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27 Ottobre 2016C’è stato un tempo, diciamo fino ad una, due generazioni fa, in cui la pudicizia, se non la castità, era un valore riconosciuto, insegnato e ammirato; e c’è un tempo, quello attuale, in cui si direbbe che non sia mai esistita, che nessuno ne abbia mai sentito parlare.
La pudicizia è qualcosa di diverso dal pudore. Quest’ultimo, secondo il Vocabolario Treccani, consiste in un «senso di riserbo, vergogna e disagio nei confronti di parole, allusioni, atti, comportamenti che riguardano la sfera sessuale»: definizione, peraltro, che non ci trova per niente d’accordo, perché tutta impostata in senso negativo, ossia come ciò che il pudore vuole evitare, suggerendo trattarsi di non altro che una mera forma di repressione psicologica, se non proprio di nevrosi. In ogni caso, il pudore ha a che fare con il riserbo circa la sfera sessuale: questo sì; anche se esso scaturisce da un giusto rispetto e da una legittima gelosia nei confronti di sé, del proprio corpo, della propria intimità.
La pudicizia — parola che sta scomparendo dall’uso, specialmente dal parlato, ossia che va scomparendo, se pure non è già scomparsa, dalla nostra lingua – secondo la stessa fonte, sarebbe più o meno la stessa cosa: ossia una «disposizione d’animo e atteggiamento caratterizzati da un forte senso di pudore, riserbo, vergogna, specialmente nei confronti di quanto riguarda la sfera sessuale»; sono quasi le stesse parole, e, senz’altro, gli stessi concetti. Noi, però, non la vediamo così; non è così che questa parola ci era stata insegnata, e non era questo il suo principale significato originario. Più che riserbo e vergogna, la pudicizia era una virtù attiva, consistente nell’avere cura e rispetto di sé, nel custodire il tesoro della propria intimità, nel non mostrare ad altri, per quanto possibile neppure inavvertitamente, la propria dimensione fisica, corporea, sentita come inseparabile da quella interiore e spirituale, e, dunque, preziosa come può esserlo la propria casa, cui non si apre la porta a chiunque, e si ha perfino cura di non lasciare spalancate le finestre, se vi è qualche cosa di privato, qualche cosa che non si ritiene debba essere vista dal primo curioso che passa per la strada, o che si affaccia dalla terrazza di fronte.
Insomma: impossibile capire il concetto di pudicizia, in una società che abbia smarrito completamente la nozione del rispetto di se stessi del proprio corpo non meno che della propria dimensione interiore; in una società, come lo è diventata la nostra, e nel giro di pochissimi decenni, se non di pochi anni, impudica e sfrontata, tanto per ciò che riguarda il corpo, quanto per ciò che attiene la sfera personale dei ricordi, dei sentimenti, delle emozioni, dei pensieri. In una società dove tutti mostrano tutto; dove non esiste più il senso della riservatezza; e dove il pudore non è una virtù, ma una nevrosi, una malattia da curare (affidandosi a quegli stregoni della magia nera che sono gli psicanalisti freudiani, evidentemente): ebbene, lì non ha più senso parlare di pudicizia, perché di essa non esiste più nemmeno il concetto. È diventata un oggetto alieno, un meteorite, una patetica fotografia ingiallita nell’album della nonna.
Ora, andare in spiaggia a mettersi quasi completamente a nudo, a qualsiasi età, donne incinte comprese, sposati e non sposati, è diventato perfettamente normale, e guai a obiettare qualcosa: sarebbe lo stesso che attentare ai sacri Diritti dell’uomo e del cittadino, solennemente proclamati da una umanità finalmente emancipata dal giogo secolare dei preti e dei biechi capi-famiglia, a danno delle donne, dei giovani e di tutte le minoranze, a cominciare da quelle sessuali. Anche andare per la strada, o in ufficio, o a scuola, e perfino in chiesa, con i pantaloni a vita bassa, mostrando il ventre e una bella fetta del sedere, nonché i bordi del minislip o del perizoma, o con una scollatura vertiginosa, mostrando il seno e l’assenza di reggiseno, è diventata la cosa più naturale del mondo; e guai a quei capiufficio, a quegli insegnanti, a quei preti, i quali osassero far notare a quegli (o a quelle) impiegati, studenti e fedeli, che, forse, non indossano l’abbigliamento più consono al luogo ove si trovano e alla funzione che stanno svolgendo: ne nascerebbe uno scandalo clamoroso, verrebbero coinvolti i sindacati e, probabilmente, gli avvocati e i tribunali; i presidi interverrebbero a censurare i professori sessuofobi, e i vescovi a rimproverare i sacerdoti troppo zelanti e all’antica. Tanto è vero che qualche giorno fa, a pochi chilometri da dove ci troviamo, un professore (maschio) è entrato in classe, a far lezione, indossando parrucca, minigonna e tacchi a spillo; ed è stato prontamente difeso dal suo dirigente scolastico, il quale ha affermato, testualmente, che, in fondo, costui non ha fatto altro che comportarsi secondo quei valori di "tolleranza" ed "inclusione" cui si ispira l’azione educativa della scuola stressa.
Ma non al semplice andare attorno seminudi, provocanti e sculettanti, si riduce l’odierna pratica della impudicizia; non ci sono limiti al narcisismo: bisogna che tutto il mondo sappia, che tutto il mondo veda. Ed ecco che si "postano" le fotografie sui social network, si fanno girare in rete, si "condividono" con centinaia e migliaia di "amici" (termine improprio con cui si designano centinanti e migliaia di estranei, coi quali si condividono, in rete, pettegolezzi ed esibizionismi d’ogni genere, magari a danno di qualcun altro). Ci si fa la foto da soli, il cosiddetto selfie, o ci si fa fotografare dal "compagno" o dalla "compagna", e poi subito, zac, la si schiaffa su Internet e ci si bea al pensiero che innumerevoli persone potranno ammirare la mamma incinta che mostra il pancione scoperto, la ragazzina dodicenne che si atteggia, in posa sensuale, a donna vissuta; ci si fa ritrarre con le labbra protese, il sedere in fuori, il seno al vento, oppure sdraiati nudi sul letto, sulla sdraio o sull’amaca, magari con i bambini piccoli, nudi anch’essi, accanto alla mammina o al paparino, col piselllino al vento pure loro, o con la "cosina" bene in vista, tanto sono creature, cosa volete, non c’è nulla di male. Se qualcuno pensa male, vuol dire che è un porco e un depravato; ma i genitori che sbattono i figlioletti, quelli no, non hanno ombra di malizia, fanno la cosa più bella e pulita del mondo, anzi, sono "simpatici" e "moderni".
C’è chi va ancora oltre; chi immortala, tutto fiero e soddisfatto di sé, e consegna alla rete, le pose più spinte, più hard, le situazioni più bollenti, compreso il sesso esplicito; e chi vi aggiunge frasi che vorrebbero essere spiritose, intelligenti, disinvolte, mentre sono, immancabilmente, senza eccezioni, di una banalità, di uno squallore, di una povertà intellettuale e morale assoluta, deprimente, paragonabile a un deserto ove non cada una goccia d’acqua da decenni o da secoli: l’acqua del buon gusto, della finezza, dell’intelligenza, o anche, solo e semplicemente, l’acqua del vecchio, sano, istintivo buon senso. Il buon senso: dove se n’è andato? Dove se n’è andato, se molti genitori non trovano di meglio che andare in discoteca e lasciare il figlio piccolo in automobile, magari al freddo, nel pieno dell’inverno; oppure se lo dimenticano nel calore dell’estate, tutti presi dalla loro febbre di vivere, dalla loro ansia di divertimento? Dove se n’è andato, quando dei genitori si portano il figlio piccolo nelle vacanze esotiche, in luoghi remoti e malagevoli, a fare escursioni nella giungla, su piste pionieristiche, dove un incidente è sempre dietro l’angolo: dei bambini di pochi anni, di pochi mesi, esposti alle fatiche, agli sbalzi climatici, ai rischi di ogni tipo che simili viaggi possono comportare, anzi, che necessariamente comportano?
E dove è finita la pudicizia, quando mogliettine sexy mettono sui social network le loro foto mentre abbracciano, poco vestite, e tutte vogliose e lubriche, i loro uomini, o dove uomini in costumi e pose adamitici proclamano e giurano eterno amore alle loro belle, sbandierando al mondo intero i loro sentimenti, esibendo i loro corpi, sforzandosi di imitare il tale attore o la tale attrice, di vestirsi (o svestirsi) come fanno loro, di tingersi i capelli come loro, di riempirsi di tatuaggi, di piercing, di anelli come loro, di depilarsi e di truccarsi come loro, di sorridere e ammiccare come loro, mettendosi di profilo come loro, protendendo le curve come loro, facendo le oche o i galletti, proprio come fanno loro?
Un capitolo a parte, che aiuta a capire come si sia giunti a questo punto, è quello della partecipazione ai programmi televisivi nei quali, anche se l’esibizione del corpo non c’entra, o è solo un aspetto secondario, in compenso quel che viene messo al centro e sbandierato è il segreto dei propri sentimenti. Programmi nei quali si va per rivelare le proprie storie di infedeltà, di tradimenti, di corna, di gelosie, di ripicche sessuali; o dove, "semplicemente" (si fa per dire), si mette in piazza il contrasto con la suocera, il litigio con il padre o la madre, il contenzioso con il fratello o con il figlio; e ci si affida a una giuria petulante, grossolana, pettegola e impudica (essa pure) per avere una "sentenza", chiamando degli estranei a giudicare ciò che dovrebbe restare intimo, ciò che, semmai, si dovrebbe risolvere nelle sedi adatte, con il minimo del clamore e della pubblicità possibili.
Non meno impudichi sono quei programmi dove ci si incontra e ci ritrova dopo anni di lontananza; dove ci si abbraccia, ci si riconcilia, ci si bacia, o, al contrario, dove si proclama all’altro il proprio rancore, il proprio risentimento, il proprio odio; dove si dà spettacolo del proprio mondo interiore, dei propri sentimenti più intimi, dove li si mette in piazza, li si grida dall’alto dei tetti, li si accompagna con squilli di trombe e suono di campane; e dove si chiamano a testimoni di quel che si prova delle persone del pubblico, le quali, a loro volta, non han di meglio da fare che improvvisarsi giudici e avvocati, puntare il dito contro questo o pigliare le difese di quello, il tutto con la dignità dei pescivendoli e con la competenza dei carrettieri del buon tempo antico, trasformando in kermesse, in chiassata, in spettacolo da osteria o da taverna, quelle situazioni e quei rapporti umani i quali solo nel silenzio e nel ripensamento critico di se stessi potrebbero trovare, forse, uno spiraglio di soluzione, una schiarita di buona volontà, un serio proponimento di ricominciare e di ripartire, ma questa volta con il piede giusto.
L’ultima novità in questa sagra oscena del narcisismo e dell’esibizionismo sono quei programmi serali, nella fascia oraria che precede di poco quella di massimo ascolto: programmi in apparenza sommessi, nei quali coppie e famiglie aprono le porte di casa alle telecamere e raccontano i casi della loro vita, con dovizia di particolari, senza nulla di piccante o di volgare, ma senza omettere niente del loro passato e del loro presente, narrandone ogni dettaglio, come se non vi fosse niente di più interessante, al mondo, per il pubblico che guarda da casa: Questo tipo di programmi sono riservati alle televisioni "serie", socialmente e politicamente "impegnate", le quali, di solito, trattano i problemi della società, dell’integrazione, dell’accoglienza, della solidarietà, della condivisione, e chi più ne ha, più ne metta. Ebbene, non esistiamo ad affermare che programmi di quotidiana intimità familiare, nei quali si narra la vita di persone qualsiasi, con la stessa esibizione di dettagli che se si trattasse di divi dello spettacolo, sono, in un certo senso, perfino più repellenti di quelli nei quali la volgarità è esplicita, nei quali la cialtroneria è scoperta e l’ostentazione non conosce freni inibitori: perché sono pervasi da un più sottile narcisismo, il quale, per il fatto di essere dissimulato nelle pieghe della "normalità" e della "quotidianità" (come se fosse una cosa normale raccontare e mostrare a milioni di persone le cose più segrete e personali di sé e dei propri cari), è, se possibile, ancora più cialtrone, ancora più perverso che negli altri.
Infatti, quando l’impudicizia entra, sussurrando dolcemente, e ammiccando con aria innocente, anche nell’immaginario delle "brave" persone, serie e posate, socialmente sensibili e impegnate, quelle, per intenderci, che a un film hollywoodiano in televisione, preferiscono una inchiesta sull’ultimo scandalo politico o finanziario; quando questi bravi ometti e queste brave donnine ci mostrano le foto dei loro figli e nipoti, ci spiegano come, quando e dove si sono conosciuti, si sono scambiati il primo bacio, la prima promessa d’amore: quando vi verifica tutto ciò, ebbene, è proprio allora che la volgarità e il narcisismo hanno raggiunto il trionfo definitivo e incontrastato: perché essi non vengono più percepiti come tali, gli anticorpi non "riconoscono" più i virus, le guardie non si accorgono che a entrare nel palazzo non sono i normali inquilini, ma dei malintenzionati con tanto di mascherina, piede di porco e sacco per la refurtiva.
L’ultima barriera fra il pubblico e il privato è definitivamente caduta; e, con essa, l’ultimo velo che ancora ci proteggeva, anche se ormai sempre più precariamente, dagli schermi giganteschi e onnipresenti del Grande Fratello. Il Grande Fratello siamo diventati noi: siamo noi, noi tutti, e perfino i più quieti, i più modesti, i più abitudinari e i più alieni dalle pose e dalle ostentazioni. Ormai le pose e le ostentazioni non vengono più percepite come tali; anche il comportamento più impudico e narcisista appare "normale" e assolutamente inoffensivo. Se tutti si stanno trasformando in rinoceronti, si chiedeva Eguène Ionesco nella celebre commedia, chi mai riuscirà a difendere la propria umanità, a rimanere fedele a se stesso? Se tutti cadono in estatica ammirazione del bestione, del suo "meraviglioso" corno, come si farà a rimanere umani? Solo un Dio, ormai, ci può salvare….
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels