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I nostri nonni avevano il cuore più sereno anche perché amavano le cose belle

L’uomo moderno ha perduto la sua pace, la sua serenità; la sua anima non è più in equilibrio con se stessa, né con Dio, né con il mondo circostante.

Basta confrontare una poesia di Dante e una di Petrarca per afferrare immediatamente la differenza: al di là della diversità degli stili e dell’ispirazione, nel primo si sente un’anima saldamente ancorata in Dio e perfettamente conscia di se stessa e della propria posizione nel mondo; nel secondo, al contrario, vediamo ondeggiare penosamente un’anima che ha perduto il proprio baricentro, che annaspa, che è sprofondata in una spessa nebbia di tristezza esistenziale. Appena quarant’anni separano le date di nascita dei due uomini (il 1265 e il 1304), una generazione soltanto: eppure, quale abisso separa i loro mondi, le loro atmosfere spirituali, le loro prospettive morali e religiose: sembra che appartengono a due universi completamente differenti. Ed è proprio così. Dante appartiene alla civiltà medievale, teocentrica, la riassume e la conclude, portandola al culmine dell’arte e del pensiero; Petrarca è il primo umanista e, pertanto, è l’iniziatore, quasi il pioniere di una nuova epoca dello spirito, l’Umanesimo: in un certo senso, egli è già un uomo moderno. Quel doppio uomo che è in me, dice di se stesso, nella lettera in cui descrive l’ascensione al monte Ventoso: e non si potrebbe dare una definizione migliore dell’uomo moderno, della sua essenza, della sua invincibile malinconia e solitudine. Petrarca non abita bene in se stesso, come accade a Dante; è sdoppiato, è scontento, è infelice: per questo è continuamente proteso — non senza molta ostentazione e molto narcisismo — allo scavo incessante della propria anima, ad una introspezione quasi ossessiva. Come potrebbe star bene ed essere sereno, un uomo scisso in se stesso, e che non sa decidere a quale dei suoi opposti "io" accordare la propria preferenza, riconoscendone l’intima verità e autenticità?

La modernità incomincia con l’Umanesimo, si sviluppa pienamente con la Rivoluzione scientifica e poi con l’Illuminismo, ma impone la sua cultura, come cultura dominante, solo al culmine del processo di industrializzazione e democratizzazione, cioè in pieno XX secolo. Nelle campagne e nei centri più piccoli, la modernità si afferma (almeno in Italia) solo negli anni ’60 del Novecento; nelle province, tratti della cultura pre-moderna sopravvivono ancora all’inizio degli anni ’70; il colpo definitivo lo assestano le televisioni commerciali, e, a seguire, la massificazione delle università e la diffusione della tecnologia informatica nelle abitudini private dei cittadini, oltre che nelle professioni, nei mestieri, nella pubblica amministrazione e persino nei giochi per l’infanzia. Quando cominciano a sparire le bambole e i soldatini dalle vetrine dei negozi per giocattoli, e si ritirano negli scaffali interni, o nei magazzini polverosi, e infine scompaiono del tutto, e si affermano, al loro posto, i giochi elettronici, è allora che la cultura moderna celebra il suo trionfo definitivo: perché ha conquistato i cuori e le menti dei bambini, naturalmente per il tramite dei loro scriteriati genitori e dei loro educatori, divenuti maestri della contro-iniziazione (ma non crederai mica alla favola di Babbo Natale, vero, alla tua età?). Una volta conquistati i bambini, il gioco è fatto: perché sono i bambini i custodi del mondo incantato della fantasia e dell’immaginazione, e, una volta espugnato quello per mezzo di giocattoli che non sono più tali, perché giocano essi al posto del bambino, la partita è vinta e non resta più nulla da fare, né da sperare.

Resta il fatto, imbarazzante e apparentemente contradditorio, della malinconia, della tristezza, della infelicità dilaganti, che riempiono le sale d’aspetto di psicologi e psichiatri, che offrono immensi dividendi alle industrie farmaceutiche, e che forniscono alla mala razza dei serpenti dal dente velenoso, i cosiddetti intellettuali, l’occasione di rifilare al pubblico le loro opere sbavanti nichilismo e disperazione, facendosele pagare profumatamente e dando quale unico contributo sociale un ulteriore accrescimento del senso di sconforto, di solitudine, di alienazione dell’uomo moderno, il quale di ben altre cose e di ben altri discorsi avrebbe bisogno, per risollevarsi dallo stato di prostrazione cronica in cui è caduto. Come mai l’uomo moderno, dopo aver messo se stesso al centro della scena, non è più felice dei suoi progenitori, i quali, rozzi e ignoranti, ottusi e superstiziosi, si auto-mortificavano e si auto-limitavano, ponendo sempre Dio al centro di tutto? Questa è la grande domanda, e attende ancora una risposta verosimile.

Ebbene: per tentare di rispondere, a noi sembra che la strada più semplice e naturale sia quella di ritornare, con la mente e coi ricordi, al mondo dei nostri nonni (dei nonni di quanti, oggi, non sono più tanto giovani), dal quale emerge un netto contrasto con lo stato d’animo oggi diffuso nella maggioranza delle persone. I nostri nonni facevano una vita assai più dura di quella attuale: consideravano normali dei sacrifici che apparirebbero, oggi, quasi inverosimili; erano mediamente più poveri, meno istruiti, meno protetti a livello sociale, sindacale, assicurativo, economico, medico: dovevano lottare con i denti per arrivare alla fine del mese, per mandare i figli a scuola (non necessariamente all’università), per fornire a loro ed a se stessi dei vestiti decenti, dei mobili, quattro pareti entro le quali organizzare la propria vita. Si concedevano ben pochi lussi e quasi nessun divertimento: il lusso di fumare, per alcuni, o di bere un bicchiere di vino all’osteria, per altri; qualche partita a carte, qualche passeggiata domenicale con la famiglia. E questo era tutto. Una vita che, oggi, ai più di noi apparirebbe insopportabilmente spoglia, disadorna, squallida. Eppure, essi erano sereni. Avevano il cuore in pace. Spesso le nonne cantavano, facendo i mestieri di casa; spesso i nonni fischiettavano, sbrigando il loro lavoro. Spesso sorridevano, scherzavano, coglievano l’aspetto umoristico delle situazioni. Ciascuno secondo il suo carattere, si capisce, e con le debite eccezioni: però, mediamente, il loro stato d’animo era tranquillo, non ansioso, non irrequieto, non nevrastenico. Le loro preoccupazioni, e Dio sa se ne avevano, non li mandavano in paranoia, non li turbavano in maniera visibile: accettavano quel che viene dalla vita, perché tutto viene da Dio. Credevano in Dio: e questo, secondo noi, era il segreto. La loro fede li sosteneva, li illuminava, li spingeva a trascendersi. Anche se era "solo" la fede semplice delle persone semplici, persone di poche letture e pochissimi studi. Niente televisione, pochi giornali, niente cinema o quasi; in compenso, la Messa alla domenica, il catechismo da bambini, i sacramenti, poi, vissuti con molta, molta serietà: e il senso del bene e del male scolpito nell’anima da una educazione severa, ma non arcigna, e stimolato dall’esempio vivente dei loro genitori. Coppie che duravano tutta la vita, matrimoni che sopportavano le tensioni e ne uscivano vittoriosi; figli che venivano cresciuti con sufficiente attenzione, anche se certo non tenuti sotto una campana di vetro. Figli che venivano preparati alla vita, che venivano sorretti dallo stile di vita dei genitori: laborioso, onesto, di molta sostanza anche se di poca apparenza. Niente consumismo; niente bei vestiti; pochissimi gioielli per le donne; molta modestia, molto pudore, molta sobrietà: gente di parola, che diceva Sì, sì, e No, no; gente senza retorica, senza troppe astuzie, senza infingimenti: schietta, sincera, perfino brutale, ma raramente perfida, raramente inaffidabile. Chi sbagliava, del resto, veniva severamente sanzionato; e per certi sbagli non c’era remissione. La società giudicava: forse in modo eccessivamente rigido, ma sostanzialmente giusto; di rado al ladro veniva concessa una seconda possibilità. Le persone pretendevano onestà assoluta: il commerciante disonesto perdeva i clienti, l’artigiano incompetente non aveva lavoro, la ragazza troppo facile non riceveva richieste di matrimonio. Era una società esigente, ma ciascuno si aspettava dagli altri ciò che faceva egli stesso.

Ci siamo chiesti il segreto di quella serena laboriosità, di quella tranquilla accettazione della vita, con le sue croci e i suoi dolori: e abbiamo trovato che, oltre alla profonda fede religiosa, e alla mancanza di quelle distrazioni e sollecitazioni artificiali che sarebbero poi venute con la marea del consumismo, una ragione consisteva senza dubbio nell’amore semplice per le cose belle e buone, nel buon gusto, nella frequentazione ideale con alti modelli d’arte e di pensiero. Ciò non richiedeva chi sa quali titoli di studio, chi sa quali conoscenze: era alla portata di tutti, o quasi. E il sistema sociale era fatto in modo da favorire questa sana richiesta intellettuale e culturale, mentre oggi è congegnato al preciso scopo di renderla impossibile, o di stravolgerla e indirizzarla verso mete discutibili, distruttive, che generano un ulteriore disorientamento e senso di frustrazione.

Le letture, per esempio. Nelle case delle persone comuni c’erano pochi libri, anzi, pochissimi: ma buoni. La Bibbia, la Divina Commedia, I promessi Sposi; più qualche libro di devozione, il Messale quotidiano. Ma erano stati letti e riletti, meditati, ponderati. Allo steso modo, la musica. Solo in poche famiglie c’era uno strumento, una fisarmonica, un violino, un pianoforte, di solito ereditato dai genitori o dai nonni; ma non stavano lì a far bella figura: venivano suonati, e, sovente, suonati con autentico sentimento, anche se non con perizia sopraffina. La gente del popolo amava la musica: la buona musica. Non la musica leggera, non i cantanti moderni; certo, poi sono venuti anche quelli: Beniamino Gigli, Luciano Tajoli, Nilla Pizzi. Le persone comuni sentivano la musica, specie la musica classica; erano naturalmente attratte dalla bellezza. Quando apparvero i dischi in vinile, nelle edicole si vendevano le serie dei grandi musicisti per un prezzo modico, insieme a dei fascicoli che, alla fine, avrebbero formato una specie di enciclopedia della musica.

Nel romanzo di Archibald Joseph Cronin La cittadella, vi è un rapido passaggio, forse sfuggito al lettore frettoloso, che apre una finestra illuminante su questo aspetto della vita dei nostri nonni, niente affatto forzato, ma che riflette fedelmente una realtà di fatto (da: A. J. Cronin, La cittadella; titolo originale: The Citadel, London, Gollancz Ldt, e New York, Little, Brown & Co., 1937; traduzione dall’inglese di Carlo Coardi, Milano, Bompiani, 1938, 1965, pp. 30-31):

… Era un bel pomeriggio di marzo. La promessa della primavera profumava la brezza che giuocava sui monti, dove tenere chiazze di verde sembravano sfidare a tenzone le brulle plaghe di cave e di scorie. Sotto l’azzurro cristallino del cielo perfino Blaenelly era ridente [il paesino di minatori ove la storia ha inizio, in una valle industriale del Galles meridionale].

Mentre si recava a piedi a visitare un malato che abitava in Riskin Street, all’altra estremità del villaggio, Manson sentiva il suo cuore palpitare all’unisono col risveglio della natura. Si era ormai acclimatato alla località, isolata e primitiva, sepolta tra le pieghe delle montagne, che non offriva la minima distrazione, nemmeno un cinematografo, nulla, fuorché la sua tetra miniera, le sue cave, le fonderie, la sua dozzina di cappelle e le sterminate file delle bieche casupole dei minatori. Ed anche alla popolazione, per quanto eccentrica, Manson si era affezionato. Salvo i pochi commercianti, i molti predicatori e i professionisti, tutti gli altri abitanti dipendevano direttamente dalla Società che eserciva la miniera. Al principio e alla fine di ciascun turno le silenziose vie del villaggio si animavano, echeggiando il rumore dei passi di tutto un esercito di sagome in marcia. Gli abiti, gli scarponi ferrati, le mani, e persino le facce dei minatori erano impregnati della polvere rossa dell’ematite. Gli operai delle cave portavano abiti di fustagno con ginocchiere mobili, e nel sedere rinforzi di cuoio fissi. I fonditori si riconoscevano dai pantaloni di traliccio blu.

Parlavano poco, e quasi unicamente in gallese. Nel loro distacco autarchico parevano una razza a parte. Però erano civili. Le loro gioie erano semplici, e le trovavano primariamente in casa, poi nelle cappelle, e finalmente sul campo di rugby. La loro passione predominante era forse la musica, ma non quella leggera oggi in voga, bensì la musica seria, la musica classica. Non di rado accadeva a Manson , la sera, passando nelle vie, di sentire, all’interno d’una rustica casetta, un pianoforte rendere con sentimento d’arte un preludio di Chopin o una sonata di Beethoven…

Ecco: quelle sonate di Chopin o di Beethoven, eseguite sulla tastiera da qualche moglie o figlio di minatore, che risuonavano per le strade delle piccola, dimenticata cittadina miniera del Galles meridionale, lontano da cinematografi e biblioteche, da grandi magazzini e locali alla moda, fra gente povera e incolta, erano la nota gentile che allietava le poche ore libere di quelle famiglie di lavoratori. L’idea che solo le persone che hanno ricevuto un’istruzione superiore, e, quindi, che appartengono a un certo livello sociale, possano apprezzare le cose belle, è un’idea reazionaria: strano a dirsi (ma forse neanche tanto), è, specie oggi, un’idea tipica della sinistra. Per un radical chic, quel pianoforte che suona nella città mineraria è un controsenso. Eppure è tutto vero. Vuoi vedere che i nipotini di Marx e Bakunin non hanno capito proprio niente della vera anima popolare?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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