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Orazio, falso maestro di saggezza, ignora l’arte di vivere perché disprezza la donna

Non è un maestro di saggezza, Orazio, anche se vorrebbe passare per tale; del resto, neppure lui crede troppo alla veste di filosofo che indossa, tanto è vero che non si preoccupa di nasconderci le sue debolezze e i suoi turbamenti, anzi, se ne compiace addirittura. È come se dicesse ai suoi lettori: Ecco, vedete come si dovrebbe fare? Io, però, non ne sono capace. Voi fate come vi dico, ma non fate come faccio.

Strano uomo, personalità contorta; altro che vita semplice, altro che poeta senza troppe pretese: la sua è una personalità complicata, perfino bipolare, schizofrenica, se mai ve n’è stata una. Solo Petrarca arriva ai suoi livelli di sdoppiamento; ma, se non altro, con una maggior consapevolezza di sé, pur se con una presunzione non minore della sua. Petrarca, però, ha un vantaggio: è cristiano, viene da una educazione cristiana e vive in una società che è cristiana da un millennio. Il cristianesimo, fra le altre cose — molte altre, ma non è questa la sede per dilungarci su ciò — ha insegnato agli uomini il vero amore e il rispetto profondo per la donna. Le femministe non hanno mai considerato questo aspetto: hanno sempre accusato la religione cristiana, e particolarmente la cultura cattolica degli ultimi secoli, di avere represso, sottomesso e disprezzato la natura femminile. Errore grossolano: se la condizione femminile è, oggi, quella che è, ciò lo si deve alla nuova idea della donna che il cristianesimo ha introdotto. Prima, il mondo antico era intimamente maschilista e, salvo eccezioni, non aveva alcuna considerazione per la donna in ciò che essa ha di specificamente femminile: la dolcezza, la pietà, la compassione, la maternità, la custodia delle virtù familiari. Le società antiche sono società guerriere e tutte, comprese la greca e la romana, vedono il maschio come il vero rappresentante della razza umana, la donna come un’appendice necessaria (per la riproduzione, non per l’amore), talmente imperfetta da rendere assurda qualsiasi idea di un rapporto paritario, anche solo sul piano affettivo e sentimentale. La donna deve stare al suo posto, perché è intrinsecamente inferiore all’uomo: e questo è tutto.

L’idea di una intrinseca dignità femminile, anzi, di una potenziale superiorità femminile, se la donna sa essere all’altezza del richiamo superiore della sua stessa natura, è una idea cristiana: prima non esisteva. Il culto della Madonna rappresenta il punto più alto e la manifestazione più appariscente di questa nuova idea; e ciò che da esso si riverbera sono la maestà, la grandezza, la nobiltà della missione femminile nel mondo. Del resto, l’idea di una missione da compiere nel mondo, sia per le donne che per gli uomini, è, anch’essa, una idea cristiana: gli antichi non ce l’hanno. Si legga Omero, si legga qualsiasi poeta greco o latino, Virgilio compreso: si viene al mondo per la gloria, o per assolvere a un dovere; poi si scende nell’Ade, avvolti nel gran buio dell’eternità. Altro non è dato sapere, e il ricordo ben presto svanirà. Il destino umano, apprendiamo dal dialogo fra Glauco e Diomede sotto le mura di Troia, assomiglia al ciclo della natura: le generazioni umane si succedono come il fogliame degli alberi, che cade in autunno e più non risorge, ma viene sostituito, a primavera, dalle foglie nuove; e così via, perennemente.

Dunque: Orazio non vede la donna nella sua bellezza, nella sua delicatezza, nel suo mistero: la vede come oggetto del suo piacere, se pure la vede; ma, in generale, si direbbe che non la veda neppure. Nelle sue numerosissime poesie, non incontriamo neppure un ritratto di donna che ci resti impresso: pochi nomi, pochi volti, nessuna durevole impressione nell’anima del poeta — figuriamoci in quella del lettore. Le donne di Orazio passano sullo sfondo, in punta di piedi, come serve, come sguattere; non lasciano tracce dietro di sé, nemmeno il profumo delle loro vesti, nemmeno un riflesso del loro sorriso. Anche perché non sorridono; tutt’al più, il loro volto si deforma nella smorfia, senza poesia, senza delicatezza, come quello delle cagne in calore. Il trucco cola loro dalla fronte, le carni sono avvizzite e rugose, le parti intime mandano cattivo odore: un quadro orribile, nauseante. E non c’è neppure ombra di uno scambio d’intimità o di confidenza, per non parlare di complicità o di amicizia, in quegli incontri frettolosi e fuggevoli, piuttosto sordidi, ridotti sostanzialmente a sfoghi della tensione sessuale. Egli le usa, le getta e le dimentica: neppure una è rimasta nel suoi pensieri, neppure una ha lasciato un’ombra di rimpianto e di nostalgia nel suo cuore. Del resto, per lui lo sfogo sessuale è fine a se stesso: che si eserciti su una donna adulta, o su di una servetta, oppure sopra un ragazzino, per lui si direbbe che faccia lo stesso: non c’è differenza, l’importante è liberarsi d’un molesto impulso fisiologico, più o meno come si va in gabinetto a sgravare il peso del ventre, o della vescica; e poi tornare ad essere padrone di se stesso, pienamente, "filosoficamente". E il bello è che osa presentare questa condizione di semi-vivo, ipocrita e formalista, ma anche ambizioso e narcisista, che ama le lodi più di quanto gli vada di ringraziare i suoi anfitrioni, con il nome di "dignità". Non sarebbe dignitoso, dice, corteggiare o sedurre la matrone, e poi farsi sorprendere dal marito, nudo come un verme. Guarda dove si può andare a mettere il concetto della propria dignità. In privato, però, va bene tutto: perfino copulare con la vecchia oscena e ninfomane, che sfonda il letto nel furore del coito, come un animale; oppure con una fanciulla o con un ragazzino della servitù: vecchiaia o giovinezza, maschi o femmine, sono solo delle valvole di sfogo al turgore del desiderio. Tristezza infinita spacciata per autocontrollo, persino per moderazione, per arte di vivere attimo per attimo; squallore caratteristico del mondo antico, che non conosce la stima per la donna, l’amicizia per la donna, il mistero della donna.

Orazio, pertanto, è un uomo stranamente mutilato: perché un uomo che non abbia mai provato il fascino della donna, che non ne sia stato rapito neppure una volta, è un uomo a metà; ciononostante ha l’ardire di atteggiarsi a maestro di saggezza, ma anche la civetteria, o la sfrontatezza, di mostrarci le sue segrete pecche, le sue inconfessabili pulsioni. Non si capisce bene cosa voglia essere per il suo pubblico, a chi si rivolga; e neanche cosa pensi di se stesso. È sicuramente un frustrato e un nevrotico, che ha paura della vecchiaia e della morte, e che tenta maldestramente di esorcizzarla, di nascondere la sua angoscia e la sua infelicità dietro il velo trasparente di un ironico sorriso. Ma di che sorride, Orazio? Dello spettacolo semiserio della vita, o di se stesso, delle sue contraddizioni? Non lo si capisce bene; forse di entrambi: ma è quasi certo che questa ambiguità gli piace, gode di tenere il lettore nell’incertezza. È la sua arma segreta: l’arma di chi avrebbe fin troppe cose da dire, come anche di chi non ha dire nulla.

Ha osservato il romanziere, saggista e giornalista Renato Ghiotto (Montecchio Maggiore, Vicenza, 1923-Malo, Vicenza, 1986), nel suo saggio introduttivo a: Orazio, Tutte le opere, Roma, Newton & Compton, 1992, pp. 9-11):

… Per aver predicato precetti di moderazione e per aver esortato a non trascurare l’attimo presente, fu ritenuto un maestro dell’arte di viver, cime se egli stesso non descrivesse più volte gli affanni a cui la sua instabilità e la sua inquietudine lo conducono. Orazio viveva, non sapeva vivere. Era cioè incerto e tormentato come la maggior parte degli uomini sensibili. Arginare le passioni è spesso irritante; rinunciare al superfluo per essere autosufficienti non è sempre un’allegria, né c’è molta eccitazione nel tenersi nel giusto mezzo, a parte la difficoltà anche geometrica della posizione.

Spesso viene ritenuto calmo chi domina la sua ora; continente, se non casto, colui che non vive nei bordelli o non fa la corte alle signore sposate, accontentandosi delle ragazze squillo (che c’erano anche a Roma) o degli schiavetti e delle serve di casa. Orazio è calmo e casto a questo modo; più che tenersi nel mezzo, oscilla dentro i limiti di una zona permissiva che misura con larghezza a se stesso. Anche la sua libertà interiore resiste come può alle offese del paternalismo. Mecenate, a volte, lo invita a cena al’ultimo minuto; e lui corre lo stesso, Lo ostenta nella sua galleria di intellettuali e di poeti augustei e lui non si può tirare indietro, dicendo che è di un’altra parrocchia. Poi tocca lodare e ringraziare, non solo in pubblico ma per iscritto; l’obbligo della gratitudine non finisce mai. […]

Orazio capisce che nella sua scalata sociale ha raggiunto il massimo e che essere tra i famigli di Augusto significherebbe per lui un passo indietro piuttosto che avanti. Non gli piace il potere: intuisce che deve restare libero quanto basti perché, avendo egli da tempo deciso di venire a patti, anche il potere debba costantemente patteggiare con lui. A suo modo, con falsa modestia, vuol essere corteggiato senza dare in cambio niente di più che una cortese astensione, una calorosa neutralità.

Il segreto cruccio del poeta deve essere quella qualità che gli manca, la grandezza., e che lo costringe a lodare le virtù mediane, la moderazione, l’arte di accontentarsi, la capacità di non farsi notare troppo. Esalta, di conseguenza, il decoro, la dignità, arti di difesa psicologica che accontentano il sentimento di sé, che in lui era vivo e geloso, e allontanano i termini d confronto con gli altri. Inorridisce al pensiero di essere sorpreso in flagrante adulterio, magari nudo, col culo per aria, allo stesso modo che aborre l’idea di passare alla posterità con la fama di servo del principe.

I successivi aggiustamenti con cui egli riesce a comporre il compromesso tra Mecenate e la poesia, tra Augusto e la libertà filosofica, sono in gran parte sconosciuti, ma si ha l’impressione che non siano stati ottenuti con vere e proprie trattative tra gli interessasti. […]

Egli doveva aver fatto la sua scelta molto tempo prima, un giorno della lontana gioventù. Era pronto a fare ogni ragionevole sforzo pur di uscire dal grigio, dalla provincia, dal volgo che non ha nome. Non lo tormentava nessuna sistematica astrazione, filosofica o religiosa; ugualmente astratta doveva sembrargli la passione per la gloria militare o per quella politica. A suo modo era davvero uno che si accontentava: voleva l’agiatezza, la notorietà, la famigliarità con i grandi, non la ricchezza, la fama universale, il potere. La via per arrivarci esigeva lavoro e duttilità, ma la poesia era anche un gioco compositivo, e il piacere di esprimersi lo avrebbe compensato della fatica. Spuntare, arrivare; voleva vivere, essere all’onor del mondo. Riceveva doni, poiché a quell’epoca non esistevano i diritti di autore, ma non ne era imbarazzato. Dignità, falsa modestia, apparente semplicità; a sentir lui sembra che Mecenate gli facesse regali solo perché lo giudicava una brava persona.

Piace ad Orazio ritenersi un uomo alla buona, un saggio minore, di complemento; ma come poeta sa di non essere così alla mano. La sua è una poesia per pochi: colta, di un’originalità elaborata e come spremuta da esperienze culturali precedenti. Molta parte del piacere degli intenditori, nel leggerla, risiede nell’incantamento delle parole, la cui collocazione nel verso diventa rapporto obbligato e funzionale, struttura e significato…

Orazio somiglia molto a Petrarca; condivide con lui sia la mal dissimulata ambizione, il piacere di primeggiare e di essere ammirato, sia la strana pretesa di ricevere tutto gratis, come omaggio dovuto, anche se darebbe la mano destra pur di ottenere quelle distinzioni. La differenza sta nel rapporto con i rispettivi protettori, e cioè nel diverso momento storico in cui vissero: nel caso di Petrarca, la bilancia pende a suo favore, tanto che i signori italiani fanno a gara per averlo presso di loro, se lo contendono, lo corteggiano in maniera smaccata; Orazio ha a che fare con un solo protettore, che è anche il padrone del mondo: Augusto; e con il suo tirapiedi nell’ambiente culturale, Mecenate: entrambi abbastanza intelligenti e generosi da non far pesare troppo il potere che detengono, ma non fino al punto di non chieder nulla in cambio. Lo spirito cortigiano, però, è in entrambi, sia Orazio che Petrarca: entrambi farebbero qualsiasi cosa e accetterebbero qualunque compromesso, pur di vedersi riconosciuto il ruolo di principi dei poeti; tuttavia sono abbastanza fortunati da vedersi risparmiata l’umiliazione dell’omaggio troppo esplicito al padrone.

Certo, Petrarca è afflitto da una problematica interiore molto più ricca e profonda, da un autentico travaglio spirituale, anche se non esita ad enfatizzarlo e a drammatizzarlo ad uso della sua poesia, costruendo l’immagine di un poeta innamorato e infelice, perpetuamente travagliato da rimorsi e da rimpianti. Orazio è molto più brutale nella sua ostentazione di cinica indifferenza, appena mascherata da distacco epicureo; distaccato, però, non lo è affatto, e neanche abbastanza generoso da non infierire: quell’invito a bere e a ballare sul cadavere ancora caldo di Cleopatra è semplicemente ripugnante; s’intuisce, del resto, che, se a vincere la guerra civile fosse stato Antonio, o, prima di lui, se fossero stati Bruto e Cassio, egli non avrebbe esitato a brindare e a ballare sul cadavere di Ottaviano. Per quello che gliene importava.

Questa è la cifra più autentica dell’animo di Orazio, e anche della sua poetica: un egoismo feroce; un’ambizione sfrenata ma, allo stesso tempo, dissimulata; una totale mancanza di linearità, di coerenza, di disponibilità ad accettare le conseguenze delle proprie scelte. Orazio appartiene alla razza di coloro che pretendono di cadere sempre in piedi, qualunque cosa accada, di avere sempre un paracadute, di disporre di una uscita di sicurezza. Appartiene alla razza di coloro che non sanno amare profondamente, anzi, che non sanno amare affatto, niente e nessuno: né un’idea, né una persona. Amano solo se stessi. Come ha osservato giustamente Renato Ghiotto, non c’è grandezza in un animo simile. E questo, senza dubbio, è stato il cruccio segreto di Orazio: non per la nostalgia di essere un uomo migliore, ma per il rammarico di non poter essere un grande poeta. Non potendo essere un grande, ha codificato la filosofia dell’aurea mediocritas, cioè ha tentato di abbassare tutto il mondo al suo livello. Brutta razza.

Incapace com’è di guardarsi dentro per davvero, anche se ostenta spesso di saperlo fare, Orazio non arriva mai a intuire quel che gli manca veramente:, ossia quel che fa uomo l’uomo, sino in fondo: l’amore per qualcosa o per qualcuno, e la capacità di soffrire e di sacrificarsi per esso. Orazio non ama niente, tranne se se stesso: ma la brama di successo, che ne è l’immediata conseguenza, non basta a riempire gli orizzonti di una vita intera. Perciò, come poeta, si ripete, e finisce per diventare stucchevole. Non basta sorseggiare del buon vino caldo e guardare, da dietro la finestra, i monti bianchi di neve, per essere dei maestri di saggezza; la saggezza, Orazio, non sa proprio cosa sia, dal momento che non ha mai appreso l’arte di spogliarsi, e sia pure per un poco, del proprio ego ipertrofico, debordante, ossessivo. È stato molto amico di Virgilio, ma non ha ricevuto neanche un’ombra del suo afflato religioso, della sua nostalgia di assoluto: è rimasto un uomo piccolo, che non sa aprirsi, che non sa donarsi, che non sa parlare mai d’altro che di sé. E questo è l’indice sicuro di una vita sbagliata: l’assoluta incapacità di far agire su di noi l’influenza positiva di chi è migliore di noi. Per farlo, bisogna sapersi fare piccoli, almeno qualche volta; e non per gioco, ma sul serio. E Orazio non ci ha mai neppur provato.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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