
Guai ai pastori che si sono dimostrati pastori di se stessi!
20 Agosto 2016
Se la Marina italiana si fosse autoaffondata nel 1943, o almeno nel 1947…
21 Agosto 2016Quando Laura se l’è trovata davanti, deve aver pensato di essere capitata sul pianeta Marte, oppure d’avere sbagliato epoca; questa, almeno, è l’impressione che ha dato, restando letteralmente a bocca aperta, mentre l’altra gridava e si agitava, nel calor bianco dell’incontro.
È successo alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, nell’incontro fra la squadra tedesca e quella egiziana di beach volley, una specialità solo da pochi anni entrata a far parte ufficialmente delle categorie olimpioniche, ma che subito è balzata ai primi posti nell’attirare l’interesse del pubblico. A misurarsi erano le due squadre femminili, e non si sarebbe potuto visualizzare meglio il contrasto oggi esistente fra la cultura islamica e quella occidentale.
La bionda Laura Ludwig, una ragazzona che pare uscita da un film di Leni Riefenstahl, come pure la sua compagna Kira Walkenhorst, oggi sono due eroine nel loro Paese, anche se i loro nomi non diranno molto al di fuori della Germania, tranne che agli appassionati di sport olimpionici: hanno vinto, infatti, la medaglia d’oro, sbaragliando, una dopo l’atra, tutte le formazioni avversarie, compresa la più attesa e quotata di tutte, quella delle padrone di casa brasiliane.
Laura, dunque, fasciata solo della sua possente ma armoniosa muscolatura, e di un ridotto due pezzi, si trova faccia a faccia con una avversaria che indossa una tuta integrale, che le copre interamente braccia, gambe e pure i capelli, grazie al hijab, il velo prescritto alle donne musulmane; e così pure la sua compagna di squadra. Non è una partita fra due tecniche o fra due diverse concezioni dello sport; è proprio una partita fra due concezioni del mondo — e, naturalmente, anche fra due idee della donna. Pareva che due lontane epoche della storia si fossero incontrate d’improvviso e si stessero sfidando sulla sabbia, sui due lati di una rete da pallavolo.
Non è un’esagerazione, e non si tratta della solita frase a effetto; del resto, in molti, in troppi, si sono sbizzarriti a chiosare e cesellare quell’incredibile match, e la nota dominare era quella trionfalistica: quattro ragazze così diverse per provenienza, lingua, religione cultura, che si sono trovate affratellate dallo sport, dal comune impegno olimpionico, dalla voglia di giovinezza, di gareggiare e, naturalmente, di vincere. Tutte balle. Non c’è stato alcun affratellamento, perché, a parte le rituali strette di mano, non sarebbe stato possibile, neppure volendolo: e nessuno, crediamo, si sognava di volerlo, e neanche di ritenerlo possibile. È stata l’immagine visiva di due mondi che si sfiorano, ma non comunicano, perché non possiedono alcuna lingua comune, e perché non sono minimamente intenzionati neppure a cercarla. Non si dica che quella lingua è lo sport: perché anche lo sport, come qualsiasi altra cosa, può diventare un ponte fra culture diverse a patto che ci sia un minimo denominatore comune fra esse: ma lo sport, di per sé, non può essere quel ponte, meno ancora in una competizione agonistica ai massimi livelli. Alle Olimpiadi, si va per vincere e non per gettare ponti; per stabilire primati, se possibile, e non per fare della poesia, o, peggio, della (cattiva) filosofia, sulla bellezza dell’integrazione.
Ma quale integrazione, poi? Quando adoperano questa parola — che, in verità, adoperano continuamente — i tuttologi buonisti, i politologi progressisti, gli antropologi di sinistra e i filosofi da strapazzo che infestano i salotti televisivi a un tanto l’ora, non sanno letteralmente di che cosa stanno parlando. Il loro conformismo politico e culturale è pari soltanto alla loro ignoranza e alla loro pigrizia intellettuale. Ignoranza: perché non è mai esistita una cosa che si chiama integrazione, se non a livello di singoli individui, e perfino in quel caso, solo entro certi limiti e con parecchi punti di domanda; per quel che riguarda i popoli, si può cominciare a parlar d’integrazione dopo qualche millennio, ma non è detto: si veda l’India, dove i Dravida, gli abitanti originari, sono andati a formare la casta dei paria, pur dopo secoli e millenni dall’inizio della dominazione ariana.
Oppure si pensi agli Stati Uniti d’America: qualcuno se la sente di affermare che, pur dopo tre secoli, si è compiuta l’integrazione degli afroamericani nel contesto di quella società? Ma se basta che la polizia uccida un ragazzo nero, perché scoppi una mezza insurrezione da un capo all’altro degli States! Del resto, la cosa è palese: bianchi e neri non vogliono integrarsi. Si prenda Milwaukee, una città del Wisconsin che è stata fra i principali teatri degli ultimi disordini razziali: esistono di fatto due città, una bianca al nord, dove vive il 60% della popolazione, e una nera al sud, dove vive il 40%; le due comunità sono separate da una linea invisibile, ma estremamente reale. Lo stesso accade coi Cinesi e i Giapponesi in California, o coi latinos in Arizona e New Mexico; degli ultimi Pellerossa, meglio non parlare neppure. Altro che integrazione.
Della Repubblica Sudafricana, dopo lo smantellamento dell’apartheid e la divinizzazione di Nelson Mandela, entrato a furor di popolo nel’Olimpo degli Immortali, i media di tutto il mondo hanno smesso di occuparsi: il bene ha trionfato, i buoni hanno vinto e i cattivi hanno perso. Dunque, i riflettori si sono spenti: il resto della storia non interessa più a nessuno. Tanto più che potrebbe disturbare i sonni dei nostri bravi buonisti, progressisti e multiculturalisti. Già: perché, se qualcuno si prendesse la briga di riaccendere i riflettori, quel che vedremmo non farebbe molto piacere né ai cattoprogressisti, né ai seguaci della nuova religione di Mandela. La verità dei fatti, nuda e cruda, è che i neri stanno conducendo una lenta, capillare, devastante opera di estromissione dei bianchi, migliaia dei quali fanno la valigia e se ne vano via per sempre, ad esempio in Australia e Nuova Zekanda, nel massimo silenzio e con la più grande compostezza. Se restano a casa, rischiano la pelle o sono costretti ad andare a dormire con la pistola carica sotto il cuscino. Bande di rapinatori e di assassini neri fanno irruzione nelle case dei bianchi, specialmente nelle fattorie isolate, e non lasciano vivo nessuno. Nelle città le cose vanno un po’ meglio, ma anche lì i bianchi si sentono ormai braccati, con il fiato sul collo. Hanno perso la speranza: sanno che, prima o poi, per loro finirà nel peggiore dei modi. Complice il silenzio ipocrita dei giornalisti che, per decenni, hanno strepitato — e con ragione, s’intende – contro la violenza dei bianchi a danno dei neri. Ma ora che le parti si sono rovesciate, quegli stessi giornalisti non hanno più nulla da dire e, di colpo, hanno perso ogni interesse per le cose sudafricane.
Peraltro, non c’è bisogno di andare negli Stati Uniti o in Sudafrica per toccare con mano il fallimento di qualsiasi politica d’integrazione fra etnie diverse: basta restare anche dentro i confini italiani. Basta andare a Bolzano, per esempio, dove la cultura italiana e quella tedesca s’incontrano: meglio, dove s’incontrano la cultura dell’Italia settentrionale e quella dell’Austria e della Germania meridionale. Stiamo parlando di due stirpi che, pur parlando due lingue diverse, hanno moltissime cose in comune: la comune appartenenza alla civiltà europea; la comune eredità di Roma; la stessa religione cristiana, nella stessa confessione cattolica; e quel minimo di rispetto reciproco che deriva dal fatto di vivere l’una a ridosso dell’altra, e di non avere, nei rispettivi armadi, scheletri così tremendi come la schiavitù, o come l’apartheid; per giunta, stiamo parlando di poche centinaia di migliaia di persone, che ormai da un secolo — dal 1918 — vivono entro i confini dello stesso Stato, e dove una — la tedesca — è tutelata, anche mediante trattati internazionali, da un regime di autonomia così largo, da far sorgere il sospetto che l’altra etnia, l’italiana, si trovi, di fatto, in una posizione subalterna in casa propria, in seno al proprio stato nazionale.
Ebbene: non c’è stata alcuna integrazione. I matrimoni misti sono più unici che rari; i quartieri misti non esistono; né la scuola, né la pubblica amministrazione, né il lavoro, né lo sport, sono riuscirti a creare neppure un accenno d’integrazione. E questo per una ragione semplicissima: che le due comunità, pur non odiandosi — c’è stata, purtroppo, anche la fase del terrorismo sudtirolese, ma, grazie a Dio, è passata pure quella — non hanno la benché minima voglia di fondersi. Dopo quattro generazioni da che il Sud Tirolo è divenuto una provincia (ora autonoma) italiana, né gli uni, né gli altri, hanno mai dato segno di voler fare un passo decisivo verso la reciproca integrazione, e creare una società mista. Tutto al contrario.
Questi sono i fatti, per chi abbia la voglia di vederli. Ora ci piacerebbe che i politici progressisti e gli intellettuali buonisti ci spiegassero che cosa intendono, quando affermano che milioni di stranieri immigrati in Italia, che non si sa neppure quanti siano (perché i dati sui clandestini non esistono, ma è verosimile che siano il doppio o il triplo rispetto ai dati stimati), e provenienti da decine di Paesi diversi, dalla Romania all’Albania, dal Marocco alla Cina, dall’Ucraina alle Filippine, ciascuno con la sua lingua, cultura, religione e le sue tradizioni, si dovrebbero "integrare" nella società italiana. Una società italiana, oltretutto, sempre più vecchia, demograficamente parlando, mentre la popolazione straniera è sempre più giovane e sempre più numerosa. Se le parole hanno un senso, e se alle parole devono corrispondere dei concetti chiari e comprensibili, allora bisogna dire che essi parlano letteralmente a vanvera, che danno semplicemente aria al palato. La cosa di cui si riempiono la bocca, senza sosta, non esiste, non è mai esistita e mai esisterà; e non potrebbe esistere neppure se le condizioni effettive fossero infinitamente più semplici e più favorevoli di come sono in realtà.
Quindi, oltre all’ignoranza, quanti ci ripetono, incessantemente, che l’immigrazione straniera nel nostro Paese è cosa buona e giusta, perché ci aiuta a salvare i conti pubblici, a pagare le pensioni e a mandare avanti la produzione, sono afflitti anche da una cronica pigrizia intellettuale: ripetono slogan e formule preconfezionate, ma non si prendono il disturbo di andare a verificare se vi sia una minima possibilità di convergenza fra ciò che dicono, e di cui vorrebbero persuaderci, e la realtà dei fatti. Si tratta di giornalisti e di opinionisti che hanno il posto sicuro e la poltrona assicurata, purché continuino a ragliare come somari le stesse stupidaggini; e il conservare la posizione eretta della spina dorsale non è precisamente l’esercizio in cui eccellano. Quanto ai politici, se ne infischiano: per loro va bene così, gli immigrati portano un nuovo serbatoio di voti cui attingere, ma, soprattutto, infinite possibilità di affari con il business dell’accoglienza, tramite le cooperative, gli albergatori, i centri di assistenza, eccetera, eccetera (senza nulla voler togliere, con questo, alle persone che lavorano onestamente in un tale ginepraio, e che rischiano perfino la vita, a cominciare dagli uomini della Guardia costiera e delle Forze dell’ordine, che vanno a rischio di prendersi una coltellata nella schiena tutti i santi giorni, nell’esercizio del loro dovere, per una paga miserevole e, come se non bastasse, con lo spettro di doversi difendere dalle denunce degli spacciatori e dei rapinatori che arrestano e che, prontamente rimessi in libertà da qualche giudice buonista e di sinistra, non esitano a mobilitare gli avvocati per rivalesi dei "maltrattamenti" subiti. Chiedendo risarcimenti di decine di migliaia di euro.
E non parliamo di terrorismo islamico, perché il papa Francesco si potrebbe arrabbiare e perché non bisogna suscitare inutili allarmismi, anche se perfino i servizi segreti di quel colabrodo che è la Libia ci hanno avvertiti che, fra i migranti in partenza dalle loro coste, sicuramente ci saranno non pochi militanti della jiahd islamica, pronti a far saltare in aria qualche palazzo o monumento, a massacrare gli avventori di qualche locale o di qualche supermercato, a sgozzare qualche prete sui gradini dell’altare, in piena Messa. Per carità, non parliamo di questo, perché immediatamente verremmo accusati di "sciacallaggio" e di ignobile speculazione sulla pelle di quei "disperati" che — come recita la formula canonica — essendo in fuga da guerra e fame, hanno ogni diritto di sbarcare sulle nostre spiagge e di essere accolti, assistiti, forniti di documenti e aiutati a soddisfare ogni loro desiderio, che si quello di rimanere in Italia, oppure di proseguire nel Paese di loro maggior gradimento. Anche se, grattando appena un poco sotto la vernice, verrebbe fuori che i Paesi da cui costoro provengono, al novanta per cento o più, non sono travagliati da guerre, né da afflitti da carestie o da "emergenze umanitarie". Per cui i cosiddetti "disperati" hanno semplicemente deciso di fare un salto di qualità e insediarsi in un Paese, o in un continente (ma Austria, Svizzera, Francia, Spagna, si regolano ben diversamente da noi, e chiudono le frontiere) dove il buonismo arriva al punto di annullare giuridicamente e penalmente i confini e da offrire assistenza gratuita e illimitata per chiunque arrivi, anche senza carta d’identità, anche con i polpastrelli abrasi per non farsi riconoscere. La verità è che l’integrazione è una parola senza senso, perché i migranti/invasori – chiamiamoli con il loro nome, per piacere – non hanno la benché minima intenzione d’integrarsi. Finché sono minoranza, invocano le nostre leggi e i nostri principi di "laicità" per conservare tutte le loro abitudini, che non sono solo quella del burkini (magari fosse tutto lì), ma, ad esempio, la condanna a morte d’un islamico che si voglia fare cristiano. Quando saranno assai più numerosi, getteranno la maschera della moderazione, e mostreranno il loro vero volto; ma allora sarà tardi…
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