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26 Agosto 2016Se il 1511 è stato, per il Friuli, l’annus horribilis, poiché contrassegnato dalle violenze inaudite della rivolta contadina e della guerra civile, esplose nel cosiddetto "crudele giovedì grasso", cui seguirono, a brevissima distanza, il terremoto e la pestilenza, il 1496, viceversa, potrebbe definirsi per quella regione l’annus mirabilis, anche se le ragioni di ciò non hanno niente a che fare con la politica o con le questioni sociali, e anche se la maggior parte della popolazione, così come gli stessi storici delle epoche successive, a stento se ne saranno accorti. Il fatto è che, in quell’anno, vennero realizzati due capolavori dell’arte pittorica che aprirono ufficialmente una nuova stagione artistica, quella umanistico-rinascimentale, o, quanto meno, che ne decretarono la piena maturità, chiudendo, in un certo senso, la precedente esperienza, legata alla stagione del gotico internazionale. Stiamo parlando del Sangue di Cristo, una originalissima tela del veneziano Vittore Carpaccio, che ha la preziosità cromatica e l’ariosità architettonica di uno scenario teatrale, oggi custodito presso i Civici Musei e Gallerie di Storia e Arte di Udine, ma destinato, inizialmente, alla Chiesa di San Pietro Martire (situata nel centro storico, fra il Mercato Vecchio e quello Nuovo); e della Madonna col Bambino di Giovanni Battista Cima da Conegliano, oggi situata nel Museo Civico di Palazzo Elti, a Gemona, ma in origine destinata alla Chiesa della Beata Vergine delle Grazie (detta anche dei Tedeschi, per l’assidua frequentazione di pellegrini e mercanti germanici), sempre a Gemona, annessa al convento dei Francescani, di cui restano solo i ruderi.
Entrambe sono ritornate alla piena fruizione del pubblico dopo vicende complesse e, in parte, drammatiche. La tavola del Carpaccio, dall’insolita forma quadrata (cm. 162×163), il cui titolo completo è Cristo fra quattro Angeli con gli strumenti della Passione, ad un certo punto, dopo le soppressioni napoleoniche, era finita nella disponibilità del demanio, e, da lì, dopo il ritorno del dominio austriaco, nel 1838 era stata trasportata presso l’Hofmuseum di Vienna, donde ritornò alla città di Udine quasi ottant’anni dopo, nel 1919, al termine della Prima guerra mondiale, quando l’Italia recuperò tutta una serie di opere d’arte che erano state trafugate in Austria durante il periodo della dominazione asburgica nel Lombardo-Veneto. La tavola di Cima da Conegliano, invece, nonostante l’acquisto dell’intero complesso architettonico da parte del comune di Gemona, nel 1770, rimase nella sua sede originaria fino a quando, nel 1976, il terribile terremoto che ebbe l’epicentro proprio vicino alla città, ne provocò il crollo. La pala venne recuperata intatta fra le macerie, ed ora è visibile preso il Museo locale.
Non ci è dato sapere se Carpaccio o il Cima si recarono in Friuli per realizzare tali opere, o se, come è più probabile, la committenza li contattò nelle loro residenze, ed essi le dipinsero nelle proprie botteghe, per poi farle trasportare rispettivamente a Udine e a Gemona; ad ogni modo, con la loro esposizione nella Chiesa udinese di San Pietro Martire, e in quella gemonese della Beata Vergine delle Grazie, l’ambiente artistico e culturale del Friuli fu come colpito e, diremmo, quasi elettrizzato da un qualcosa di nuovo ed entusiasmante: due artisti ancor giovani (Carpaccio era sui trent’anni e Cima, sui trentacinque) irrompevano, con due opere molto importanti, in un panorama culturale ancora in buona misura pre-rinascimentale, immettendovi idee nuove, un nuovo gusto, una nuova maniera di considerare gli aspetti compositivi, luministici, coloristici, spaziali, prospettici, paesaggistici (in entrambi i casi è importantissima la funzione svolta dal paesaggio, non più semplicemente decorativa, ma descrittiva e poetica essa stessa), e, insomma, favorendo l’instaurarsi di una nuova sensibilità estetica e culturale, che includeva nella civiltà rinascimentale italiana anche il feudale e patriarcale Friuli — passato, lo si tenga presente, solo nel 1420 entro l’orbita politica veneziana, con la sconfitta dell’ultimo principe-patriarca di Aquileia, Ludovico di Teck, che chiudeva tre secoli e mezzo di signoria ecclesiastica.
Facciamoci raccontare questo annus mirabilis da Aldo Rizzi (Udine, 1927-ivi, 1996), insigne storico dell’arte e studioso, in particolare, del Tiepolo, da noi già sovente citato per le sue belle e numerose pubblicazioni (nel volume collettaneo Friuli Venezia Giulia, a cura di Roberto Mainardi e altri, Venezia, Electa Editrice per conto della Banca Nazionale del Lavoro, 1978, p. 194-196):
Alla fine del secolo [il XV], il nuovo linguaggio imposto da Domenico da Tolmezzo nel Duomo di Udine, con l’uso di moduli umanistici e di citazioni belliniane, darà i suoi generosi frutti, stimolando le comunità locali ad indirizzare le proprie scelte anche al di fuori dell’area friulana e in particolare verso il centro irradiatore di Venezia. Così dicasi dei pittori locali, i quali non rimangono più ancorati alla loro terra, in paziente attesa delle novità altrui, che giungono in ritardo e senza il mordente originario, ma si recano direttamente nelle sedi d’avanguardia, per effettuare prelievi tempestivi ed oculati: basti l’esempio del Pellegrino da S. Daniele, di Giovanni Martini e del Pordenone, Nel 1496, dunque, vengono introdotte nel Friuli due opere di capitale importanza, indicative anche del’orientamento del gusto e della maturità culturale: si tratta della tela di Vittore Carpaccio raffigurante "Cristo con gli strumenti della Passione", commissionata dalla Chiesa udinese di S. Pietro Martire (oggi nel Museo Civico), e della tavola di Cima da Conegliano con "La Madonna e il Bambino" della Chiesa della Madonna delle Grazie di Gemona, recuperata dal terremoto del 1976 che ha distrutto il sacro edificio; a ciò faranno seguito, ancora di Cima, "L’incredulità di S. Tomaso" della Scuola omonima, o dei Battuti, di Portogruaro, (1504), passata alla National Gallery di Londra, e forse una tavola segnalata nella Chiesa udinese della Vigna (De Rubeis, c. 1798).
Soffermiamoci sulle prime dee opere. La pala del Carpaccio (1465-1526) , per la quale viene proposto anche il titolo del "Sangue di Cristo", è stata eseguita dal pittore nella sua prima maturità artistica, influenzata da Giovanni Bellini, ma gravida di accenti personali. Essa denuncia le precoci avvisaglie dell’apertura tonale di matrice veneta, filtrate attraverso una forma non del tutto decantata dal linearismo grafico del Quattrocento ed in cui la luce ed il colore non sono ancora il veicolo assoluto della linguistica pittorica. La scena è costruita con rigore architettonico, sul severo telaio brunelleschiano, mutuato certamente dalle leggi della sintesi prospettico-spaziale di Piero della Francesca (non senza richiami, per i rapporti geometrici e i valori plastici, al lessico antonelliano), ma con una sensibile ansia di rigenerazione critica, come appare dall’indovinato uso di linee divergenti (le aste e la croce), che impreziosiscono il reticolo strutturale. Un disegno sottile, che ha la ricchezza della miniatura antica, ,pur senza farsi calligrafico ed illustrativo, scandisce con gioioso ritmo le isole cromatiche ed insegue brani stupendi di realtà (si veda la vegetazione in primo piano), in una resa immediata e paziente ce non frena l’abbandono poetico.
Come una quinta convergente, il paesaggio diviene elemento sostanziale del racconto e fa scivolare verso il cielo con un fremito di luce che accende il corpo del Cristo, fattosi quasi di alabastro, e organizza i colori: tarsie di rossi, macchie di gialli, respiri di verdi e campiture di turchini si compongono in una gamma tonale che subordina a sé la forma, pianifica le asprezze e scorpora le masse, creando l’incanto primo dell’opera: una tastiera cromatica festante, ricca di modulazioni, articolata su valori spesso dissonanti, ma con un’orchestrazione abile che tiene conto delle regole del contrappunto, tanto che il quadro assume la magica parvenza di uno stupendo arazzo.
Il Pallucchini osserva: "La complessità simbologia del tema gli è stata certamente suggerita; ma l’intelligenza con cui la risolve, in una interpretazione così appassionata di stile, smentisce evidentemente la svagata ingenuità che troppo spesso si attribuisce al pittore. La composizione è un miracolo di limpida armonia tra struttura architettonica delle forme e luminosità ambientale" (1961). Come ho fatto osservare in altra sede, l’iconografia del redentore il cui sangue sgorgante dalle ferite converge nel calice con l’ostia, di lontana ascendenza benedettina e ignota ai repertori veneti, si ritrova in opere anteriori di qualche decennio del pittore austro sloveno Johan von Laibach (Giovanni da Villaco, cittadino di Lubiana), probabilmente note ai committenti udinesi: il che sta a testimoniare ancora una volta la maturità dell’ambiente locale, che riesce anche ad imporre determinate scelte iconografiche.
Nella tavola gemonese del Cima (1459-60/1517-18), di originale è rimasto il Bambino; fra l’altro, la testa della Vergine viene interamente rifatta già nel lontano 1590 da Secante Secanti, , che ne trae una copia, mentre nel 1945 tutta la figura della Madonna, il braccio e la gamba sinistra dell’infante sono ridipinti senza eccessivo scrupolo. Questa tematica (il Bambino che accarezza la guancia della madre) è frequente nella letteratura del Cima. Il Coletti considera archetipo della serie (Petit Palais di Parigi, Museo delle Belle Arti di Budapest, Museo Civico di Treviso ecc.) proprio la tavola gemonese, pur non negando la possibilità che sia esistito uno sconosciuto esemplare anteriore; egli ritiene inoltre che spetti al Cima l’invenzione del "particolare tipo di paesaggio, vasta distesa di ondulazioni collinose e montuose, che potrebbe far pensare ad A. M. da Carpi" (1959), discepolo del maestro di Conegliano.
Le ripercussioni delle due importanti opere, calate nel rusticano tessuto della civiltà figurativa locale, non si faranno attendere.
Il fatto che la committenza, in questo caso i domenicani e la fabbriceria della Chiesa di San Pietro Martire a Udine, abbiano suggerito, molto probabilmente, a Vittore Carpaccio l’impianto compositivo generale, con tutta quella serie di accorgimenti e di originali innovazioni, così ben descritti da Aldo Rizzi, e il fatto che tali suggerimenti possano essere venuti da altre suggestioni e da ulteriori spunti narrativi, di probabile ascendenza riferibile all’area pittorica danubiana, si può interpretare, certo, come un sego della maturità culturale della committenza locale e, quindi, come un segno del fatto che il Friuli, sullo scorcio del XV secolo, non si limitava a ricevere e quasi a subire le opere altrui, ma incominciava ad elaborare una propria civiltà artistica, o, quanto meno, a sentire il desiderio e a fare l’esperienza di un più attivo coinvolgimento nella realizzazione delle opere d’arte destinate ad abbellire le sue chiese e ad interpellare la sensibilità del pubblico (in questo caso, dei fedeli: perché un’arte laica, in Friuli, sarebbe nata solo assai più tardi; e lo diciamo senza alcun sottinteso polemico, ma come semplice dato di fatto; l’altro potenziale committente, cioè la nobiltà feudale, essendo assai poco interessata, nel complesso, alle cose dell’arte e dello spirito). E questa è, appunto, l’interpretazione del Rizzi: interpretazione legittima sotto ogni punto di vista, critico e filologico; e, del resto, bene in linea con una certa fierezza localistica — che non arriviamo a definire "nazionalista", perché una nazione friulana, se pure è esistita, è finita appunto nel 1420,con la caduta del Patriarcato di Aquileia, cioè da qualcosa come sei secoli — di tanti scrittori, poeti, storici, e, in genere, uomini di cultura di questa regione. (E quando diciamo: questa regione, precisazione che va fatta per gli altri Italiani, non intendiamo ovviamente il Friuli Venezia Giulia, con o senza trattino, perché le due entità che lo compongono hanno sempre avuto ben poco in comune, per non dir quasi nulla; bensì alludiamo al solo Friuli storico, corrispondente, a un dipresso, alle tre province attuali di Udine, Gorizia e Pordenone).
È possibile, peraltro, anche una interpretazione diversa, la quale, se può apparire meno lusinghiera per quella certa fierezza patriottica cui abbiamo accennato, non implica, tuttavia, alcun giudizio di valore, tanto meno di segno negativo, ma una mera constatazione di fatto. Il Friuli non ha mai espresso grandi artisti, né all’epoca di cui stiamo parlando, né prima, né dopo; e neppure oggi. Questo è un fatto, e coi fatti non si litiga. Non abbiamo la minima intenzione di sminuire o svalutare le figure dei romanzieri, poeti, storici, giornalisti, pittori, architetti, scultori, registi e attori, che si sono illustrati nei rispettivi campi, anche a livello internazionale: constatiamo, però, che nessuno di essi ha raggiunto la vera grandezza. Molti Friulani amano pensare che ciò dipenda, in larga misura, dall’ignoranza delle cose loro, e da una sorta di altezzosità e d’incomprensione, da parte del potere centrale che, nel corso dei secoli, ha governato la loro terra. In questa opinione ci può essere, anzi sicuramente c’è, una parte di verità: ma, appunto, solo una parte. La verità intera, però, è che il Friulano non è un tipo geniale: possiede moltissime qualità umane, la pazienza, la tenacia, la sobrietà, l’onestà, la laboriosità; ma non l’originalità creativa, e, comunque, non in misura eccelsa. Le caratteristiche psicologiche dei popoli esistono, che ciò piaccia o no alle ideologie egualitarie di matrice illuminista. E diciamo questa verità con molto affetto e con viva simpatia nei confronti del Friuli e della sua gente: dopotutto, il mondo ha un maggior bisogno di persone rette, che geniali…
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