
Nostra Signora di Akita, apparizione mariana del 1973 che si rivela di estrema attualità
23 Luglio 2016
Cercate le cose del Cielo, non della terra
24 Luglio 2016Le virtù civili di un popolo non nascono dal nulla: devono essere insegnate, coltivate, educate con amore, con pazienza, e, soprattutto, con costanza; alimentate con buoni esempi, più che con parole o con gesti retorici; e mai, mai, in nessun caso, sminuite, derise, disprezzate, ma sempre circondate di premura, di rispetto, di grata ammirazione. Vale, per esse, esattamente la stessa cosa che è vera per qualsiasi altra virtù, sia fisica che morale: un esercizio diuturno, un quotidiano allenamento sono la condizione indispensabile affinché si conservino e si trasmettano di generazione in generazione, senza usurarsi, senza disperdersi.
Non vi è un popolo, degno di questo nome, che possa fare a meno delle virtù civili, cioè di quel comune sentire che si traduce in fierezza, in disponibilità al sacrificio, in consapevolezza che, per il bene comune, anche il singolo individuo deve essere pronto a dare il meglio di sé, specialmente nei frangenti più difficili; e che, insomma, la società e lo Stato non sono semplicemente gli strumenti per consentire al singolo di godere sempre più diritti e di puntare ad un benessere sempre maggiore, ma sono delle realtà vive, dei valori in se stessi, senza i quali l’individuo non esisterebbe, o sarebbe solo un bruto che vive alla giornata, senza ideali e senza scopi.
Il progressivo prevalere delle ideologie di matrice liberale e democratica, fra XIX e XXI secolo, ha fatto sì che ci si dimenticasse, in larga misura, della natura non meramente strumentale della società e dello Stato; addirittura, sulle orme di cattivi maestri come Rousseau, si è diffusa l’assurda convinzione che tutto il bene venga dall’individuo e tutto il male dalla società: come se esistesse un individuo avulso dalla società e come se una società cattiva potesse dar luogo, per chissà quale magia, a degli individui buoni e innocenti. In questa prospettiva, tendenzialmente anarchica più ancora che liberale, il singolo è sempre e solo un fine, buono in se stesso, e la società è sempre e solo l’ostacolo alla realizzazione di quel fine: Nietzsche e Stirner sono molto più vicini fra loro di quel che non si pensi, pur essendo, entrambi, figli (o nipotini) perfettamente legittimi di Locke e dei philosophes illuministi.
Ciò è particolarmente vero nel caso del popolo italiano, popolo non del tutto realizzato: perché anche i popoli si educano e si formano, e la sua educazione e la sua formazione sono rimaste interrotte da una serie di circostanze e di vicende avverse, interne e internazionali, culminate nella tragedia nazionale dell’8 settembre 1943, e mai realmente superate. Nessun partito politico, nessun governo, nessun movimento sociale e civile, dopo di allora, ha mai tentato di riprendere il filo interrotto della costruzione del carattere nazionale, con la relativa educazione delle virtù civili a ciò necessarie. Infatti le virtù civili sono necessarie per conservare un popolo, e, a maggior ragione, sono indispensabili per realizzare un popolo: senza di esse non vi è che un’armata Brancaleone di individui allo sbaraglio, un esercito di straccioni (non importa se materialmente benestanti) incapaci di auto-governarsi, o anche soltanto di sopravvivere.
Perché un popolo coltivi le proprie virtù civili, è fondamentale educarlo alla stima e al rispetto di sé; è essenziale quel che esso pensa di sé medesimo, come si percepisce, come s’immagina di essere, guardandosi allo specchio. Ora, una classe dirigente vile e venduta al nemico — la stessa dell’8 settembre, materialmente o moralmente identica ad essa — ha permesso che il popolo italiano coltivasse un’idea estremamente bassa di se stesso: che imparasse a ridere miseramente dei propri difetti, invece di correggerli; che si consolasse con il cinismo, con le buffonerie, con gli opportunismi, con l’auto-disprezzo. Non è stato un caso: è stata una politica deliberata. Una classe dirigente di servi e di venduti aveva bisogno di regnare su un popolo di servi e di venduti. Bisognava diseducare le masse, affinché diventassero simili a chi le governava (si fa per dire); bisognava che il popolo imparasse a non avere alcuna stima di sé, per poter sopportare il fatto di essere amministrato così male, in modo tanto inefficiente, tanto penoso, tanto clientelare, tanto borbonico. Un popolo di straccioni e di Pulcinella avrebbe imparato ad accontentarsi di avere dei governanti da operetta e, a sua volta, avrebbe preteso di essere lasciato in pace nei suoi piccoli traffici, nella sua illegalità diffusa, nella sua furbizia da quattro soldi (vedi i pubblici impiegati che timbrano in massa il cartellino per conto terzi, e poi se ne vanno a far la spesa, o al mare, o in palestra: il tutto a spese del pubblico erario).
In realtà, gli Italiani, come popolo, sono assai migliori di quel che credono di essere: nonostante una pluridecennale campagna per avvilirli e far sì che si auto-disprezzino, portata avanti soprattutto attraverso il cinema e la televisione — le agenzie di contro-educazione principali della tarda modernità – la fibra, naturalmente sana, del nostro popolo, non si è infiacchita e corrotta del tutto. L’italiano medio reale è assai migliore dell’italiano medio rappresentato dal cinema e dalla televisione: è assai migliore di Alberto Sordi in Tutti a casa, e infinitamente migliore di O’pazzariello di Totò. Il fatto che il carattere nazionale sia stato scolpito e consegnato a futura memoria (e infamia) da due attori come Alberto Sordi e Totò – indipendentemente dai loro meriti artistici, che qui non c’interessano – la dice lunga sul fatto che si è voluto indottrinarlo e persuaderlo all’auto-avvilimento e all’auto-disprezzo. Gli stranieri hanno percepito questa nostra attitudine masochistica, e se ne sono approfittati. Da grande potenza, qual era fino alla Seconda guerra mondiale, l’Italia è stata poi trattata quale parente povero dalle altre potenze, anche perché quei governi hanno percepito fino a che punto gli Italiani avevano smesso di credere in se stessi, di avere rispetto per le proprie virtù civili, che pure esistono. Avremmo dovuto commiserarci di meno e imparare di più da esempi come quelli di Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, Calipari, o, semplicemente, di quel tale Fabrizio Quattrocchi, assassinato in Iraq nel 2004 (qualcuno se lo ricorda ancora?), che, davanti alle armi puntate dei suoi aguzzini, ebbe la forza d’animo di gridare: Ora vi faccio vedere come sa morire un Italiano!
Perché gli Italiani, oltre che coraggiosi, sanno essere anche fieri: non è vero che sono, in massa, quelli dell’8 settembre; l’8 settembre li ridusse a un popolo di pezzenti perché vennero a mancare gli ordini, le direttive, gli esempi. La verità è che pochi popoli sanno fare così tanto, con una tale povertà di mezzi; e pochissimi eserciti hanno saputo combattere così eroicamente, con una tale insufficienza da parte dell’azione di comando: insufficienza, o forse peggio: l’articolo 16 del trattato di pace del 1947 lascia chiaramente intendere che vi fu anche del tradimento vero e proprio, e ciò ai massimi livelli. Ed è storia che si ripete, storia di oggi: i governi italiani sbucati fuori dalla Grande recessione del 2007 (ma non certo usciti dalle urne elettorali, dato che la democrazia è stata sospesa dal 2011), stanno realmente governando il Paese secondo i suoi reali e vitali interessi, oppure sono al servizio di interessi estranei, ed è per questo che stanno portando il paese al tracollo?
C’è stato un tempo, diciamo fino a quando l’Italia era una nazione realmente sovrana, in cui si stava attenti a coltivare le virtù civili e a trasmetterle, con l’esempio della famiglia e con la scuola, alle giovani generazioni: da Cuore di De Amicis, alle copertine della Domenica del Corriere, tutto aiutava a far sì che gli Italiani nutrissero una opinione non spregevole di se stessi, come popolo e come nazione; che ammirassero gli esempi di patriottismo; che cercassero di essere alla loro altezza. Il comandante dell’Andrea Doria fu quasi costretto a lasciare la sua nave, perché avrebbe voluto morire con essa; mentre il capitano della Costa Concordia, come è noto, si è messo in salvo per primo, senza preoccuparsi affatto di dirigere le operazioni di salvataggio dei passeggeri. Un’opera di sistematica auto-denigrazione è stata portata avanti anche nei confronti delle Forze Armate, dopo la Seconda guerra mondiale: proibito parlare dell’eroismo di El Alamein, se non dopo dieci e cento giaculatorie contro la "guerra sbagliata" e dopo aver ripetuto, come un mantra, quanto siamo stati fortunati a perdere la guerra, perché, in compenso, abbiamo riavuto la libertà. Il che è stato come insultare il sacrificio di quei ragazzi e come schernire tutto ciò per cui si sono resi protagonisti di una straordinaria epopea di valore e di virtù civili, oltre che militari.
C’è, al riguardo, una bella pagina di Paolo Caccia Dominioni (1896-1992), il noto scrittore, militare, ingegnere e disegnatore che, dopo avervi partecipato ed essere stato decorato, ha lasciato una delle più complete e commoventi testimonianze sulla battaglia di El Alamein, e sulla successiva, pietosa opera di raccolta delle salme e di costruzione del sacrario militare italiano, nel libro Alamein 1933-1962 (Milano, Longanesi & C., 1968, pp. 257-259):
Ventimila prigionieri italiani e diecimila tedeschi sono affluiti nel concentramento di Alamein, nella mai raggiunta piazzaforte.
Non tutti. Qualche prigioniero è rimasto nel deserto. La sera del 24 ottobre, dopo una resistenza furibonda, i superstiti di un caposaldo del VII/186° "Folgore", prigionieri, sostano dietro le linee della 44a divisione britannica, sorvegliato da sentinelle neozelandesi. "Ho freddo", dice il paracadutista Ferdinando Pellicciari. L’amico Corrado Ricci, di Ancona gli cede la propria giubba: faranno un po’ ciascuno, Pellicciari accende una sigaretta e siede sopra un pietrone. Ricci si allontana qualche passo, sente uno sparo vicinissimo, si volge. La sentinella ha fatto fuoco. Pellicciari è a terra, morto. Viene sepolto con la giubba del compagno.
Il 7 novembre, vicino a Bir el Alamein, un gruppo di sottufficiali italiani è in rango per l’interrogatorio, condotto da uno dei soliti tenenti levantini in divisa britannica. Un artigliere risponde a tutte le domande. Presso a lui è ritto Venosto Lucati del 31° guastatori, il fiero sergente già ricordato, e dice all’artigliere: "Non devi rispondere, sei un prigioniero, protetto dalla convenzione di Ginevra". L’interrogante, inviperito, si rivolge a Lucati e ne riceve una risposta sferzante: allora lo schiaffeggia con furibonda violenza, chiama un graduato negro e lo fa accompagnare in fondo al recinto di ferro spinato, lontano da tutti. Lucati deve restare eretto e immobile tutta la giornata, sotto il sole, sorvegliato da un altro negro che gli tiene costantemente puntato contro il fucile a baionetta inastata. Capoposto e sentinella sono abissini e non nascondono il loro odio.
Lucati sente crescere in sé un sentimento grandioso di elevazione e di distacco. Aspetta la fine da un momento all’altro. Ha dato, in quatto ridi mesi di guerra, innumerevoli prove di coraggio, è stato ferito tre volte, ha meritato, unico del battaglione, tre medaglie d’argento. Può solennemente disprezzare questi vincitori inumani e ignobili. Cala la sera. Un capitano inglese autentico, molto serio, si avvicina con il tenete levantino e dice poche parole. "Lei può tornare tra i suoi compagni", traduce lo schiaffeggiatore a denti stretti.
Contemporaneamente, a poche centinaia di metri, sulla litoranea, scendono da una vettura tre prigionieri italiani, un generale e due colonnelli. Portano l’uniforme della "Folgore": sono Frattin, comandante, Bignami vice comandante e Boffa comandante l’artiglieria paracadutista. Si avvicina un interprete. "Lei è il comandante della ‘Folgore’? Un generale inglese desidera salutarla., Si presenta il generale Hugues, della 44a, la divisione che nell’attacco alla "Folgore" ha subito lo smacco principale. I tre italiani e l’inglese, rutti e impalati, si salutano. L’inglese accenna a tendere la mano: Frattini è immobile. La mano inglese si ritrae.
"Si era sparsa la voce" dice Hugues, che il comandante della ‘Folgore’ fosse caduto. Ho saputo che non è vero e voglio dire che sono contento".
Frattini: "Grazie". La conversazione è finita. Le mani risalgono nel saluto e il gruppo si separa.
Ad ogni modo, è innegabile che le virtù civili d’un popolo sono strettamente legate al sentimento religioso; e che le famiglie, quando erano religiose, sapevano trasmetterle più, e meglio, di quel che non sappiano fare oggi, o che non sappia fare lo Stato laico, con la sua scuola laica. Qui viene a galla una contraddizione di fondo del Risorgimento: la spaccatura fra ideali civili e sentimento religioso, originata da una classe dirigente massonica e anticattolica. Che è poi la nostra attuale classe dirigente: quella dei parlamentari, che si presentano in aula col nastrino arcobaleno, per festeggiare il via libera ai matrimoni omosessuali da parte del Consiglio di Stato, e poi brindano a champagne, in piazza, fra una folla di omosessuali e transessuali che esultano sguaiatamente e che si baciano… Povero sergente Venosto Lucati, è per questo che vi eravate sacrificati ad El Alamein?
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash