
In che lingua predicava padre Marco d’Aviano, visto che lo capivano genti diverse?
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Ma di quell’albero non devi mangiare i frutti
22 Settembre 2016Siamo al crepuscolo della nostra civiltà, ma dobbiamo tener viva la fiamma per i nostri figli

La nostra civiltà — non la civiltà in generale: la civiltà occidentale moderna — è avviata decisamente al capolinea, in tutti i sensi: biologico, intellettuale, economico, politico, culturale, spirituale, morale, religioso. I segni sono evidenti, per chi li vuol vedere: sono le culle vuote, il trionfo dell’edonismo e dell’individualismo esasperati, della logica del profitto che divora se stessa, dell’esaltazione del vizio e della turpitudine, della dittatura del relativismo e delle minoranze aggressive e rancorose; e poi il disamore di se stessi, la perdita della socialità e del senso civico, la denigrazione sistematica del bene, il rifiuto e il disprezzo della virtù, il gusto morboso della morte e dell’autodistruzione, la disperazione mal dissimulata e spinta fino al sadismo e al masochismo collettivi, magari mascherati da un buonismo all’ingrosso, da una "accoglienza" illimitata nei confronti dell’invasione dei cosiddetti migranti e dei cosiddetti profughi, da un segreto desiderio di essere sottomessi, vinti, umiliati.
Stiamo raccogliendo i frutti di ciò che abbiamo seminato, di ciò che le nostre classi dirigenti e i nostri cosiddetti intellettuali hanno seminato a piene mani, indisturbati e, anzi, applauditi e osannati, per più di due secoli, in particolare dall’illuminismo in poi. Abbiamo seminato l’odio e il disprezzo di noi stessi, il rifiuto della nostra civiltà, e ci siamo prostrati davanti a idoli barbarici e selvaggi, come il denaro e il potere, oppure freddi e implacabili, come la scienza e la tecnica, e abbiamo gettato nel cestino della carta straccia la parte più viva e più bella della nostra tradizione: il cristianesimo, la famiglia, la patria, l’etica del lavoro e del risparmio, il senso della bellezza, il senso della socialità, il rispetto della persona umana, il valore dell’incontro e dell’arricchimento reciproco fra l’uomo e la donna, l’amore dei bambini, l’ammirazione per gli anziani e per la loro saggezza, il riconoscimento dell’esperienza quale scuola di vita, l’apprezzamento della cultura, dell’intelligenza, l’esercizio della libertà come elemento di rafforzamento del corpo sociale oltre che come diritto dell’individuo. Abbiamo gettato via questi valori preziosi, elaborati nel corso di secoli, in cambio di un piatto di lenticchie, per giunta avvelenate: il consumismo, il materialismo grossolano, la smania di apparire anziché di essere, la servitù del conformismo, l’appiattimento come forma malintesa di uguaglianza, l’omologazione come cattivo travestimento della giustizia e della solidarietà, l’edonismo sfrenato che riduce al livello delle bestie, il giovanilismo stupido, l’arrivismo cialtrone, il carrierismo fine a se stesso, l’adorazione delle novità, l’idolatria del progresso, la divinizzazione delle macchine, la smania sacrilega di manipolare la natura e la stessa persona umana.
Che cosa ci rimane? Ben poco; quasi nulla. Oggi le intelligenze sono spente, il senso critico è addomesticato, il pensiero unico impera incontrastato; e i giovani, cresciuti in una simile palude morale e intellettuale, non potendo fare alcun confronto con le generazioni precedenti, perché la civiltà dei consumi, consuma in fretta ogni cosa, anche la memoria, vivono come cosa del tutto naturale l’odierno sovvertimento ogni valore e la contraffazione diabolica della stessa natura umana, anzi, ritengono – come vien loro fatto credere – di vivere in tempi fortunatissimi, nei quali è possibile assistere, dopo secoli e millenni di oppressione e d’ignoranza, al trionfo glorioso della cultura dei diritti per tutti e senza alcun limite. Traditi dalla generazione che avrebbe dovuto prepararli e formarli per la vita adulta, i giovani di oggi vagano nella confusione più totale, e sono fin troppo bravi a non aver smarrito del tutto la strada, avendo avuto simili maestri.
La stessa sopravvivenza della specie umana è messa in forse dall’uso e dall’abuso di una scienza diabolica, che ha forgiato, sia per la guerra che per la pace, strumenti di potenziale distruzione così potenti, da ipotecare il futuro delle prossime generazioni per decine di migliaia d’anni (ad esempio, con la radioattività); e che ha provocato, con le sue distorte ed egoistiche applicazioni, immensi danni all’ambiente, alla vegetazione, alla fauna, aprendo un pericoloso "buco" nello strato di ozono dell’alta atmosfera, che ci espone alle nocive radiazioni ultraviolette, e, probabilmente, ha innescato anche un cambiamento climatico i cui effetti sono difficilmente valutabili al presente, ma che, in un futuro non lontano, potrebbero rivelarsi disastrosi.
Questo aspetto della nostra crisi attuale, ossia la rottura dell’equilibrio ambientale, è stato peraltro enfatizzato e, in gran parte, isolato dal suo naturale contesto, quasi che si trattasse di un problema eminentemente tecnico, e che, con dei mezzi tecnici adeguati, lo si potesse riportare sotto controllo; mentre invece è chiaro che si tratta di una delle manifestazioni di uno squilibrio assai più profondo, che si riflette nel rapporto con il nostro pianeta, ma che ha origine dentro di noi, da una frattura che si è originata all’interno del nostro stesso io; e che anche quest’ultima altro non è, in effetti, che il riflesso di un’altra frattura, quella determinatasi fra noi e Dio, al quale abbiamo voltato le spalle, decretando, così, anche il nostro stesso male. L’uomo è una creatura naturalmente religiosa: creata da Dio a sua immagine e somiglianza, ha la nostalgia di Lui fin nelle pieghe più riposte del suo essere; negando questa relazione, calpestando e disprezzando la dimensione soprannaturale della vita, l’uomo moderno ha operato una tragica lacerazione in se stesso e si è estraniato dalla sua parte migliore, consegnando il proprio essere agli istinti e agli impulsi più bassi che albergano in lui: la superbia, la cupidigia e la lussuria, dei quali si è fatto schiavo, credendo di essersi fatto il signore di se stesso.
È necessario notare che solo la nostra civiltà, la civiltà occidentale moderna, sta vivendo questa vera e propria nemesi, originata dall’odio di se stessa. Le altre civiltà non si trovano affatto nella stessa situazione: né quella islamica, né quella cinese, né quella indiana; d’altra parte, la civiltà occidentale moderna ha imposto il proprio modello economico, politico e culturale nei quattro angoli dell’orbe terracqueo, così come la propria tecnologia, la propria scienza e la propria idea di progresso, per cui anche le altre civiltà, che pur non soffrono una crisi paragonabile alla nostra — e basta dare un’occhiata agli indici di natalità per rendersene conto — subiscono tuttavia anch’esse, in misura maggiore o minore, i riflessi e i contraccolpi della nostra crisi attuale. Per lo più, esse tendono a reagire con un moto di ribellione contro di noi e contro i nostri modelli, specialmente a livello politico, culturale e religioso; ma è evidente che, a livello scientifico, tecnologico e, alla lunga, anche a livello sociale, esse hanno subito e continuano a subire l’influenza e l’ascendente dei nostri modelli, e continueranno a subirla, in misura molto maggiore di quanto esse vorrebbero ammettere o di quanto siano disposte a rendersi conto. Perché, se dovessero ammettere che si stanno ribellando contro un modello culturale che esse detestano, ma dal quale sono segretamente attratte (edonismo, consumismo, individualismo egoistico, cultura dei diritti a senso unico, per non parlare della libertà sessuale), probabilmente sarebbero costrette a prendere atto di quanto sia velleitaria la loro rivolta, e di come esse, di fatto, siano candidate a ereditare, nel bene e nel male, la nostra civiltà, che pure vogliono soppiantare e, se possibile, distruggere completamente.
E adesso, che fare? Benché l’attuale generazione di mezzo porti sulle spalle gran parte della responsabilità del crepuscolo che sta scendendo sulla nostra civiltà, sarebbe troppo comodo tirare i remi in barca e stare a guardare quel che succederà, ossia la cronaca di un naufragio annunciato. C’è un’ultima cosa, dignitosa e doverosa, che la generazione di mezzo può e deve fare, prima di uscire di scena: tenere almeno accesa la fiamma, a dispetto del vento di bufera che sta per scatenarsi su di noi, in modo da fare un po’ di luce per rischiarare i passi delle nuove generazioni, in modo che non si trovino a dover ripartire completamente al buio. Fuor di metafora: ognuno deve rimanere al suo posto; ciascuno si deve assumere le sue responsabilità: abbiamo il dovere di assicurare ai nostri figli almeno una base minima su cui posare il piede e da cui partire per la ricostruzione, che sarà compito loro, ma che non possono iniziare a mani nude, senza neppure pale e picconi, cioè senza quel poco di esperienza, di onestà e di buon esempio che, forse, possiamo ancora dare.
La nostra generazione, quella che oggi è adulta, ha figli grandicelli e, in qualche caso, dei nipotini, deve onorare almeno questo debito con la nuove generazioni: trasmettere loro il pochissimo capitale che ancora possiede di saggezza, di laboriosità, d’intelligenza, o di semplice buon senso, e lasciarlo in eredità, dopo che ha dissipato follemente la maggior parte di queste virtù nell’inseguimento del miraggio consumista. E quel misero capitale è, anch’esso, per la maggior parte, eredità ricevuta dai nonni, da coloro che oggi hanno ottant’anni e più o che ormai sono morti: gente di un’altra tempra, uomini e donne che hanno costruito qualcosa di duraturo, perché non era fondato sui gingilli del consumismo e sui ninnoli della tecnologia, ma sulla serietà morale, sul valore della famiglia e sul senso religioso della vita. Essi avevano edificato le loro case sulla roccia; noi le abbiamo costruite sulla sabbia: ai nostri figli e nipoti toccherà il durissimo compito di ritrovare il terreno solido, ma faranno fatica prima di riuscirci, perché abbiamo fatto del nostro meglio per seppellirlo sotto montagne di scorie e spazzatura.
Noi siamo la generazione del crepuscolo: abbiamo fatto le nostre scelte, abbiamo sbagliato e ora dobbiamo pagare il conto. Ci resta però il dovere di evitare, per quanto possibile, che quel conto lo debbano pagare, e in misura esorbitante, quanti non ne hanno colpa, perché non furono essi a contrarlo, ma sono stati, al contrario, le prime vittime della nostra imperdonabile leggerezza e della nostra criminosa incoscienza. Ora sta venendo avanti una nuova generazione, che potrebbe essere quella dell’aurora: l’aurora del nuovo giorno che verrà, forse, ma che noi non vedremo, perché noi siamo destinati a concludere la nostra esistenza terrena nel buio della notte che noi stessi abbiamo reso così fitto e minaccioso. Sarebbe la nostra ultima colpa, e la più imperdonabile, se, nel passaggio della staffetta, non facessimo di tutto per attenuare il peso dell’eredità negativa che stiamo trasmettendo ai giovani, e per dare ad essi tutte quelle informazioni, tutti quegli esempi, tutti quei suggerimenti che potrebbero aiutarli a procedere nella semioscurità, prima che riescano, per proprio conto, a trovare il modo di accendere un gran fuoco, alla cui luce e al cui calore attendere il ritorno del nuovo giorno. Almeno questo, lo dobbiamo loro; siamo stati dei cattivi maestri e delle pessime guide: cerchiamo almeno di chiudere in bellezza, uscendo, per una volta, dal nostro egoismo e facendo qualcosa di bene per essi — in maniera disinteressata, una volta tanto; forse per la prima volta nella nostra vita.
Una conclusione dignitosa può riscattare molti errori e molte colpe. Finora abbiamo dato una immagine penosa di noi stessi ai nostri figli (s’intende, "noi" come generazione, ma sempre con le debite eccezioni): ora abbiamo l’occasione di chiudere in bellezza, di lasciare un ricordo non del tutto ingrato e di offrire alle nuove generazioni qualcosa di durevole da conservare: l’immagine dei loro padri e delle loro madri che si impegnano per rimediare ai guasti da loro stessi provocati, e per dare ai giovani una chance per il loro domani. La prima cosa che potemmo e che dovremmo fare, sarebbe un solenne mea culpa collettivo per le follie cui ci siamo abbandonati, non solo al livello della vita privata, ma anche a livello sociale e collettivo. Dobbiamo chiedere scusa per l’offesa recata alla legge morale naturale, oltre a che a quella divina (ma a quella divina molti non credono, mentre alla legge naturale dovrebbero inchinarsi tutti). L’aborto, praticato, in questi anni, su milioni di nascituri, e l’eutanasia, che in alcuni Paesi d’Europa è ormai legge anche nei confronti dei minorenni, sono solo due delle manifestazioni più clamorose, e più turpi, della deriva relativista che abbiamo imboccato, e in cui si manifesta la nostra durezza di cuore: proprio mentre ci mostriamo così solleciti, ma soprattutto a parole, per i diritti e per la difesa dei più deboli, compresi gli animali, e dei più poveri, ma quasi esclusivamente se provengono da molto lontano — perché, in caso diverso, non li vediamo neppure e non ce ne diamo tropo pensiero. Abbiamo edificato una società invivibile, dominata dall’egoismo, dalla dissolutezza, della rabbia e dalla paura; ai nostri figli toccherà il difficile compito di umanizzarla nuovamente, di renderla di nuovo a misura d’uomo. Sarà un lavoro duro. Bisognerà, ad esempio, trasformare le nostre città da luoghi di alienazione, solitudine e bruttezza, quali sono attualmente, in luoghi dove i bambini possano crescere bene, gli adulti possano lavorare in pace, e i vecchi andare serenamente verso il loro destino. Che sarà un destino eterno, come per noi, anche se ce ne siamo scordati. Perché il destino dell’uomo è Dio, come lo è la sua origine: e, senza di Lui, siamo condannati ad una esistenza miseramente mutilata…
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