galilei, esageratamente "gonfiata" nei suoi meriti di scienziato, veri e presunti, un po’ come è stato fatto con quella di Paolo Sarpi, o di Giordano Bruno, per rivendicare la tradizione del pensiero "laico" e tendenzialmente anticlericale (benché Galilei trafficasse spudoratamente con i suoi amici preti, a Roma e fuori di Roma, per garantirsi un ambiente favorevole; e se, alla fine, non vi riuscì, ciò dipese molto più dalla veemenza e dalla superbia del suo carattere, nonché dalla sua smania di protagonismo, di gloria e di onori, che dalle circostanze oggettive).

A titolo di esempio, prendiamo quel che scriveva, a proposito del Saggiatore, il critico Ferdinando Flora (1902-1968), fratello del più noto Francesco; ma con parole e con argomenti estremamente simili a quelli di quasi tutti gli altri storici, pressoché unanimi nel magnificare Galilei e nel denigrare il Grassi. Scrive, dunque, Ferdinando Flora, nella Introduzione alle Opere di Galilei, nei Classici Ricciardi (da: G. Galilei, ne I classici del pensiero italiano, Biblioteca Treccani, 2006, pp. XXXI-XXXII): 

"Il Saggiatore", pubblicato nel 1623 a cura degli Accademici dei Lincei che lo dedicarono al papa Urbano VIII, apparve scritto in forma di lettera, e segue passo passo la "Libra", postillandola, mettendone in evidenza gli errori o i presunti errori, rintuzzando ogni argomento e mostrandone l’insufficienza, l’arbitrarietà,  la vacuità, con abilissimo gioco dialettico, in uno stile perfetto per limpidezza, grazia, arguzia, che talvolta si mutano in sarcasmo e beffa. Dei due contendenti, di troppo impari valore, l’uno, il Sarsi, difende un’ipotesi più vicina al vero, con argomenti basati sulle osservazioni e le esperienze e talvolta libreschi; l’altro, Galileo, suggerisce un’ipotesi erronea, e la sostiene con mente di scienziato che indaga dal vivo il "gran libro della natura", per scoprirne le leggi: e non può, come il Sarsi, appagarsi di insufficienti e confuse osservazioni.

Considerato il capolavoro polemico di Galilei, "Il Saggiatore" – quantunque erroneo nella sua ipotesi generale sulle comete e nelle conclusioni sui altri argomenti di non lieve importanza – che il suo avversario aveva visto meglio, e quantunque, tra gli scritti galileiani, il più povero di contenuto scientifico -è vivo per l’eleganza dello stile, per l’alacrità dialettica,  per la critica al principio d’autorità e ai procedimenti logici della dottrina tradizionale; e, soprattutto, per l’enunciazione dei principi basilari del metodo matematico-sperimentale.

Così è, se vi pare. I due contendenti sono "di troppo impari valore": sicché il Grassi, che ha ragione, alla fine si trova ad aver torto, e questo torto viene tramandato ancora a quattro secoli di distanza; e Galilei, che aveva torto, si trova, prodigiosamente, ad aver ragione. Del resto, è stato processato dall’Inquisizione, lui: ha sofferto a causa della bieca Inquisizione; dunque, come si potrebbe negargli un risarcimento postumo, glorificandolo e perdonandogli qualche errore di lieve entità? Ad esempio, l’errore di aver sostenuto, con estrema convinzione, che le maree terrestri sono la "prova" dei moti terrestri, e quindi… della giustezza del sistema copernicano.

Un altro esempio di questa scandalosa parzialità a favore di Galilei, questa volta relativo alla sua vita privata. Il Flora ammette che il grande scienziato, con autentica violenza morale, costrinse le due figlie avute da una donna veneziana, Marina Gamba, a farsi suore, ancor giovanissime, e una delle quali non aveva alcuna vocazione al convento; ma si affretta a precisare che sono stati dei critici "malevoli" quelli che han voluto fare un parallelismo con il padre della manzoniana monaca di Monza. Eppure la situazione è identica; anzi, con l’aggravante, per Galilei, che lo scienziato fiorentino, rifiutando di sposare la donna e di assicurare, così, una posizione regolare ai suoi tre figli (c’era anche un maschio), aveva, se possibile, ancor meno giustificazioni i quante ne avesse il padre di Gertrude. Di nuovo: si riconosce il fatto, cioè che Galilei era, moralmente parlando, una brutta persona; eppure se ne trae una conclusione opposta rispetto all’evidenza: cioè che non è lecito paragonarlo al famoso, e altamente negativo, personaggio descritto da Alessandro Manzoni. Insomma lo si assolve con formula piena, dopo averne riconosciuto la colpa: un vero gioco di prestigio. E la ragione è ideologica: nessuna ombra deve macchiare il gran Padre della scienza moderna, oltretutto martire (sia pure mancato) del libero pensiero.

La verità è che a Galilei ben poco importava dei progressi della scienza, a meno che gli venissero riconosciuti tutti i meriti ai quali pensava d’aver diritto, anche se non lo aveva. Si sdegnava quando qualcuno gli ricordava che il cannocchiale, dopo tutto, non lo aveva inventato lui; e non si abbassava a fare il nome di quell’oscuro ottico olandese (di origine tedesca), Hans Lippershey. Nemmeno era disposto a dire un grazie al suo amico Paolo Sarpi, dal quale, sicuramente, gli era giunta la notizia del nuovo strumento, fabbricato nei Paesi Bassi. Da parte sua, costruì un gran numero di telescopi e ne fece addirittura oggetti di un ampio e lucroso commercio, sia nazionale e che internazionale. Però, quando il suo grande collega tedesco, Keplero, che lo stimava moltissimo (stima che l’ombroso Galilei ricambiava solo con riserva) gli chiese di riceverne uno in prestito, per condurre meglio le sue osservazioni, Galilei rispose che non ne aveva. La sola idea che qualcuno potesse scoprire qualcosa al posto suo, offuscando o diminuendo la sua parte di gloria, lo rendeva ciecamente geloso: e pazienza se, così facendo, era il progresso della ricerca scientifica in quanto tale a soffrirne. E che dire delle sua acredine nei confronti di Tycho Brahe, che egli conservò, inalterata e implacabile, per tutta la vita? La vera ragione di essa era il fatto che Tycho Brahe non accettava interamente il modello copernicano: e questo, secondo Galilei, ne faceva automaticamente un suo nemico personale, immeritevole di qualsiasi considerazione.

Tale era l’uomo, tale lo scienziato, tale lo scrittore. Un grande scrittore? Il più grande scrittore del Seicento, come si avventurano a scrivere, ancora oggi, molti autori dei libri di testo per il liceo (gli stessi che ignorano, o quasi, il nome di un prosatore a lui infinitamente superiore: Daniello Bartoli, un altro gesuita)? Si vede che costoro non hanno mai insegnato in un liceo. Altrimenti, saprebbero con quanti sbadigli gli studenti affrontano quelle due o tre paginette di Galilei previste dai programmi d’italiano; quel suo periodare ampolloso, barocco, enfatico, inutilmente prolisso; e quel suo incessante incensare se stesso e sbeffeggiare l’avversario, oltre ogni limite di decenza e di senso della misura. Ma tant’è: la cultura moderna, scientista e anticristiana, aveva ed ha bisogno di un eroe senza macchia e senza paura (anche se paura, alla fine, ne ebbe), e ha fatto di questo vanitoso patologico, di questo malato di ego, gonfio di gelosia e di astio verso tutti i potenziali rivali, un modello ineguagliabile d’intelligenza, di sapienza, di buon gusto e di eleganza…

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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