
«Voi siete il sale della terra»
1 Luglio 2016
Gli uomini cercano nelle anime consacrate l’impronta di Dio sulla terra
2 Luglio 2016La mappa ideale della nostra vita interiore, se potessimo contemplarla con occhio limpido e con autentica consapevolezza, ci mostrerebbe una geografia assai più complessa, tormentata e problematica di quel che la maggior parte di noi sia portata ad immaginare. Oltre al bene e al male che abbiamo fatto, in gradi e forme diversi di coscienza, vi sono vaste aree grigie, o piuttosto bianche: tavole e tavole bianche sull’atlante del nostro paesaggio spirituale, così rimaste non perché mancasse un cartografo capace di riempirle con delle rappresentazioni veritiere, ma perché su quelle pagine proprio noi ci siamo rifiutati di scrivere alcunché. In altre parole, le cose che abbiamo omesso di fare, pur sentendo che avremmo dovuto farle, pesano, come un perenne rimorso, su quelle tavole bianche, che si presentano come una Terra necdum cognita, e che non potranno più essere riempite, perché quel che non è stato fatto non può essere recuperato a nostro talento, quando così ci piaccia; senza contare che noi non sappiamo quando verrà il momento in cui il libro sarà chiuso, e nessuna mano potrà più scrivervi dell’altro.
Possiamo paragonare le azioni che abbiamo omesso di fare – le azioni buone, naturalmente — a dei sentieri che abbiamo lasciato indietro sulla nostra strada, a dei sentieri che non abbiamo percorso quando era il momento di farlo, e quando la nostra voce interiore ci suggeriva che avremmo dovuto imboccarli, lasciando la strada lungo la quale, allora, ci eravamo avviati. Perché quella voce interiore esiste, ed è sufficientemente udibile da chiunque sia disposto, anche solo minimamente, a prestarle orecchio; ma certo non può essere udita da chi, volontariamente, si tappi gli orecchi, o da chi si stordisca in mezzo a rumori assordanti, proprio con l’intenzione di soffocarla e di avere così l’alibi per non fare ciò che essa ci esorta, invece, a fare. Non si stratta di un semplice peccato di pigrizia: poiché tutte le cose, secondo giustizia, sono reciprocamente solidali, omettere di fare ciò che andrebbe fatto equivale a interrompere circuito virtuoso e provocare delle conseguenze negative le quali si ripercuotono, in una maniera o nell’altra, fino agli estremi confini dell’universo.
Esiste, infatti, un principio di giustizia che è immanente alla realtà fisica e alla dimensione della vita visibile, anche se le sue radici affondano nelle profondità insondabili della realtà soprannaturale. E tale principio di giustizia è cosiffatto, che non una sola pietra, anzi, non un solo granello di polvere delle sue possenti architetture, possono ritenersi al di fuori della sua logica, della sua intima necessità; non una parola, o un gesto, né un silenzio, o una assenza di gesti, risultano indifferenti e ininfluenti nel gioco reciproco delle forze e degli equilibri. La realtà è quella che è, perché ciascuna delle infinite possibilità della vita morale è stata esplorata o trascurata, è stata realizzata oppure è stata omessa. Noi, pertanto, ci dobbiamo confrontare sia con quello che abbiamo fatto, detto, pensato, sia con quello che non abbiamo fatto, che non abbiamo detto, o che, pur pensandolo, abbiamo scartato, come cosa in cui non valesse la pena impegnarsi.
Questo non significa che tutti i sentieri debbano essere percorsi, o che tutte le possibilità debbano essere esplorate. Per sapere che la droga fa male, non è necessario drogarsi; e per convincersi che la dissolutezza, la disonestà, la maldicenza, sono foriere di frutti cattivi, non vi è bisogno di praticarle. Certo, praticarle e poi pentirsene, e modificare il proprio modo di vivere, è meglio che perseverare in esse; nondimeno, sarebbe ancora meglio evitare di sprofondarvi, e tenersene lontani fin dal principio. Le azioni che abbiamo avuto il torto di tralasciare, tuttavia, non sono quelle moralmente indifferenti (ammesso che vi siano azioni moralmente indifferenti), bensì quelle da cui avrebbe potuto scaturire qualche bene, per noi o per gli altri, e dalle quali ci siamo astenuti. Una delle più tipiche è la mancanza di perdono e il rifiuto della riconciliazione con coloro i quali ci hanno teso una mano. A meno che accettare quella stretta di mano comporti un compromesso a sua volta moralmente dannoso, o faccia perdurare una situazione vischiosa, di ambiguità e di equivoco, rifiutarla equivale a omettere un bene concreto e quasi certo, e aprire la strada ad un male assolutamente sicuro: il perdurare del rancore, nostro e altrui, e quindi il perdurare di uno stato di disordine morale, di passioni negative e potenzialmente distruttive.
Qualcuno potrebbe pensare che vi è un rigore eccessiva nell’idea che si debba rendere conto, nella propria vita morale, non solo delle azioni, ma anche delle omissioni; eppure il Vangelo, su questo punto, è chiarissimo. Basti pensare alla parabola dei talenti: al ritorno da una lunga assenza, il padrone premia i due servi che hanno fatto fruttare i denari che aveva affidato loro, ma rimprovera e punisce molto duramente, scacciandolo, il terzo servo, al quale aveva affidato meno denaro che agli altri; il quale, a differenza di essi, lo aveva nascosto sotto terra, e che, pertanto, glie l’ha restituito intatto, ma sterile, per così dire, cioè senza averlo fatto fruttare minimamente.
Questo argomento è stato sviluppato in modo acuto da una interessante figura di religioso "tradizionalista" dei nostri giorni, monsignor João Scognamiglio Clà Dias, nato a San Paolo del Brasile nel 1939 da padre spagnolo e madre italiana, che è stato il principale discepolo di Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), leader del movimento cattolico "conservatore" Tradizione, famiglia e proprietà; e fondatore, a sua volta, del movimento Araldi del Vangelo, che dal Brasile, si è diffuso in tutto il mondo, Italia compresa. Scognamiglio Clà Dias è stato il fondatore dell’Associazione omonima, ufficialmente riconosciuta dalla Chiesa, e di due Società clericali, una maschile, Virgo Flos Caermeli, e una femminile, Regina Virginum; in un suo articolo, dal titolo significativo: Basta evitare il male per ottenere il Cielo?, di cui riportiamo un breve stralcio, ha preso lo spunto dalla parabola evangelica dei talenti (sulla rivista Araldi del Vangelo, edita dall’Associazione Madonna di Fatima, Mira, Venezia, n. 103, novembre 2011, pp. 16-18):
Quanto al terzo servo, terribile è la sua situazione! Giunta l’ora di render conto, capisce che si era lasciato condurre dall’egoismo e dalla mancanza di zelo. Invece di utilizzare i doni per la gloria di Dio e la salvezza delle anime, ha pensato solo alla sua propria convenienza. Ora, quando Dio ci concedere determinate qualità, vuole che esse siano usate a beneficio degli altri, come ammonisce San Pietro: "Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola al servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio" (1 Pt. 4, 10). Insomma, la Legge non si riassume nell’amore verso Dio e il prossimo come verso se stessi? Siccome il bene è eminentemente diffusivo, il servo negligente dovrebbe aver esclamato con San Paolo: "Guai a me se non predicassi il Vangelo!" (1 Cor., 9, 16). Sulla necessità di procedere così, un moralista contemporaneo spiega: "Il cristiano smette di essere fedele, non solo nella misura in cui rinnega la sua fede, ma anche nella misura in cui non si sforza di farla fruttificare. […] è una legge, non di ‘morale’, ma della vita. […] Ogni fecondità implica uscita da se stessi, uscita che è rischio e donazione" (Aurelio Fernandez, "Teologia moral", Burgos, 1992, vol. I, p. 249). In sintesi, afferma Sant’Agostino: "Tutta la colpa del servo redarguito si riduce a questo: non ha voluto dare. Ha conservato integro il valore ricevuto, ma il Signore voleva i suoi guadagni. Dio è avaro relativamente alla nostra salvezza" (Sermo 94). […]
Davanti al buon esempio dei due servi chiamati per primi, colui che ha un talento certamente si è reso conto del suo cattivo procedimento. Avrebbe potuto riconoscere la sua colpa e chiedere perdono, ma la parabola […] rappresenta il momento del Giudizio, quando non c’è più tempo per far rendere i talenti ricevuti. "Qualis vita, finis ita": la persona sarà giudicata per quello che ha fatto e per quello che omesso di fare. Invece, quando avrebbe dovuto aver lavorato a favore del suo signore, il servo si è illuso, pensando che gli mai sarebbe ritornato. Allora ha ritenuto fosse possibile trovare una buona scusa nell’ora di rendergli conto o ha fatto qualche altro ragionamento per giustificare la propria indolenza. Ora egli ha "paura", perché vede l’impossibilità di occultare la propria negligenza. Invece di riconoscere di aver sbagliato, si ribella contro il padrone, accusandolo di essere ingiusto: "Signore, so che sei un uomo severo, poiché raccogli dove non hai piantato e mieti dove non hai seminato". È quello che accade quando la persona, per colpa propria, non fa rendere i talenti a lei affidati: cerca false ragioni per giustificare il male realizzato. Perché l’essere umano è un monolite di logica. In occasioni come questa, afferma il moralista sopra menzionato, si incolpa la Provvidenza per l’"ingiustizia esistente nel mondo, si imputa all’Altissimo la responsabilità di questo male quando, in realtà, è l’inefficacia dell’uomo che ha generato tanta miseria che si erge insultante contro il piano di Dio" (op. cit., p. 250). Temeraria insolenza, perché Dio conosce perfettamente il nostro intimo. Davanti a Lui, è inutile qualsiasi ragionamento, Nel Giudizio, non ci sarà modo di ingannarlo, la vita del peccatore si presenterà senza giustificazioni, tale come scorrerà agli occhi di Colui per Cui egli avrebbe dovuto far rendere i talenti ricevuti. […]
I doni che Dio ci concede, anche quelli naturali, se non sono debitamente esercitati, tendo a consumarsi. Vediamo accadere qualcosa di simile nell’organismo umano: quando un membro fratturato è immobilizzato, i suoi muscoli diventano flaccidi nel periodo di inazione. Allo stesso modo, le virtù morali o intellettuali non utilizzate si debilitano e tendono a scomparire. […]
Ora, se così accade coni beni materiali o spirituali, questo principio è più valido ancora nel campo delle realtà sopranaturali: di fronte all’egoismo, Dio ritira le sue grazie e l’anima diventa sterile. […] Ultima e triste conseguenza del peccato: sprovvisto del suo talento, il "servo inutile" è condannato all’inferno, dove servirà non al suo padrone, ma a Satana. Un tale castigo soltanto per aver tralasciato di usare i talenti ricevuti? Sì, perché "i peccati di omissione, che con frequenza accompagnano una vita moralmente ‘onorata’, contrariano direttamente il piano biblico riguardante l’uomo, una volta che Dio gli ha affidato la perfezione della sua opera: la continua e la completa" (op. cit., p. 250). L’obiettivo della parabola è proprio mostrare in forma viva e attraente il nostro obbligo di utilizzare i doni che Di ci ha concesso per la sua gloria e per la salvezza delle anime, come pure i castigo destinato a coloro che così non procedano. Per questo, ammonisce San Gregorio Magno: "Chi non ha carità, perde tutto il bene che possiede, resta privo del talento che aveva ricevuto e, secondo le parole di Dio stesso, è gettato nelle tenebre esteriori".
Oggi vanno assai di moda una teologia, e, ahinoi, anche una pastorale molto indulgenti, per non dire permissive: quasi non si parla più del Giudizio e del relativo castigo per le anime peccatrici che hanno rifiutato, fino all’ultimo, di ravvedersi. In nome della "misericordia" di Dio, si minimizza o si ignora la Sua giustizia, anche perché si pensa alla "giustizia" divina come a un apparato repressivo che ricorda alquanto i sistemi politici di tipo autoritario. Ma la giustizia non è questo: essa è giusta non perché punisce (il peccatore si è già condannato da se stesso, ed è la sua vita ad accusarlo), ma perché distribuisce secondo un criterio di verità e amore: verità che non può essere negata, e amore che non può forzare la volontà perversa del peccatore. Altrimenti si negherebbe, in nome del perdono di Dio, la libertà umana; ma l’uomo, senza libertà, non meriterebbe premi, né castighi.
Vi sono e vi sono stati alcuni filosofi, i quali, contrariati dal mistero del male, hanno imputato a Dio di non aver creato un mondo migliore, o un uomo migliore. Il punto è che bisognerebbe guardare se gli uomini sono stati dotati di sufficienti virtù naturali, e sufficientemente illuminati da quelle soprannaturali, per realizzare, secondo il piano divino, un mondo migliore di quello esistente. Infatti, potremmo lamentarci del piano di Dio se Egli fosse stato avaro nel dotarci dei mezzi necessari alla salvezza; se, al contrario, i mezzi sono abbondanti, è solo all’uomo che si deve rivolgere il rimprovero. E allora si comprende perché i peccati di omissione siano così gravi: perché, oltre al male attivo, c’è anche un male passivo, che consiste nel non fare il bene che si potrebbe fare, nel non contrastare il male come sarebbe possibile, stanti i doni di cui gli uomini sono in possesso: doni di ordine naturale (salute, intelligenza, volontà) e soprannaturale (la Fede, la Speranza e la Carità, infuse in noi dalla Grazia e vivificate dai Sacramenti, segni visibili di essa).
Sì, è vero: il mondo potrebbe essere un luogo immensamente migliore di ciò che è: ma, di questo, dobbiamo fare colpa a noi stessi, e non a Dio. Per lo stesso motivo, dobbiamo fare colpa all’uomo se l’Inferno è una realtà e non una semplice possibilità: nel perseguimento del male, egli fa tutto da solo, pur avendo la possibilità di fare il bene e nonostante Cristo lo abbia riscattato a caro prezzo…
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