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Monti e colline vi acclameranno e tutti gli alberi dei campi vi batteranno le mani

Così il profeta Isaia descrive il ritorno dall’esilio dei figli di Dio (Is., 55, 1-13):

Orsù, voi tutti assetati, venite all’acqua, anche se non avete denaro. Venite: senza denaro comprate grano e mangiate, e senza pagare acquistate vino e latte. Perché spendete il vostro denaro per altro che non è pane e la vostra paga per cose che non saziano? Ascoltatemi, e mangerete ciò che è buono e sarete allietati da cibi squisiti. Porgete l’orecchio e venite a me: ascoltate e l’anima vostra avrà vita. Io concluderò con voi un patto eterno, secondo le promesse fatte a Davide. Ecco, io l’ho dato come testimonio fra i popoli, principe e sovrano sulle nazioni. Ecco, chiamerai popoli che non conoscevi, e nazioni che t’ignoravano accorreranno a te, per amore del Signore, tuo Dio, del Santo d’Israele, che tanto ti ha glorificato.

Cercate il Signore mentre si fa trovare, invocatelo mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via, l’iniquo desista dai suoi pensieri, ritorni al Signore, che ne avrà misericordia, al nostro Dio, che largheggia nel perdono. Poiché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, e le vostre vie non sono le mie vie, dice il Signore. Quanto il cielo è più elevato della terra, altrettanto i miei disegni superano i vostri disegni, e i miei pensieri sono al disopra dei vostri pensieri.

Difatti, come la pioggia e la neve discendono dai cieli e non risalgono senza avere innaffiato la terra, averla fecondata e fatta germogliare, affinché produca il seme al seminatore e il pane per mangiare, così la parola che esce dalla mia bocca non ritorna a me senza frutto, ma compie ciò che desidero e adempie la sua missione.

Così, partirete con gioia e sarete condotti con sicurezza. Monti e colline vi acclameranno e tutti gli alberi dei campi vi batteranno le mani. Al posto dei roveti crescerà il cipresso, al posto delle ortiche verdeggerà il mirto. Questo sarà per il Signore a rinomanza, un monumento eterno che non verrà mai distrutto.

In questi versi bellissimi, pieni d’immagini stupendamente poetiche, vi è un immenso concentrato di saggezza e una carica di spiritualità che innalza l’anima a mezzo metro da terra, non appena si cominciano a leggere le prime parole. Qui si tocca con mano il grande mistero della Bibbia: un’opera scritta dall’uomo, ma non concepita dall’uomo; un’opera alla quale gli uomini hanno prestato le loro mani per compilarla materialmente, e poi offrirla quale inesauribile cibo spirituale a tutte le generazioni future, fino a quando vi sarà un essere umano sulla faccia sulla Terra che sappia alzare gli occhi al Cielo e rivolgere un pensiero di gratitudine al Signore onnipotente, creatore di tutte le cose e padre affettuoso di ciascuna delle sue creature.

Quello stesso Libro di Isaia che aveva paragonato gli uomini che cercano Dio ad una partoriente che soffre e geme nel travaglio (26, 17: Come la partoriente si contorce e grida nei suoi dolori, così siamo noi davanti a te, o Signore), qui traccia un grandioso affresco che ha per soggetto la consolazione di colui che crede in Dio, spera in Lui e gli si abbandona: è come se l’universo intero si unisse alla sua gioia e ciascun elemento della natura partecipasse alla sua trepidazione e al trionfo del suo ritorno; perché tutti gli uomini cercano le strade che li riconducono a Dio, anche se non lo sanno. Non è soltanto il popolo d’Israele che, dopo la deportazione in Babilonia, anela a ritornare nella terra dei suoi padri: è l’anima in quanto tale, che cerca il suo Dio.

Per Isaia, siamo tutti in esilio, anche se non ce ne rendiamo conto, fino a quando cerchiamo altro da Dio: quando spendiamo il nostro denaro per acquistare un pane che non sazia, e abbeverarci ad un’acqua che non disseta; quando ci affanniamo in cento cose che catturano le nostre brame, ma non valgono ad estinguere i nostri desideri. Siamo tutti dei pellegrini e siamo tutti dei mendicanti, perché stiamo tutti dissipando le nostre vite nel vano inseguimento di ciò che non ci dà risposte e in cose che non ci portano la pace del cuore. Siamo dei poveri pellegrini affamati e assetati, che vagano in una terra straniera, dove molte cose sollecitano la curiosità e stimolano la concupiscenza, ma nessuna mantiene quel che promette; tutte deludono e tutte lasciano in bocca un senso di vuoto e di profonda amarezza.

Il dramma dell’uomo lontano da Dio è che sovente egli ignora la radice del proprio male, della propria disperata inquietudine, del proprio tormento senza fine; e, ignorandolo, si allontana sempre più dal giusto cammino, e s’inoltra sempre più nei sentieri sbagliati, infestati dai rovi e dalle spine, pullulanti di scorpioni e serpenti. Coi piedi feriti, con l’anima triste, con lo sguardo vacuo, il pellegrino si aggira di qua e di là, torturato dalla sete, illuso da continui miraggi che paiono beffare la sua speranza, il suo desiderio di giungere alla meta. Ma non c’è nessuna meta per chi non sa vedere oltre la vista degli occhi, per chi non sa udire oltre il suono delle parole; la meta incomincia ad apparire solo quando egli impara a vedere senza vedere con gli occhi del corpo, e a udire senza udire con gli orecchi: vale a dire, quando impara a distinguere ciò che è superfluo da ciò che è essenziale. Per vedere il superfluo, è sufficiente la vista materiale; ma per discernere l’essenziale, è necessaria la vista interiore.

La voce di Dio non si ode se non nel silenzio, e la luce di Dio non risplende se non nelle tenebre. Bisogna fare silenzio e tenebre nelle profondità dell’anima per incominciare a vedere e a udire veramente, e liberarsi di quel falso vedere e di quel falso udire che generano solo confusione, illusione, poi delusione e amarezza. Finché noi cerchiamo le cose per se stesse, non troveremo l’essenziale; solo quando impariamo a vederle per ciò che effettivamente sono, cioè dei ponti gettati verso l’Assoluto, delle finestre spalancate sull’Eterno, solo allora ci saremo liberati dai miraggi e dalle illusioni e saremo sulla strada giusta, che conduce alla meta.

La meta è una sola: Dio; anche se esistono diverse strade per giungervi. Ma non tutte le strade portano a Lui; ve ne sono che non portano da nessuna parte; e ve ne sono anche di quelle che portano in potere del Diavolo. Bisogna imparare a riconoscere i segni sul terreno, come il buon cacciatore sa riconoscere i segni del passaggio della selvaggina, e come il buon naturalista sa capire che tipo di sentiero sia quello che sta percorrendo, quali presenze lo abitino, che cosa egli possa e debba aspettarsi di trovare sulla riva del fiume, o nel fitto del bosco, o sulle pendici del monte. Non ci sono sentieri neutri: alcuni portano più vicino alla meta, altri conducono sempre più lontano da essa; bisogna imparare a riconoscerli, per non perdersi irreparabilmente.

Una cosa è certa: i sentieri di Dio, come ammonisce il profeta Isaia, non assomigliano per nulla ai sentieri dell’uomo; e le strade che a noi paiono spaziose e attraenti, potrebbero condurre all’Inferno, mentre quelle più impervie e difficili, cosparse di sassi e strapiombanti sull’abisso, sono forse proprio quelle che Dio ha predisposto per noi, affinché possiamo raggiungerlo. Non dovremo fare tutto da soli: Egli ci aiuterà. L’importante è ricordare che i nostri pensieri non sono quelli di Dio, e che la sua logica è differente dalla nostra, tanto quanto la terra dista dal Cielo. Non è una distanza quantitativa, ma qualitativa: si tratta di una vera e propria incommensurabilità. L’uomo che crede di aver compreso perfettamente ciò che Dio vuole da lui, quasi certamente sbaglia. Non perché Dio ci voglia tenere in uno stato di perenne confusione, ma perché non vuole che sprofondiamo nella pigrizia, che ci prendiamo troppa confidenza con i suoi disegni. Ci vuole sempre vigili e all’erta: come le vergini savie, dobbiamo stare sempre pronti, con tutto il necessario per accendere le lucerne nel cuore della notte, quando lo sposo verrà. Ma l’ora in cui verrà, nessuno la conosce: l’unica cosa che possiamo fare, è vegliare sempre, senza mai cedere al sonno.

Succede che proprio quelli che pensano di aver compreso perfettamente i disegni di Dio, cadano nella superbia e nell’illusione e si allontanino da Lui più di quelli che non hanno mai avuto una simile pretesa. Per esempio, succede che uomini di Chiesa, uomini che hanno fatto voto di dedicare interamente a Dio la loro vita, scivolino nell’abitudine e nella vanità, credano di essere giunti alla meta solo perché pensano di essere già nelle vie del Signore, e diventino, invece, delle pietre d’inciampo per se stessi e anche per gli altri, per i loro fratelli. È già successo e tornerà a succedere: tutta la storia della Chiesa è costellata di queste continue infedeltà, di queste continue deviazioni dalle vie del Signore, di queste continue adulterazioni della sua volontà, per la troppa sicurezza e per l’orgoglio di credersi già arrivati. È noto che i più grandi santi hanno dovuto soffrire persecuzioni, calunnie e sofferenze, più da parte dei loro superiori gerarchici, da parte dei pastori del gregge, che non dai nemici esterni. Questi ultimi, infatti, combattono a viso aperto: odiano Dio e vorrebbero strappargli la presa sul cuore degli uomini; ma coloro la cui anima è stata trafitta dal pungiglione dell’invidia ed è stata morsa dal dente della gelosia, coloro che si credono già presso Dio e pretendono di sapere come Lui si avvicini al cuore degli altri uomini, sono, di fatto, dei nemici ben più pericolosi, perché subdoli e perché ritenuti, a torto, dei modelli di sapienza e degli esempi da imitare.

La verità è che lo Spirito soffia dove e quando vuole e che gli uomini, allorché presumono di essere dei veri credenti, solo per il posto che occupano in senso gerarchico, o per la loro sapienza teologica, o per il giudizio altrui, sono già lontani, e di molto, dalla Verità. La Verità è in Dio, la Verità è Dio. C’è un solo modo per essere nella Verità: farsi nulla di fronte a se stessi. Quando l’ultimo granello dell’io soccombe e viene spazzato via, allora, e solo allora, l’anima è veramente in Dio; allora, e soltanto allora, può presumere di essere giunta alla meta. E tuttavia, si tratta di una conquista che va riconquistata ogni giorno, ad ogni ora e in ogni istante: non è una meta sulla quale ci si possa sedere, e tanto meno un luogo da cui si possano giudicare gli altri. Certo, si possono giudicare i loro comportamenti; ma prima bisogna giudicare i propri, e con altrettanta severità. Resta comunque un alone di mistero intorno ai disegni di Dio: per essere suoi servitori fedeli, bisogna continuamente interrogarsi e bisogna continuamente combattere contro la tentazione dell’io, che è, poi, sempre la stessa, antichissima tentazione di Adamo: quella della superbia. Pretendere di capire i disegni di Dio, con la stessa chiarezza con la quale possiamo comprendere i disegni degli uomini, è la forma più diffusa di infedeltà a Dio. Quando il credente assume un tale atteggiamento, non è di esempio ai suoi simili, ma diviene per essi motivo di scandalo. E, di fatto, sono molte le anime che sono state allontanate dalla ricerca di Dio, dopo aver avuto davanti agli occhi il comportamento di questi "credenti" superbi e indiscreti.

Dio è un padrone esigente; non si può giocare con Lui al gioco della furbizia. O si è con Lui, e ci si spoglia dell’io, oppure si è gonfi del proprio io, e si è contro di Lui. Se ci si spoglia dell’io, sarà Lui a rivestirci di forza e ad avvolgerci con tutto il suo amore, rendendoci capaci di compiere grandi cose; se si indulge nell’adorazione del proprio io, ci si allontana sempre più da Lui e si finisce per smarrire completamente la strada giusta. Ma se è un padrone esigente, è anche un padrone pieno di comprensione, di dolcezza e di sollecitudine: non manda i suoi servitori allo sbaraglio, non li manda impreparati ed inermi ad affrontare delle prove più grandi di loro; li rifornisce di tutto punto affinché possano uscire vittoriosi da qualsiasi prova. Se gli uomini cadono davanti alle prove — se cadono moralmente, perché materialmente nessuno è tenuto a diventare un essere invincibile — ciò avviene perché non sono rimasti uniti a Lui, perché hanno dubitato del suo aiuto e perché si sono illusi di potersi districare nei passi più difficili facendo appello alle loro personali risorse. Ma le risorse umane sono polvere e vento; solo l’aiuto che viene da Dio è in grado di farci da scudo, e di far sì che il nostro piede non vacilli e il nostro cuore non tremi.

Questo è il paradosso della fede: fidarsi di Dio, completamente, ciecamente, e dire sempre: Sia fatta non la mia, ma la tua volontà. La fede consiste nel saper dire una, dieci, mille volte, con animo saldo e tranquillo: Non quello che voglio io, ma quello che vuoi tu. Illuminami, istruiscimi, mostrami la strada; perché, da soli, non possiamo fare nulla. Ci accade di imboccare delle vie larghe e seducenti, e poi, a un certo punto, accorgerci che ci siamo smarriti nell’anticamera dell’Inferno. Perché la nostra vista umana è corta, e la nostra umana sapienza è follia. Rimanete nel mio amore; se rimanete in me e io in voi, darete molto frutto, ha insegnato il Maestro: il segreto è tutto qui, è qui la differenza fra il credere e no. E sarà allora che monti e colline vi acclameranno…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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