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L’intelligenza fallisce e si avvita su se stessa quando pretende di farsi dio

L’intelligenza dell’uomo è la caratteristica sovrana che lo rende tale, e di cui egli va maggiormente fiero; nello stesso tempo, la natura razionale dell’essere antropologico è proprio il luogo in cui si intersecano e si definiscono reciprocamente la sua gloria e la sua miseria.Della gloria che contraddistingue l’essenza razionale dell’uomo, molto è stato detto; assai meno si parla della sua miseria, in rapporto alla sua intelligenza. Talvolta egli si lamenta di non lasciarsi guidare a sufficienza dalla propria natura razionale; si rimprovera di lasciarsi sopraffare dalle "passioni", le quali avrebbero il potere di distruggere il suo equilibrio e il suo auto-controllo razionale. Pare quasi che solo le passioni siano intrinsecamente disordinate, mentre l’intelligenza non lo sia mai, anzi, in essa, e in essa soltanto, risieda l’umanità dell’uomo. Così la pensava, fra gli altri, Spinoza; e, in genere, così la pensano i filosofi razionalisti, specialmente se fanno coincidere la razionalità con l’intelligenza (errore a cui si sottrae Pascal).

In realtà, questo modo di vedere è figlio di una sopravvalutazione di ciò che comporta la natura razionale dell’uomo. La razionalità e l’intelligenza non sono la medesima cosa: la razionalità è la struttura ragionevole del pensare umano, l’intelligenza è la forma specifica con cui il suo pensare si esplica. In altre parole, ferma restando la natura razionale dell’essere umano, può succedere benissimo che l’intelligenza non si riveli all’altezza di quella struttura razionale, ma si esplichi in maniera deludente e fallimentare. E ciò può aver luogo secondo due schemi fondamentali: il difetto o anche l’eccesso di razionalità. Generalmente, si parla come se si verificasse quasi solo il primo caso: quello di una intelligenza che fallisce perché non sorretta da un sufficiente grado di attitudine razionale. Ciò accade quando l’intelligenza si ripiega su se stessa e non valorizza pienamente le sue potenzialità razionali. Una intelligenza che cade nella credulità, per esempio, o nella superstizione, è una intelligenza che fallisce perché si auto-limita, si auto-censura e si lascia sopraffare da elementi decisamente irrazionali. Tuttavia, esiste anche il pericolo opposto: che l’intelligenza si esalti della propria razionalità, che la assolutizzi e cada nell’auto-adorazione. L’intelligenza non è mai il fine, ma sempre e solo uno strumento di conoscenza: la vera intelligenza sa, e comprende, che essa è un elemento, sia pure un elemento importantissimo, della conoscenza, ma che non coincide con la cosa conosciuta; che essa è solo una parte dell’atto del conoscere.

Ma che cosa vuol conoscere, l’intelligenza? Non vuol conoscere, semplicemente, se stessa; non pensa di essere una cosa sola con il conoscibile. Tale identificazione è stata storicamente sostenuta da alcune correnti filosofiche, specialmente dall’idealismo: ma corrisponde ad un errore gravissimo. Se l’intelligenza, che è una forma del pensiero, fosse una cosa sola con il reale, allora tutto il reale sarebbe pensiero; ma, in tal caso, da dove avrebbe origine l’essere? E non si venga a dire che l’essere e il pensiero sono la stessa cosa: perché non tutto il reale è pensante, e perché non tutto il pensato e il pensabile sono reali. Dunque, l’essere è l’essere, e il pensiero è una sua modalità; l’intelligenza, a sua volta, è una modalità del pensiero, dunque un essere di terzo livello (dopo l’essere in sé e dopo il pensiero). Noi possiamo pensare con l’intelligenza, ma possiamo pensare anche con la fantasia e l’immaginazione: di fatto, non pensiamo mai con l’intelligenza pura, neppure quando applichiamo il nostro pensare a dei soggetti "puri", come gli enti matematici, perché in ogni atto del pensiero vi è sempre un certo grado di fantasia e d’immaginazione, come è evidente allorché ci accingiamo a risolvere un problema di geometria. L’intelligenza non è mai "pura", nel senso di assoluta: essa è sempre il risultato di un processo sinergico con la fantasia e l’immaginazione. Niente fantasia, niente intelligenza.

Il corto circuito, dicevamo, si può verificare non solo quando l’intelligenza sottovaluta e umilia se stessa, ma anche quando si sopravvaluta e si inorgoglisce: e ciò accade quando tende ad assolutizzarsi e ad assolutizzare ciò a cui perviene. Se essa giunge a identificare se stessa con il reale, impazzisce e si brucia con le sue mani. In effetti, la facoltà dell’intelligenza è così meravigliosa, che non stupisce che coloro i quali la praticano di professione — i filosofi — siano talvolta impazziti, trascinando nell’errore tutta la cultura del loro tempo. I tempi moderni sono caratterizzati da questa pazzia collettiva, nata da un peccato d’orgoglio dei filosofi: dall’aver pensato che il pensiero sia fatto solo d’intelligenza, e che l’intelligenza sia la sovrana di se stessa, e che non esista null’altro al di sopra di lei.

L’uomo medievale era consapevole di questo rischio e teneva costantemente a bada il proprio pensiero per non scivolare sul sentiero dell’accecamento e dell’auto-divinizzazione. Di fatto, ciò che tratteneva il pensiero medievale da una simile deriva era la fede religiosa. Grazie ad essa, l’uomo si ricordava costantemente del proprio limite: non dei propri limiti, ma del proprio limite: limite ontologico, cioè, inerente al proprio statuto di creatura. La creatura non può sostituirsi al Creatore, non può auto-incoronarsi: la creatura deve la sua esistenza a qualche cosa d’altro, all’Essere che l’ha originata. L’uomo medievale lo sapeva e lo teneva costantemente presente. Con l’umiltà, con la preghiera, con la meditazione sulla propria finitezza e sul bisogno che l’anima ha di Dio, sua fonte e suo principio, sua meta e sua norma d’azione. Il pensare dell’uomo medievale è un pensare umano, da creatura conscia della sua intelligenza, ma conscia anche del suo limite: un pensiero che non corre, senza che virtù no’l guidi, come dice Dante; e, soprattutto, che non si scorda mai di essere mezzo, non fine. Il fine del pensiero è l’Essere, cioè il ritorno alla sorgente da cui ogni cosa ha avuto inizio; il fine del pensiero è Dio.

Poi è venuto l’Umanesimo, e qualcosa si è incrinato: l’intelligenza ha incominciato a inorgoglirsi sempre di più, a girare a vuoto, convinta di aver realizzato enormi progressi rispetto al passato. L’uomo si è auto-convinto di aver sprecato per secoli il potenziale della propria ragionevolezza, e ha deciso che doveva recuperare il tempo perduto. Tutto quel che è accaduto dopo, di secolo in secolo, di trasformazione in trasformazione, fino all’avvento della civiltà moderna, fondata sulle macchine, sul denaro (ma non sul denaro reale: su quello virtuale, cioè la grande finanza), sulla manipolazione radicale della natura, sulla negazione della propria finitezza e sulla ricerca della propria auto-affermazione illimitata (il mito del Progresso), non è stato altro che un graduale sviluppo e approfondimento di quella intuizione iniziale: che l’uomo doveva farsi adulto, prendere in mano il proprio destino, piegare ogni cosa al proprio volere e costruire un mondo a misura ed immagine della propria intelligenza, senza riconoscere alcunché al di sopra di essa. È venuto meno l’elemento equilibratore della fede; è venuta meno la coscienza della propria finitezza; è stata recisamente negata la natura creaturale dell’uomo.

E tutto questo implica, se le parole hanno un senso e se la coerenza logica è ancora il fondamento del pensare, che la civiltà moderna è non solo una civiltà a-teistica, ma che è anche una civiltà diabolica: perché vuol mettere la creatura sul trono del Creatore; vuole negare l’Essere e affermare la superiorità dell’ente, l’assolutezza dell’ente, cioè pretende di negare che l’ente sia solamente un ente, e vorrebbe trasformarlo nell’Essere. Ma questa è, alla lettera, la pazzia, perché l’essere è sempre e solo essere, mentre l’ente dà sempre e solo enti. Nessun ente può trasformarsi nell’essere, perché l’Essere ha in sé il principio del proprio essere, mentre l’ente, qualsiasi ente, non ha in se stesso il principio del proprio essere, ma possiede solo un essere derivato. L’ente partecipa dell’essere, ma non è l’essere: senza l’Essere, l’ente scomparirebbe, anzi, non incomincerebbe neppure ad esistere. Ora, l’essenza della civiltà moderna è proprio questa: l’ingratitudine e la ribellione dell’ente che non accetta di essere solo ente, ma che pretende di porsi in luogo dell’Essere, da cui ha ricevuto l’esistenza e, con essa, anche il dono dell’intelligenza. Della quale ha fatto un cattivo uso. Come si vede, pur essendo di estrema attualità, è anche una storia vecchia, vecchissima: è, alla lettera, la storia del Peccato originale.

Queste riflessioni ci sorgono spontaneamente quando ci confrontiamo con i grandi pensatori medievali, nei quali l’equilibrio di ragione e fede è sempre dinamico, saggio, basato sulla piena consapevolezza della loro complementarità: tale, ad esempio, il caso di San Bernardo di Clairvaux.

Ha osservato Dom Oliver Quénardel, abate di Citeaux, nel saggio Un’apologia di San Bernardo per il sapere, sulla rivista semestrale dell’Associazione Nuova Citeaux, Vita nostra, anno VI, n. 1 del 2016, pp. 61-63):

… Bernardo è allora [cioè quando scrive il suo 36° Sermone sul Cantico dei Cantici, verso il 1140] nella sua piena maturità umana e spirituale. Commenta questo versetto del Cantico: "Se non ti conosci, o bellissima tra le donne, segui le orme del gregge e mena a pascolare le tue caprette presso le dimore dei pastori" (Ct 1, 8). Il sermone precedente gli ha fornito l’occasione di un lungo sviluppo sull’imperativo: "Esci". Scrive: "Lo Sposo non poteva davvero rivolgerle parole più forti ed efficaci per spaventarla, che minacciandola di farla uscire".

Subito dopo, secondo la sua abitudine, interpella vigorosamente il suo lettore o il suo uditorio:

"E si potrà bene comprendere questo, se si riflette di dove dovrebbe uscire, e dove andare. Di dove, se non dallo spirito alla carne, dai beni dell’anima ai desideri secolari, dall’interiore pace della mente allo strepito del mondo e all’inquietudine delle cure esteriori? E in tutte queste cose non c’è se non travaglio e dolore e afflizione di spirito. Quando infatti un’anima ha una volta imparato dal Signore, ed ha avuto la grazia di entrare in se stessa, e sospirare nel suo intimo verso la presenza di Dio, cercare senza posa la sua faccia, poiché Dio è spirito e coloro che lo cercano devono camminare secondo lo spirito, e non secondo la carne, una tale anima, dico, non so se stimi più orribile e penoso sperimentare per un certo tempo la stessa geenna, che dopo aver gustato la soavità di queste applicazioni spirituali debba uscire nuovamente alle attrattive, o piuttosto alle molestie della carne, e andar dietro alla insaziabile curiosità dei sensi, come dice l’Ecclesiaste: "Non si sazia l’occhio si guardare, né mai l’orecchio è sazio di udire" (Qo 1, 8).

In questo passaggio non si può rilevare nulla che riguardi direttamente la posizione di San Bernardo in relazione agli studi, ma mi è sembrato importante per noi ascoltare la gran voce dell’uomo di Dio, che, senza alcun dubbio, si riferisce alla sua esperienza personale e ci rimanda alla nostra. Chi parla qui ha molto evidentemente gustato l’INTERIORE PACE DELLA MENTE che si oppone ALLO STREPITO DEL MONDO E ALL’INQUIETUDINE DELLE CURE ESTERIORI. Si ha qui una presentazione vibrante, colorita di neoplatonismo, del combattimento spirituale nel quale l”anima che ha ricevuto da Dio la grazia di rientrare in se stessa è alle prese con la carne di cui Bernardo riconosce l’attrattiva. Ma appena ha pronunciato questa parola subito si riprende: piuttosto che attrattive sono MOLESTIE. E l’uomo pienamente maturo non tarda a vedervi ciò che, giovane abate di Clairvaux, considerava il primo grado dell’orgoglio: LA INSAZIABILE CURIOSITÀ DEI SENSI. Prosegue contrapponendo GLI INTIMI E SACRI SENSI DELLA VERITÀ E DELLA SAPIENZA dai quali l’anima era abituata ad attingere, con dolcezza, e I CAPRICCIOSI E PETULANTI SENSI DEL CORPO, per i quali, come morte dalle finestre, il peccato è entrati nell’anima, In questi ultimi riconosce quei capretti sempre avidi di pascolo presso i quali lo Sposo rimanda la Sposa. Il cercatore di Dio deve imparare ad addomesticarli.

IL FALLIMENTO DEL’INTELLIGENZA UMANA. Bernardo arriva qui al punto decisivo della sua riflessione. Tessendo l’immagine dei capretti cita il Salmo 48 e dice:

"L’uomo nella prosperità non comprende, è diventato come gli animali senza ragione e si è fatto simile a essi (Sal 48, 13). Ecco come una nobile creatura è diventata parte del gregge. Penso che i giumenti, se potessero parlare direbbero: "Ecco, Adamo è dove4nuto come uno di noi" (Gen 3, 22).

È qui che si rivela per il dottore della Chiesa il fallimento umana: L’uomo nella prosperità non ha compreso. Homo cum in honore esset, non intellexit.

"Abitava nel Paradiso, e la sua esistenza si svolgeva in un luogo di delizie. Non sentiva alcuna molestia, alcun bisogno, era stipato da meli profumati, ornato di fiori, coronato di gloria e di onore, stabilito sopra le opere uscite dalla mano del Creatore; più ancora, si distingueva per il contrassegno della divina rassomiglianza, ed era ammesso alla società degli angeli e di tutta la milizia dell’esercito celeste. Ma cambiò questa gloria di Dio con la somiglianza di un bue che mangia fieno. Di qui viene che il pane degli angeli si fece fieno, posto nella mangiatoia, servito a noi come a giumenti. Il Verbo, infatti, sé fatto carne (Gv 1, 14) e, secondo il Profeta, ogni carne è come erba (Is 40, 6, 8). Ma quest’erba non si è seccata, né da essa è caduto il fiore, perché si posò su di essa lo Spirito del Signore".

Con questo brillante ricamo di citazioni bibliche, BERNARDO RIESCE A EVOCARE IN POCHE RIGHE I MISTERI DELL’INCARNAZIONE, DELLA PASSIONE E DELLA RISURREZIONE, COSÌ COME IL LORO RUOLO DI SALVEZZA PER L’UOMO PECCATORE. Poi, citando di nuovo il Salmo 48, ritorna su questa manchevolezza dell’intelligenza umana, della quale si sforza di illuminare la causa:

"L’uomo nella prosperità non comprende. Che cosa, non comprende? Il salmista non lo dice; diciamolo noi. Posto in onore l’uomo non ha capito che è fango mentre si compiaceva del fastigio dell’onore, e subiti ha sperimentato in se stesso quello che tanto tempo dopo un esiliato prudentemente avvertì e con verità disse: Chi crede di essere qualcosa, mentre non è nulla, inganna se stesso (Gal 6, 3).Guai a lui misero, perché non vi fu allora chi gli dicesse: Perché ti insuperbisci, terra e cenere? (Sir 10, 9), Per questo la nobile creatura fu mescolata al gregge, , per questo l’immagine di Dio fu mutata in somiglianza di animali, per questo l’uomo invece del consorzio degli angeli fece società con i giumenti".

Per l’Abate di Clairvaux, il fallimento dell’intelligenza viene dunque dall’ignoranza dell’uomo della sua vera condizione: NELLA PROSPERITÀ NON HA COMPRESO CHE NON ERA CHE FANGO, PERCHÉ L’INNALZAMENTO E L’ESSERE ONORATO L’HA ILLUSO. Questa è la causa di mali così numerosi che si sono abbattuti su di lui; per sfuggirvi l’uomo deve combattere il vizio dell’ignoranza. Bernardo si impegna allora in una lunga riflessione sul lavoro che deve compiere l’intelligenza per condurre questo combattimento, ed è questo contesto che gli fornisce l’occasione di sviluppare una specie di "apologia per il sapere" nella quale consegna il suo pensiero sull’opportunità e il posto degli studi nella formazione umana e più precisamente monastica…

Come si vede, per Bernardo di Clairvaux la radice della degenerazione e del fallimento dell’intelligenza risiede nella insaziabile curiosità dei sensi: la vuota curiositas, staccata dalla cristiana virtus; una curiosità oziosa, sterile, che non cerca di comprendere in vista di un fine superiore, ma che pretende di comprendere al solo ed unico scopo di gonfiarsi d’orgoglio, di poter dire a se stessa: Ecco, ho compreso! Io, da me stessa, con le mie sole forze, ho compreso!

Questa forma di orgoglio, di superbia, e, in ultima analisi, di pazzia furiosa, è la quintessenza della civiltà moderna. La civiltà moderna si è completamente scordata della natura strumentale del conoscere: si conosce in vista di qualche cosa; e la meta del conosce deve avere una natura superiore al conoscere stesso, altrimenti si cadrebbe nell’assurdo di cercare qualcosa che giace più in basso dell’atto del cercare, e dunque l’uomo avvilirebbe se stesso, si mortificherebbe da se stesso, scenderebbe dal proprio statuto ontologico per divenire qualcosa di più basso e di più misero di quel che è.

Ebbene, questo è proprio ciò che è accaduto e sta accadendo sotto i nostri occhi. Per aver voluto farsi qualcosa di superiore a quel che egli è, l’uomo si è abbassato al livello di una creatura inferiore. È impazzito e si comporta non da uomo, ma da bestia. San Paolo, nella Lettera ai Romani, vede molto bene quel che accade quando l’uomo nega Dio quale autore dell’universo e si rifiuta di adorarlo nelle debite forme: si abbrutisce, s’imbestialisce, si perverte con le sue stesse mani, e riceve in se stesso il meritato castigo della sua follia.

Ora, il fatto che la ragione fallisca laddove essa pretende di assolutizzarsi e l’uomo di farsi il dio di se stesso, ci indica anche, al tempo stesso, quale sia la strada da intraprende, se vogliamo uscire dal tragico vicolo cieco in cui ci ha condotti l’orgoglio luciferino della civiltà moderna. La strada è chiara: si tratta di riportare l’intelligenza nel solco di un pensare che sia veramente umano, cioè cosciente del proprio limite ontologico e della propria natura non solo ed esclusivamente razionale. Ma questo è possibile solo riconoscendo la priorità dell’Essere, ossia ritrovando la fede in Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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