Il Concilio Vaticano II è stato il frutto d’un agguato dei modernisti alla Chiesa
5 Luglio 2016
Purificare l’intelletto, condizione necessaria per la chiarificazione spirituale e la pace interiore
6 Luglio 2016
Il Concilio Vaticano II è stato il frutto d’un agguato dei modernisti alla Chiesa
5 Luglio 2016
Purificare l’intelletto, condizione necessaria per la chiarificazione spirituale e la pace interiore
6 Luglio 2016
Mostra tutto

La democrazia odierna, fatta d’idee e non di cose, ha in sé i germi della dissoluzione

Uno strano personaggio, metà fantasma, metà vampiro, si aggira per la scena del mondo contemporaneo: l’homo democraticus, frutto degenere e mostruoso di un grande equivoco, o, forse, semplicemente, di una grande mistificazione e di una grande truffa, della quale egli stesso è in parte vittima, in parte strumento, mai – però – protagonista effettivo. Che egli sia un fantasma, un ectoplasma, un vampiro destinato a dissolversi ai primi raggi del giorno nascente, ciò è stato pietosamente mascherato, fino ad ora, dal fatto che le società governate dalla democrazia moderna, per secoli e secoli, erano state, comunque, delle società organiche, ed avevano accumulato, attraverso numerose generazioni di uomini laboriosi, delle poderose riserve di socialità, di civiltà, di saggezza, di risparmio, di buoni costumi. Ora, però, le riserve si stanno esaurendo e la verità sta emergendo impietosa: il re è nudo; le democrazie moderne sono degli aggregati innaturali e truffaldini privi di sostanza vitale propria, costrette ad alimentarsi succhiando il sangue altrui, come degli organismi parassiti, come dei funghi, per poter trascinare indefinitamente il loro inutile, disordinato e distruttivo ciclo vitale.

La ragione fondamentale per cui la democrazia moderna è, per definizione, un guscio vuoto, i cui membri, senza rendersene conto, sono retrocessi a sudditi d’una invisibile tirannia collettiva, della quale essi stessi (e questo è un ulteriore paradosso) sono anche, ciascuno per la sua parte, i minuscoli tiranni, è data dalle loro dimensioni. Le democrazie antiche e medievali — le poleis e i comuni — erano molto piccole, avevano le dimensioni della città, e non abbracciavano che una parte della popolazione residente: oltre alle donne e agli schiavi, ne erano esclusi anche gli stranieri (meteci) e gli abitanti del contado. La Atene di Pericle, per avere un’idea, si calcola che avesse una popolazione di 150 mila abitanti, più 100 mila schiavi. Una democrazia moderna come la Repubblica Italiana, di 60 milioni di abitanti, o come gli Stati Uniti d’America, di 325 milioni, o come l’India, di 1 miliardo e 276 milioni, è una contraddizione in termini. La democrazia si basa sull’idea e sulla pratica del governo popolare diretto: ma, evidentemente, quando si parla di decine o centinaia di milioni, e addirittura di miliardi di cittadini, il "popolo" diventa un’astrazione. Di fatto, gli elettori delegano dei tecnici alle responsabilità di governo: il quale, dovendo amministrare una popolazione così numerosa, si trova a dover affrontare quotidianamente problemi estremamente complessi, che vanno molto al di là delle competenze e anche della pura e semplice capacità di comprensione del cittadino comune. Diremo di più: vanno al di là dei suoi interessi. Nelle democrazie del passato, il cittadino era cointeressato a tutti gli aspetti del governo cittadino, perché si trattava di cose, di problemi, di uomini, che egli conosceva direttamente e personalmente; su molte di tali cose sarebbe stato in grado, se non proprio di gestirle, quanto meno di comprenderle e di esprimere un giudizio motivato sul da farsi.

Nelle gigantesche democrazie moderne, il filo diretto tra il cittadino e la cosa pubblica si è spezzato: egli non conosce bene quali siano i problemi del governo, si fida di coloro che governano, pensa e spera che essi agiscano per il meglio; quanto a sé, chiede solo di poter lavorare in pace, di non essere sottoposto a un prelievo fiscale esagerato, di poter usufruire, se del caso, di un sistema giudiziario efficiente e ragionevolmente rapido. Solo che tutto questo, quand’anche si svolgesse in maniera ordinata e corretta, non è più democrazia: è un’altra cosa. Quel che succede, in effetti, è che si forma una casta di potere relativamente chiusa, decisa a difendere a oltranza i propri interessi e i propri privilegi, più che a governare nell’interesse del "popolo", entità evanescente e ininfluente, manipolabile a piacere. Date le premesse, questo processo degenerativo è pressoché inevitabile: è inevitabile, vogliamo dire, che, in una democrazia di 60, di 300 o di 1.200 milioni di abitanti, chi viene eletto per governare, lo fa senza subire un effettivo controllo da parte dei cittadini-elettori, i quali hanno solo lo strumento della non rielezione per manifestare il loro giudizio negativo, ma poi, per stanchezza o per mancanza di alternative decenti, finiscono per votare nuovamente quelli stessi che già una volta li hanno delusi.

A questo male fisiologico delle grandi democrazie se ne aggiunge un altro, ancora più grave: l’ingerenza e la prepotenza della finanza, che, manovrando dietro le quinte, è in grado di esercitare un saldo controllo sui politici e, attraverso la stampa, la radio e la televisione, sull’ opinione pubblica. Nelle democrazie moderne, l’opinione pubblica è una quantità fondamentale, originata dal fatto che, in esse, i cittadini hanno a che fare non con la realtà, ma con l’idea che si son fatta della realtà: e tale idea è stata sostanzialmente costruita dai mezzi d’informazione. Ora, chi controlla i mezzi informazione, controlla la pubblica opinione, cioè controlla la democrazia; e siccome il potere effettivo, nel mondo moderno, è quello delle banche e delle borse, ne consegue che le democrazie moderne altro non sono che il paravento dietro il quale l’alta finanza fa e disfa, a suo piacere, i governi, gli stati, le economie, le guerre, la pace, le rivoluzioni e le crisi economiche. Né deve stupire se, a questo punto, intuendo di essere solamente delle misere pedine, del tutto irrilevanti e ininfluenti, molti cittadini-sudditi di siffatte democrazie si sono disamorati della vita pubblica e hanno smesso di esercitare il loro sterile diritto di voto, rinchiudendosi nella sfera del privato e rinunciando a recitare la commedia della partecipazione alla società civile. E anche questo è fisiologico: una volta che smettono di "informarsi" presso la stampa e la televisione, di cui hanno riconosciuto il carattere truffaldino e mercenario, i cittadini smettono anche di partecipare agli inutili rituali della democrazia.

Vale la pena di rileggersi una riflessione più che mai "inattuale" di Marcel De Corte (1905-1994), il filosofo belga che fu, per anni, professore all’Università di Liegi, della quale divenne anche rettore, nella sua opera fondamentale: L’intelligenza in pericolo di morte, nella quale mostrò una lucida comprensione di tali dinamiche, proprio negli anni in cui il "popolo", lusingato e spronato dalla cultura progressista e di sinistra, coltivava più che mai l’illusione di essere il vero protagonista delle moderne democrazie, mediante forme di partecipazione sempre più dirette e incisive (titolo originale: L’intelligence en péril de mort; Paris, Editions du Club de la Culture Française, 1969; traduzione dal francese di Orsola Nemi, Roma, Giovanni Volpe Editore, 1973, pp. 157-160):

… La democrazia, che oggi conosciamo, non ha nessuna comune misura con la democrazia del passato, con la democrazia ateniese per esempio, o con le democrazie comunali del Medio Evo, più di quanto l’abbia con la democrazia legittima descritta da Pio XII, seguendo i grandi filosofi politici del passato, o con la democrazia elvetica di oggi. La differenza che le separa non sta soltanto nella estensione, quelle ricoprivano uno spazio geograficamente e demograficamente ristretto, mentre questa al contrario si dispiega nei grandi spazi, nei grandi numeri sino a rendere, secondo la promessa di Roosevelt, "the world save for democracy" e trasformare la macchina rotonda in democrazia universale provvista di un governo mondiale.

Come abbiamo detto in precedenza, e come bisogna ripetere, tanto il vocabolario politico e sociale è divenuto capzioso e perfido, il cittadino non si comporta nello stesso modo nei due sistemi che apparentemente sono adunati sotto una identica denominazione. In una democrazia a misura d’uomo, il cittadino conosce direttamente e per esperienza i dati dei problemi che deve risolvere. Se li ignora, conosce nel medesimo modo l’uomo o gli uomini che li conoscono e nei quali ha posto la sua fiducia, per aver vissuto con loro. Non accade lo stesso nelle vaste democrazie moderne, siano borghesi, siano comuniste, "formali" o "reali", così pretese o no. Le questioni poste al cittadino sono talmente ampie e complesse che egli non può conoscerne i dati attraverso la sola fonte autentica di conoscenza: l’esperienza. Gli esseri e le cose che dipendono dalla sua decisione sono per lui, sia egli "rappresentante" sia "rappresentato", semplici RAPPRESENTAZIONI mentali e astratte, non presenze reali e concrete. Esattamene accade per colui che si definisce "capo dello Stato democraticamente eletto". Uno di loro pronunciò questa frase straordinaria che per una volta tanto rivela il suo nascosto proposito: "MI SONO FATTO una certa IDEA DELLA FRANCIA…": Per lui la Francia carnale, in mancanza della continuità che identifica l’interesse dinastico con l’interesse nazionale istaurato dalla monarchia ereditaria, non è altro se non il pretesto, l’argilla nella quale infonde la rappresentazione mentale che ne ha.

Degli esseri e delle cose di cui non ha esperienza il cittadino può farsi "un0idea", un’opinione. Può immaginarli. Non può mai conoscerli effettivamente. Ne risulta che il cittadino dei regimi democratici moderni non può mai risolvere, se non verbalmente, i problemi che gli vengono posti: è un re merovingio di cui bisogna cercare altrove il maggiordomo. Non avendo nessuna affinità vissuta con la sua cerchia sociale e politica, è obbligato a ricorre all’immagine che se ne foggia nell’interno del suo pensiero e a proiettarla nella pasta molle e amorfa di ciò che si chiama società per darle una forma. Ma essendo in genere la sua capacità immaginativa molto limitata, è costretto ad appellarsi agli informatori, che gli offrono modelli prefabbricati. Ne adotterà l’uno o l’latro, in virtù della sua corrispondenza con la realtà che è impotente a scoprire, non per conoscenza di causa, non perché la sua intelligenza lo giudichi adeguato, ma mosso da impulsi e affetti che l’informatore ha interesse a suscitare in lui, per esserne padrone, e che non hanno nulla di reale, né di razionale. "Il nostro ardente desiderio di unione coi nostri compagni è tale", scrive in maniera pertinente Bertrand de Juvenel, "che tanto meno si attua nei rapporti quotidiani, tanto più sogniamo di ‘istituirlo’ in grandi proporzioni".

La natura si vendica sempre. Non potendo attuare i dati dell’esperienza, l’intelligenza dell’uomo, immersa negli agglomerati, non trova sbocco se non nell’immaginario. La nazione, nel significato moderno preso dalla parola dopo la Rivoluzione francese, i nazionalismi, gi internazionalismi, i supernazionalismi sono immagini della società esistente solo nella mente dell”homo democraticus’ contemporaneo che tendono a prendere corpo nelle costituzioni e nelle istituzioni (per non parlare delle "strutture"!) sottoposte a perpetue contestazioni e a incessanti riforme. La furiosa follia che consiste nel voler creare di sana pianta, partendo da una fantasia della mente riversata sulla carta, "repubbliche" nuove e che infuria dalla decolonizzazione in poi, ne è un altro esempio. Nulla genera più odio e rovine di questa specie di allucinazione politica di cui sono preda esseri umani improvvisamente sradicati, tolti alla cornice della loro cerchia abituale.

Era prevedibile. È proprio della democrazia moderna poggiare soltanto sull’individuo: per esprimere la sua volontà politica, il cittadino entra nell”isolatore'(la cabina elettorale). È chiamato a trasformare il mentale in sociale, l’immaginario in realtà, il logico in ontologico. Il tentativo si conclude infallibilmente con uno scacco. L’ineluttabile fallimento del sistema democratico moderno è stato a lungo mascherato dalle riserve sociali accumulate nei comportamenti tradizionali, dai quali il regime aspirava la sostanza da inocularsi, per avere una vita fittizia, e dal cumulo delle leggi, dei regolamenti e delle strutture burocratiche che servivano di protesi alla condotta sociale anemizzata e vacillante. Siamo adesso alla fine del rotolo: la risorse ammassate nelle antiche comunità naturali sono quasi esaurite e le stampelle accumulate per far camminare il cittadino — se ancora si può usare questa parola — sono divenute un fardello intollerabile che lo immobilizza. Le esplosioni dell’istinto sociale privo di sbocco e ridotto all’animalità, che da per tutto si moltiplicano sotto i nostri occhi, come pure l’atonia che quasi ovunque affligge le liturgie elettorali, sono segni che non ingannano: la democrazia moderna ha potuto costruire soltanto nelle nuvole il ponte che l’avrebbe portata fuori dell’immaginario nella realtà sociale.

C’è poco da aggiungere a questa penetrante analisi, fatta proprio negli anni intorno al ’68 e alla grande illusione della cultura politica di segno democratico e progressista. L’accenno dell’Autore alla decolonizzazione meriterebbe, poi, di essere ulteriormente sviluppato: se irrisolvibili sono le aporie di una grande democrazia occidentale, la quale, bene o male, può vantare una certa tradizione e può contare, come si è visto, sul prelievo, e sia pure parassitario, di un certo "deposito" sociale accumulato in precedenza, che dire di democrazie improvvisate dalla sera alla mattina, come la Repubblica democratica del Congo (la ex colonia belga, nel 1960), per le quali non esisteva neppure una nazione, ma solo un caotico assemblaggio di etnie, clan e tribù diversi, e, spesso, tradizionalmente ostili; non esistevano confini, né una economia unitaria, né una cultura condivisa, insomma niente di niente? Eppure, per fare un altro esempio, l’India — la più grande democrazia mondiale — ha una origine di questo tipo.

Dunque: la democrazia moderna ha in se stessa i germi della propria dissoluzione, perché i suoi cittadini non hanno a che fare con la realtà delle cose, ma con una realtà virtuale e parallela alle cose: quella dell’idea che si son fatta di esse. E se questo è vero al vertice della piramide, ad esempio per un Charles de Gaulle, il quale dichiara apertamente di essersi fatto una certa idea del suo Paese, ciò è tanto più vero per chi sta alla base di essa, cioè il cittadino comune, poco e male informato, perché la sua "idea" deriva quasi unicamente, oltre che dalle sue osservazioni dirette (sempre insufficienti, in una società di tali dimensioni) dalla pubblica informazione: che è, come si è visto, direttamente o indirettamente controllata dal potere politico e, a monte, ma in maniera invisibile, da quello finanziario.

Soluzioni? Onestamente, non ne vediamo molte.

Una cosa, comunque, è certa: tanto per cominciare, dovremmo sforzarci di tornare alle cose e lasciar perdere la fissazione delle idee; dovremmo de-ideologizzare la nostra visione del reale. Ma come? E a quale prezzo, con quali rischi? Una delle conseguenze del fatto che la democrazia moderna si basa sulle idee, e non sulle cose, è la nascita dei moderni partiti politici, che sono, appunto, delle società di idee (passando per la fase dei "club" del 1789: come assai bene aveva visto Augustin Cochin): società quanto mai artificiali, dunque, e non organiche, che raggruppano individui diversissimi, i quali non hanno quasi nulla in comune e che mai si vedranno e si conosceranno, e il cui unico collante sono proprio le idee… o, più spesso, per dirla tutta, la loro contraffazione. Perché le idee, le idee "vere", sono il prodotto del pensiero, all’interno di una società organica; in una società artificiale e virtuale, la gente non pensa affatto, o pensa il minimo indispensabile per la sopravvivenza quotidiana; e le "sue" idee non sono altro che le fotocopie di ciò che raccontano i mass-media….

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.