
Chi è il prete?
8 Luglio 2016
L’aggressione contro l’infanzia prepara l’assalto finale del Male
8 Luglio 2016Che cosa si deve pensare di un diabetico che non desista dal mangiare cibi grassi e dal consumare bevande zuccherate? E che cosa di un malato di cancro ai polmoni, che continui imperterrito a fumare due pacchetti di sigarette al giorno? Osservando il loro comportamento, si deduce che a costoro non importa di vivere, oppure — il che è lo stesso — che amano talmente il vizio del mangiare, del bere e fumare, da ignorare il pericolo, per non dire la certezza, che stanno andando incontro alla morte, pur di soddisfarlo. Non amano abbastanza la vita, questa è la logica e inevitabile conclusione a cui si giunge nei loro confronti. Evidentemente, né l’amore della moglie, o dei figli, o dei genitori, o degli amici, o del lavoro, o di qualsiasi alta cosa possa tenerli legati alla vita, è abbastanza forte da controbilanciare il loro istinto di morte. Qualcuno dirà: Bene; però, almeno, avranno vissuto nella maniera che desideravano; almeno si sono goduti la vita. Ed è vero: a patto di considerare la soddisfazione dei propri vizi, a qualunque costo e con qualsiasi rischio, come una forma di godimento della vita. È certo, però, che godimento della vita e amore per la vita non sono la stessa cosa; è certo che sono due cose diverse. La ricerca spasmodica del godimento equivale a una forma di piacere animalesco, e, infatti, essa antepone il suo soddisfacimento a qualsiasi altra cosa, compreso il rispetto dovuto a se stessi e l’amore, o, almeno, il senso di responsabilità, dovuto agli altri. Essere disposti a lasciare dei figli orfani e una moglie vedova, solo per non aver voluto rinunciare al vizio del fumo, o delle grandi mangiate e bevute, significa non aver alcun rispetto nei confronti degli altri: significa scaricare su di loro i costi e le conseguenze del proprio comportamento egoistico. E non è che una persona non sposata possa ragionare in maniera sostanzialmente diversa: ciascuno di noi ha degli obblighi verso qualcuno; e, se non altro, li ha nei confronti di se stesso.
Adesso, proviamo a trasferire questo ragionamento nell’ambito della sfera intellettuale, morale, spirituale. Noi tutti, più o meno, conduciamo una vita intellettualmente, moralmente e spiritualmente "a rischio". Non siamo disposti a privarci di nulla, anzi, abbiamo talmente fatto l’abitudine a uno stile di vita sbagliato e distruttivo, che neppure lo riconosciamo come tale. Guardiamo centinaia di programmi televisivi, di film, e leggiamo migliaia di romanzi e di fumetti, nei quali si scatena una sarabanda infernale di incitamento al vizio: al disordine sessuale, alla violenza gratuita, alla cattiveria, alla superbia, al cinismo; ma non ce ne diamo alcun pensiero e permettiamo ai nostri figli di assistere agli stessi spettacoli e di abbandonarsi alle stesse letture. Anzi, siamo noi a incoraggiarli e sospingerli su questa strada: quando regaliamo a un bambino di cinque, sei, sette anni, un computer nuovo, o un telefonino cellulare ultimo modello, sappiamo benissimo che uso ne farà: non lo adopererà certo per ragioni di studio o d’informazione, ma per dedicarsi ai giochi elettronici o per seguire programmi letteralmente infarciti di stupidità, volgarità, sesso e violenza. Poi ci meravigliamo se i nostri bambini crescono svogliati, confusi, pigri, incapaci di assumersi responsabilità, di sopportare sacrifici: siamo noi stessi che abbiamo dato loro il cattivo esempio e, come se non bastasse, li abbiamo agevolati nel seguirlo. Forse, inconsciamente, molti genitori pensano che, se riusciranno a corrompere i loro figli, si sentiranno meno colpevoli per la vita moralmente disordinata che fanno. Inoltre, regalando ai bambini computer e telefonini, molti genitori cercano di farsi perdonare la lontananza fisica e affettiva, la distrazione, e, soprattutto, il fatto di calpestare e demolire la propria famiglia, inseguendo avventure extraconiugali e causando separazioni e divorzi, dei quali i piccoli soffrono, eccome (anche se psicologi da quattro soldi sono pronti a giurare il contrario, specialmente nei salotti televisivi, ma solo per compiacere i gusti del pubblico).
Poi, quando si leggono i giornali, o si ascoltano i telegiornali, ci si meraviglia e ci si indigna per il dilagare del vizio, della crudeltà, del disordine sessuale, della violenza e della corruzione: meraviglia e indignazione che valgono quanto varrebbero quelle di un diabetico che rimproveri a un altro diabetico il fatto di mangiare e bere senza alcuna regola. Conduciamo uno stile di vita malato, distruttivo, e poi ci meravigliamo dei risultati: abbiamo perfino il coraggio di salire sul pulpito e giudicare gli altri. Però non siamo minimamente disposti a modificare un tale stile di vita; anzi, il più delle volte non sappiamo neppure — o fingiamo di non sapere — che è proprio quello stile di vita all’origine di tutti i nostri guai. Oggi imperversano programmi televisivi dedicati a storie vere che parlano sempre e solo di tradimenti sessuali e di delitti sessuali: lo spettatore li guarda, magari mentre è seduto a tavola, e intanto soddisfa la sua curiosità morbosa, il suo voyeurismo, le sue tentazioni adulterine, i suoi istinti sadici; poi, però, se incomincia a cadere nel vizio, non fa due più due, non si chiede come abbia avuto inizio la sua degradazione. Se, poi, scopre il tradimento della propria moglie, o del proprio marito; se scopre che il socio in affari lo ha truffato, o che il proprio amico lo ha calunniato, si indigna e monta in cattedra: perché certe cose, lui, non le farebbe; a certe bassezze, non arriverebbe mai. Strano: sono sempre gli altri a fare il male. Intanto, però, è tutta la società che sembra essere impazzita.
Tutto questo sta accadendo sotto i nostri occhi, con la nostra complicità, o con la nostra connivenza: stiamo correndo verso il precipizio, ma con il sorriso sulle labbra. Come il malato di cancro ai polmoni, non smettiamo di fumare neppure una delle nostre sigarette: non sappiamo, né vogliamo privarci dei nostri vizi, delle nostre cattive abitudini. Sono diventati una parte di noi; non potremmo neppure immaginare la nostra vita senza di essi. Noi e i nostri vizi siamo diventati una cosa sola. Però, per carità, non chiamiamoli vizi: sa troppo di bigottismo, di cattolicesimo. Al massimo, e solo nei casi più gravi e drammatici, possiamo chiamarli errori, leggerezze. Siamo arrivati al punto che parlare di "vizio" è politicamente scorretto e meritevole di denuncia penale. Guai a dire le cose come stanno; guai a rimproverare alle persone di tenere dei comportamenti disordinati, riprovevoli, immorali: significa attentare alla sacra sfera delle libertà individuali. Quando scoppiò la sindrome dell’AIDS, nessuno poteva dire che quel tipo di persone omosessuali, che avevano centinaia di rapporti promiscui e non protetti nel corso di un anno, frequentando i locali più dissoluti di certi quartieri a luci rosse, si erano messe nelle condizioni di ammalarsi: non lo si poteva dire, perché scattava l’accusa di omofobia, di mancanza di carità. Bisognava tacere e fare finta che quegli stili di vita fossero normalissimi, e che le malattie provocate da tali stili, fossero, invece, l’opera di chissà quale sfavorevole congiuntura astrale.
La sola conclusione di carattere generale che si può trarre da un simile stato di cose, è che la nostra società nel suo insieme, e la maggioranza delle persone, singolarmente prese, hanno smesso di amare la vita. Se la amassero, non si comporterebbero così. Invece hanno smesso di amarla, al punto da preferire di indulgere nei propri vizi, piuttosto che fermarsi ed evitare la caduta nel baratro. Perché è certo, assolutamente certo, che stiamo correndo dritti verso il baratro. Una società dominata dal vizio non può sopravvivere a lungo: è matura per il crollo. Crollerà dall’interno, prima ancora che i nemici esterni l’abbiamo espugnata. Il crollo demografico e, parallelamente, la pratica legalizzata dell’aborto come forma di controllo delle nascite, stanno a testimoniarlo. Noi non amiamo più la vita: questa è la verità. I nostri nemici se ne sono accorti e stanno facendo leva su questo nostro segreto tumore, su questa malattia che ci consuma dall’interno. Dietro le vetrine scintillanti del nostro cosiddetto benessere, e dietro l’apparente vitalismo e l’apparente edonismo dei nostri comportamenti, vi sono una segreta angoscia e un cupo, insopprimibile istinto di auto-distruzione. Questo è il destino di chi smette di amare la vita: desiderare segretamente la propria fine, la propria distruzione morale e materiale. Nessuna meraviglia per quello che ci sta accadendo, pertanto: è il naturale punto d’arrivo dell’odio che abbiamo verso noi stessi e nei confronti della vita in quanto tale. Vorremmo morire e vorremmo che il mondo finisse con noi.
È la sindrome di Heinrich von Kleist, lo scrittore romantico tedesco che, nel 1811, si suicidò con un colpo di pistola, dopo avere ucciso con un colpo al cuore la sua amica (nessun amore disperato fra i due: Kleist era omosessuale ed Henriette Vogel era malata di cancro). Più recentemente, come non pensare a quel pilota di un aero di linea tedesco, Andreas Lubitz, di soli ventisette anni, che, nel 2015, portò deliberatamente il suo apparecchio a schiantarsi contro una parete delle Alpi provenzali, causando la morte di 150 persone innocenti? E non si trattò di una crisi depressiva imprevedibile. L’inchiesta ha dimostrato che costui aveva programmato la sua azione fin nei minimi particolari e non aveva lasciato nulla al caso: voleva morire e voleva trascinare con sé tutti i passeggeri e l’equipaggio. Vi è, in simili comportamenti, più diffusi di quanto non si pensi, anche se si manifestano in forme meno spettacolari, una volontà maligna di distruzione e auto-distruzione che fa pensare al diabolico, al Male assoluto: in effetti, riesce difficile immaginare una espressione più perversa, più infernale, della volontà malvagia allo stato puro. Spezzare le vite altrui senza alcuna finalità che il piacere satanico di vederle morire con sé. Come dire: Io muoio, ma il mondo (o, in alternativa, il numero più grande possibile di persone) verrà con me.
Ci viene anche in mente ciò che recentemente ha detto un noto esorcista, don Gianni Sini, nel corso di una intervista al settimanale Miracoli, anche alla luce di conversazioni avute con altri suoi colleghi: gli esorcismi, in questi ultimi anni, sono divenuti molto più lunghi e più difficili. Fino a qualche tempo fa, bastava sovente un solo rito per scacciare il Demonio da una persona posseduta, mentre ora sono necessarie settimane, mesi, anni, e talvolta decenni, prima di ottenere la vittoria definitiva. È come se il Diavolo sentisse che la sua ora è arrivata, che questo è il suo grande momento; è come se resistesse con arroganza, con protervia, e rifiutasse di andarsene, di abbandonare il campo e riconoscersi vinto. Infatti, perché mai dovrebbe riconoscersi sconfitto, se tutto, o quasi tutto, nella società odierna, sembra andare per il verso da lui desiderato, e sottostare alla sua malvagia influenza, o subire il suo fascino sinistro? E se perfino nella Chiesa cattolica vi sono indizi preoccupanti della sua presenza (il fumo di Satana in Vaticano, di cui parlava, già negli anni ’70 del secolo scorso, il papa Paolo VI), al punto che, proprio lì dove ci si aspetterebbe di trovare la massima difesa, si trovano, invece, i suoi agenti e le sue opere? E il fatto stesso che, da almeno un secolo a questa parte, si sia smesso di parlare nel Diavolo, e che perfino molti sacerdoti non ci credano più, e non pochi vescovi rifiutino di avere degli esorcisti nelle loro diocesi: tutto questo non è forse il segno della sua massima vittoria; di una vittoria così strepitosa, da indurre il mondo intero ad abbassare le armi davanti a lui e lasciarlo passare liberamente, come, dove e quando egli lo vuole?
Esiste una via d’uscita da questo vicolo cieco, una qualche possibilità di salvezza per il nostro avvenire, sia come individui che come società? Non lo sappiamo. Tuttavia, una cosa è certa: perseverare sulla china del vizio non avrà altro risultato che affrettare la nostra fine. La prima cosa che dovremmo fare, è smettere di corteggiare il male e astenerci da tutte le tentazioni, da tutte le suggestioni, da tutte le situazioni nelle quali il male, che è dentro di noi, viene ridestato, stimolato, incoraggiato ad erompere. Una pseudo-scienza da quattro soldi ci ha quasi convinti che è cosa sbagliata e nociva reprimere gli istinti; che nessuno ha il diritto di proibire alcunché, a cominciare dai genitori nei confronti dei loro figli; e che tutto è lecito quello che piace, che procura emozioni forti, che conferisce un senso di benessere, per quanto illusorio e fuggevole. La verità, però, è molto diversa: ed è quella che i nostri nonni sapevano benissimo, e che tutte le generazioni precedenti hanno conosciuto e cercato di praticare (anche se non sempre le singole persone ci riuscivano): il bene va incoraggiato e merita di essere perseguito; il male va respinto e disprezzato. Il male, specialmente ai nostri giorni, è abile nell’ammantarsi di apparenze piacevoli; si mimetizza, cerca di farsi scambiare per il suo contrario, cioè il bene: e a ciò contribuisce l’estrema confusione intellettuale della civiltà moderna, dove il principio di piacere viene equiparato al principio del bene, mentre sono due cose diverse, almeno nel senso (alquanto grossolano) che s’immagina la maggior parte delle persone.
Tutto questo è moralismo, bigottismo, conservatorismo? Il fatto stesso d’aver simili dubbi significa che il male ha fatto enormi progressi dentro di noi. Vogliamo consentirgli di conquistarci del tutto?
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels