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Il dramma religioso, politico e umano di Francesco Isola, vescovo di Concordia

C’è una pagina di storia italiana doppiamente negletta e dimenticata, fra le altre pagine della nostra storia dimenticate, che non sono oche: quella delle relazioni fra la Chiesa cattolica e il Regno d’Italia durante la Prima guerra mondiale; non le relazioni diplomatiche e ufficiali, delle quali possediamo una documentazione più che sufficiente a farcene un’idea esatta, ma quelle concrete e immediate che si verificarono ne calor bianco della lotta, e cioè nelle vicinanze del fronte di guerra italo-austriaco, sia dall’uno che dall’altro lato di esso.

Il Regno d’Italia, nato, in gran pare, da una ideologia massonica e anticlericale e culminato nella presa violenta di Roma nel 1870, aveva imposto ovunque, via, via che si estendeva ai territori degli stati pre-unitari, e anche a quelli dell’ex Lombardo-Veneto austriaco, la sua legislazione laicista e anticattolica, procedendo alla soppressione di ordini e istituti religioso, alla chiusura di chiese e conventi e alla confisca e all’incameramento di ingenti proprietà ecclesiastiche. Di questo aspetto poco si parla, così come poco si parla, nelle scuole e all’università, delle Leggi Siccardi, o, qualora se ne parli, lo si fa un chiave riduttiva e rassicurante, come si fosse trattato, puramente e semplicemente, di recuperare un "ritardo" storico e porre l’Italia al livello della legislazione dei più avanzati Stati europei (che, guarda caso, erano protestanti, come la Gran Bretagna o l’Impero tedesco, oppure, se di tradizione cattolica, erano dominati da potentissime lobby massoniche e da ideologie illuministe e irreligiose, come la Francia), mentre è certo che furono qualcosa di più d una semplice "separazione" fra Stato e Chiesa.

Sia come sia: fin da quando le truppe italiane varcarono la frontiera, il 24 maggio 1915, ed entrarono nei paesi della valle del’Isonzo e del Trentino più vicini ad essa, e spontaneamente evacuati dagli Austriaci perché indifendibili, si verificarono degli incidenti, a dir poco incresciosi, talvolta sanguinosi, dei quali poco o nulla trapelò agli orecchi dell’opinione pubblica; incidenti, se così vogliano chiamarli, nei quali emerse l’accanimento, se non l’odio, di una parte dei comandi italiani, riflesso della nostra classe dirigente, nei confronti delle chiese locali, le quali, sotto il "paterno" governo dell’imperatore Francesco Giuseppe, avevano continuato a godere di un regime di speciale favore e protezione da pare delle pubbliche autorità, ed ora si vedevano esposte a delle forme di violenta rappresaglia, talvolta assimilabili ad una vera e propria persecuzione, contro le quali esse si trovavano ad essere completamente indifese. Anche in seguito se ne è parlato pochissimo, perché ciò avrebbe messo in dubbio l’immagine tradizionale, largamente mitizzata, di una Italia portatrice di libertà alle popolazioni "irredente", e di una concorde, unanime accoglienza entusiastica da parte di quelle, nei confronti del nostro esercito avanzante.

Oltre agli incidenti, vi fu, sin dall’inizio, una deliberata politica di sospetto e diffidenza da parte delle autorità sabaude nei confronti del clero diocesano della valle dell’Isonzo, considerato, in toto, austriacante, sia che si trattasse di sacerdoti di lingua italiana, o friulana, sia che fossero di madrelingua slovena o tedesca. Un solo dato basterà a rendere l’idea di quel che stiamo dicendo: quando l’esercito italiano occupò una parte della diocesi di Gorizia, circa sessanta parroci vennero rimossi e internati; di questi, circa 40 erano italiani (o friulani); in totale, l’80% dei parroci e dei sacerdoti dei paesi occupati subirono quei provvedimenti. Gli arresti avvennero sovente in forme brutali e sotto generiche accuse di simpatie per il nemico, tanto vaghe quanto perentorie; il parroco di Gradisca, don Carlo Stacul, uno degli internati, si lamentò amaramente del trattamento subito, sia da lui che da tanti suoi confratelli, ai quali cercò di prestare, nei limiti del possibile, assistenza morale e materiale. Il parroco di Aquileia, Giovanni Meizlik, che pure si era mostrato ben disposto verso le truppe italiane, venne rimosso e internato, per essere rimpiazzato da un sacerdote di fiducia del Comando italiano, don Celso Costantini, destinato a una brillante carriera ecclesiastica (diverrà cardinale ed è considerato fra gli ispiratori lontani del Concilio Vaticano II), che qui, però, visse una pagina poco limpida della sua vita di sacerdote e di studioso di notevole levatura.

Le cose si fecero ancora più difficili dopo lo sfondamento di Caporetto, quando furono gli Austro-Ungarici ad avanzare e ad occupare una porzione del territorio italiano, fino al corso del Piave e alle pendici del Monte Grappa: in pratica, tutto il Friuli (diocesi di Udine e di Concordia, dal 1971 Concordia-Pordenone) e una parte del Veneto (diocesi di Feltre-Belluno, di Ceneda o di Vittorio Veneto, e parte delle diocesi di Padova, per la zona di Valdobbiadene, di Treviso e Venezia. Al clero italiano, come al resto della popolazione, si pose la drammatica alternativa se restare o fuggire, insieme alla marea di profughi che non vollero rimanere sotto l’occupazione nemica. L’arcivescovo di Udine, il milanese Antonio Anastasio Rossi, scelse di fuggire, mentre il vescovo di Concordia, Francesco Isola, friulano di Montenars (dove era nato l’11 dicembre 1850) preferì rimanere nella sua sede, per condividere con i suoi fedeli le incognite e i prevedibili, gravissimi sacrifici derivanti dal regime di occupazione.

La sua scelta era stata dettata da motivi squisitamente pastorali, dei quali, in un primo tempo, parve che gli venisse reso merito; le cose, però, cambiarono bruscamente quando, nell’ottobre del 1918, svenne sferrata l’offensiva finale italiana che avrebbe condotto al successo di Vittorio Veneto, e le truppe austriache furono messe in fuga, mentre nei loro reparti scoppiavano i conflitti di nazionalità. All’avvicinarsi dell’esercito "liberatore", dei malumori lungamente covati contro il vescovo, e dissimulati dietro la maschera del patriottismo offeso, esplosero in maniera tanto improvvisa quanto sconvolgente: quando le truppe italiane entrarono a Portogruaro, sede del vescovado, una folla di soldati, precisamente di "arditi", e di cittadini scalmanati, fece irruzione nella dimora del prelato, lo sottopose a pesanti maltrattamenti e a insulti d’ogni genere, indi lo trascinò in strada e gli inflisse una solenne umiliazione, oltraggiandolo, chiamando nemico della patria, traditore e fiancheggiatore degli Austriaci. Fu una scena penosa e francamente disgustosa, ispirata, molto probabilmente, più che da effettivi comportamenti del vescovo, dalle mene di un partito massonico e anticattolico, che si serviva delle circostanze eccezionali, dovute alla guerra e all’agitazione degli animi, per inscenare una spettacolare azione punitiva contro un vescovo e per abbandonarsi a oltraggi blasfemi e profanazioni nei confronti dei sacri arredi e del Santissimo sacramento.

Più tardi il vescovo, che era stato costretto a nascondersi per qualche giorno, quindi a rifugiarsi a Roma, volle rientrare nella sua diocesi, mostrando una fierezza ed un coraggio ammirevoli in un uomo di quasi settant’anni, pur così duramente provato sia nel fisico che nel morale; ma ciò che era avvenuto aveva gettato un’ombra gravissima e incancellabile nei rapporti fra lui e la popolazione, ed il papa in persona, Benedetto XV, lo convinse, con dolcezza, che la cosa migliore, per lui e non solo per lui, era quella di rinunciare spontaneamente al vescovado e ritirarsi a vita privata: cosa che egli fece, non senza amarezza, tornando a morire in solitudine, nella sua Montenars, il 21 dicembre 1926, dopo aver sopportato una prova la cui crudeltà può solo a stento essere immaginata.

Per colmare il calice della sua passione, ai maltrattamenti ed agli oltraggi subiti si aggiunse un procedimento penale nei suoi confronti, aperto per appurare se egli, durante l’anno dell’occupazione nemica, avesse effettivamente favorito, in qualche modo, gli Austro-Ungarici, come seguitavano ad affermare i suoi implacabili accusatori; processo che, tuttavia, non giunse mai a conclusione, perché il 21 ottobre 1920 sopraggiunse l’amnistia nei suoi confronti, che prevenne e scongiurò una possibile sentenza di condanna, la quale avrebbe potuto avere delle conseguenze imprevedibili, anche sul piano politico dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa.

Così rievoca quel tristissimo episodio lo storico friulano, monsignor Mario Peressin, che pure ci sembra tenda un po’ a minimizzarlo, forse per una forma di pudore, ma anche perché lo inserisce in un contesto del tutto diverso – ossia il trasferimento del seminario diocesano -, nella sua monografia La diocesi di Concordia-Pordenone nella Patria del Friuli, Vicenza, Edizioni L.I.E.F., 1980, pp. 459-461):

Già prima della guerra mondiale del 1915-1918 si era pensato di trasferire a Pordenone (nella villa Poletti e a S. Valentino) il Seminario minore della Diocesi [da Portogruaro, a pochi chilometri dalla sede "storica" della diocesi, Concordia].

Ma l’idea delle due traslazioni [cioè del seminario e della stessa sede vescovile] fu posta, propagandata, discussa, più o meno accolta e, in parte, realizzata, fra gli anni 1918-1919.

Il movente fu dato dalla posizione e dall’entità del vecchio Seminario. La posizione non era infatti molto felice, così al centro di una città, con aderenze e prospicienze adibite a taverne, con un fiume pullulante di lavatoi che lambiva le sue mura. Inoltre, rispetto alla Diocesi, sorgeva verso una delle sue estremità, con grande disagio della maggior parte dei seminaristi e delle loro famiglie.

Ma, a part questo, per cui ci potevano essere mezzi disciplinari di prevenzione dalle influenze esterne, il Seminario era angusto, privo di cortili, di aria sana e libera, le aule erano umide; poteva contenere al massimo 120 alunni, poiché i locali non si prestavano a possibili od eventuali ingrandimenti: era chiuso come in una morsa da due strade pubbliche, un fiume ed un museo archeologico, costruito quest’ultimo su terreno venduto dal Seminario al Comune di Portogruaro.

La causa prossima, o meglio accidentale,l fu offerta dal tragico tramonto dell’episcopato di Mons. Francesco Isola.

Questo pastore, che governò la Diocesi di Concordia dal 1898 al 1919, terminò malamente il suo ufficio. Il mattino del 3 novembre 1918, la "teppa cittadina" e gli "arditi di un battaglione del X Granatieri"irruppero nel vescovado, mettendo sossopra e saccheggiando ogni cosa; sputacchiarono, presero a calci e pugni il vescovo, lo buttarono sulla pubblica via, gli strapparono di mano l’anello ferendolo, lo coprirono di abominio in pubblico, lo tennero in una stalla fino a sera, sotto l’accusa di aver "affamato il popolo e benedetto le armi austriache e le acque del Piave", al tempo dell’invasione tedesca nella prima guerra mondiale (cfr. Speranza, "La Sede Vescovile e il Seminario a Portogruaro e a Pordenone", sunto storico con documenti inediti, Pordenone, Arti Grafiche Cosarini, 1945, p. 51).

Fu tutto un pretesto, per saziare l’odio furioso e l’anticlericalismo massonico e fanatico di alcuni scalmanati (ibid., p. 58 sgg).

Innanzi a tali atti di violenza e sacrilegio (non solo verso il Vescovo, ma anche verso gli Olii Santi ed il Santissimo Sacramento, conservato nell’Episcopio; le sacre specie furono sparse in terra e calpestate, il vescovo dovette fuggire. Si rifugiò dapprima nella parrocchia di S. Giovanni di Casarsa, poi, il 13 novembre 1918, a Roma.

Il vescovco decise di tornare in Diocesi, ma non più a Portogruaro. Fu perciò promosso un !"referendum" tra il clero, circa la futura residenza del Vescovo e del Seminario

Il risultato dell’inchiesta non si fece attendere: per S. Vito optarono la forania di Lorenzaga e parte di quella di Pordenone; per Pordenone optarono tutte le altre foranie (16), eccetto quelle di Sesto, Portogruaro, Fossalta e Cordovado, le quali si pronunciarono contrarie ad ogni traslazione.

Nel dicembre 1918, fu presentato al papa Benedetto XV il risultato dell’inchiesta. Il santo Padre ordinava di riaprire il Seminario in qualsiasi parte della Diocesi, esclusa Portogruaro.

Il Seminario era stato chiuso ancora nel 1916, perché esposto ai bombardamenti. Per l’anno scolastico 1917-1918, fu combinato alla meglio a S. Giovanni di Casarsa ed altrove. Finita la guerra, il Seminario di Portogruaro fu invaso, in parte da una turba di senzatetto, in parte dal Municipio di Portogruaro e dall’Istituto S. Filippo Neri fondato da Mons. Celso Costantini per raccogliere gli illegittimi di guerra e le mamme dei nascituri. A parte l’ordine pontificio, sarebbe stato giocoforza cercare altrove ricetto per i chierici, se si voleva riaprire il Seminario.

Il cotonificio di Torre mise a disposizione dei seminaristi il Convitto operaio; il parroco D. Lozer alcune camere della canonica per i professori. Pro-Rettore fu nominato D. Luigi De Piero, perché il vecchio Rettore Mons. Morello aveva dichiarato di restare in carica solo se il Seminario di fosse riaperto a Portogruaro. Il Seminario fu ufficialmente riaperto dal Vicario generale Mons. Costantini, il 14 febbraio 1919.

Intanto, il 1° marzo 1919, il vescovo Isola, su invito di papa Benedetto XV, rinunciava alla sede concordiese e si ritirava a vita privata fra i natii monti della Carnia. [Questa è una svista dell’Autore, perché Montenars non si trova fra i monti della Carnia, ma è un piccolissimo comune dell’Alto Friuli, nella valle del torrente Orvenco, un ramo del fiume Ledra.] A reggere la Diocesi fu incaricato, come Amministratore apostolico, Mons. Beccegato, vescovo di Ceneda (ora Vittorio Veneto).

La vicenda del vescovo Francesco Isola, che trova qualche analogia con altri illustri vescovi friulani (il caso più noto e drammatico è quello del patriarca di Aquileia, Bertrando di San Genesio, ucciso dai feudatari ribelli in un agguato presso San Giorgio della Richinvelda, il 6 giugno 1350), getta una luce significativa sulla realtà del conflitto italo-austriaco e permette di valutarne un aspetto del tutto ignorato dal grande pubblico, un aspetto che fa poco onore alle autorità italiane e allo Stato italiano, non solo sul piano religioso, ma anche su quello civile. Infatti, decine di sacerdoti furono privati delle loro funzioni e trasferiti con la forza, come potenziali delinquenti, lasciando le loro parrocchie senza guida spirituale, e ciò proprio nelle circostanze più difficili dovute alle vicende belliche; e poi, nelle "radiose" giornate della vittoria, soldati e civili si abbandonarono a eccessi deplorevoli verso quella parte del clero che aveva fatto la scelta più coraggiosa: quella di rimanere nelle loro sedi e di condividere con la popolazione le difficoltà dell’occupazione nemica, le requisizioni, la fame, la minaccia delle rappresaglie da pare della soldatesca.

Quante cose ci sarebbero da sapere, ma delle quali il pubblico italiano è stato tenuto all’oscuro, per una serie di ragioni più o meno nobili; e quanto si discosta la realtà dei fatti storici, dalla rappresentazione che, di essi, ci viene fornita dai libri, specialmente se siamo così pigri o così ingenui da fidarci ad occhi chiusi di tutto quel che ci viene detto, e da ignorare tutto quel che ci viene taciuto, ma che pure dovremmo, in qualche modo, per lo meno sospettare. E la prima cosa che dovremmo sospettare, sempre e come regola generale, è che, nelle vicende della storia, il male e il bene non sono sempre nettamente distinguibili, e che ben di rado l’uno e l’altro si trovano interamente in una sola delle due parti in lotta…

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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