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25 Giugno 2016È come una parabola visiva dell’Italia di oggi, dell’Europa di oggi e della Chiesa cattolica dei nostri giorni. Il viaggiatore che percorre la strada provinciale 102, detta Postumia Romana, perché ripercorre, in alcuni tratti, l’antica e gloriosa via consolare romana (che andava da Genova ad Aquileia), subito dopo aver oltrepassato Oderzo in direzione di Portogruaro, si trova ad attraversare la frazione della prima di queste due città, denominata Fratta; e può darsi che non se ne accorga neppure. In effetti, il vecchio centro della frazione si trova sulla destra della provinciale, cioè a sud di essa, ma non lo si nota affatto: tutto quel che si vede è un cartello stradale e un bar situato all’altezza di una strada secondaria che s’immette sulla provinciale, descrivendo un’ampia curva. I fitti vigneti e i campi di granturco, bellissimi, e i filari di salici, laggiù, in direzione del fiume Monticano, che scorre poco lontano con le sue curve dolci e le sue acque tranquille, nascondono alla vista il campanile, non molto alto, e piatto in cima, dell’antica chiesa parrocchiale.
Per entrare nella vecchia frazione bisogna lasciare la provinciale, internarsi nella strada secondaria e percorrere circa un chilometro nel verde, in mezzo a villette con giardino; poi si gira ancora a destra e si arriva ad un breve viale alberato, che è il "centro". Non ci sono più le piccole botteghe a conduzione familiare, non c’è nemmeno un’osteria: per qualsiasi cosa, gli abitanti devono prendere la macchina, o la bicicletta, e tornare sulla provinciale, dove, verso Oderzo, sorgono i soliti, immancabili ipermercati. Ma la vita sociale del paese, così, senza una sola bottega o un solo locale pubblico, è praticamente spenta; e gli anziani, per fare la spesa, devono farsi accompagnare dai figli o dai nipoti. Sono cambiate le abitudini, mano a mano che cambiava il paesaggio e il volto stesso della nostra società, anche in senso geografico: è accaduto negli ultimi decenni, quasi in punta di piedi, e si direbbe che non ce ne siamo accorti. Poi, un bel giorno (o piuttosto un brutto giorno), ci siamo svegliati e abbiamo visto che la campagna era diventata città, che i piccoli centri rurali si erano svuotati, che l’ufficio postale aveva chiuso, il posto telefonico pubblico anche – tanto, ormai tutti avevano sia il telefono fisso, che il telefonino cellulare — e perfino il parroco era sparito, si era spostato nel centro più grosso, e per celebrare la Messa veniva solo alla domenica, se pure ci veniva; finché non è venuto più del tutto: tanto, per quattro nonnine…
Su di un lato del vialetto centrale di Fratta, all’ombra dei tigli, sorgono le ex scuole elementari, ora adibite a Centro sociale, come tante altre romantiche scuolette di paese, complice il calo – o meglio, il crollo- demografico, e anche la "razionalizzazione" del territorio e l’introduzione del servizio degli scuolabus, che portano i bambini fino alla scuola del capoluogo, magari a qualche chilometro di distanza; sull’altro lato, c’è la sede di Oderzo del C.A.I. (Club Alpino Italiano), sempre in una ex scuola. In fondo al vialetto, una minuscola piazzuola, con una fontana di acqua abbondante e freschissima, detta "la fontana degli innamorati" (evidentemente, un ricordo ed un "dono" del santo patrono), un giardino con la Grotta di Lourdes, e l’antica chiesa parrocchiale. Questa, ben proporzionata, anche se di dimensioni non imponenti, è dedicata ai santi Filippo e Giacomo, sebbene il santo patrono della fazione sia San Valentino, la cui sagra si svolge — come è noto – il 14 febbraio. Un tempo era cappella della Pieve di Oderzo, poi parrocchia a sé stante (è citata per la prima volta in un documento del 1176; strana coincidenza, è l’anno della celebre battaglia di Legnano, fra i comuni della lega Lombarda e l’imperatore Federico Barbarossa). Esisteva anche una seconda chiesa, dedicata a santa Caterina, ancora più piccola, eretta nel 1600: segno che, all’epoca, la comunità era piuttosto viva e tendeva ad espandersi demograficamente.
La chiesa dei santi Filippo e Giacomo, sempre aperta al visitatore, così appartata e quasi fuori del tempo, ha qualcosa di profondamente suggestivo e quasi di commovente. L’edificio attuale, benché attestato, come si è detto, almeno dal XII secolo, risale, a quanto pare, agli inizi del 1400: divenne curazia nel 1709 e fu eretto a parrocchia il 13 dicembre 1947, per decreto del vescovo di Vittorio Veneto (alla cui diocesi appartiene), Giuseppe Zaffonato. Ha subito, purtroppo, profonde modifiche e rimaneggiamenti; basti dire che l’orientamento attuale è addirittura rovesciato rispetto a quello originario, con la facciata là dove era l’abside, e viceversa (per cui la luce del mattino entrava da dietro l’altar maggiore, mentre ora entra dal portale, con buona pace dell’antico simbolismo mistico, di cui non importa più niente ad alcuno); era interamente decorata con affreschi, che sono andati tutti perduti, tranne uno, e anche quell’unico, che reca la data del 1428, è quasi irriconoscibile. L’altare, consacrato ai santi Filippo e Giacomo, venne consacrato dal vescovo Eugenio Beccegato il 15 giugno 1928, festa del Sacro Cuore di Gesù (si tenga presente che, durante la Prima guerra mondiale, in questa zona si era combattuto aspramente, perché il fronte del Piave non era molto lontano, e parecchi edifici civili e religiosi erano andati distrutti, o erano rimasti gravemente danneggiati dai tiri della stessa artiglieria italiana, schierata sulla riva destra; il Comando austro-ungarico del generale Svetozar Boroevic aveva posizionato un osservatorio perfino in cima al Duomo di Oderzo, per seguire gli sviluppi della battaglia del Solstizio del giugno 1918). Anche qui, purtroppo, è arrivata la riforma liturgica decisa dal Concilio Vaticano II ed un nuovo altare, orientato verso l’assemblea, è stato costruito davanti al precedente, alterando gravemente le proporzioni delle linee e dei volumi architettonici.
Dicevamo che, entrando nel piccolo, ma armonioso edificio sacro, passando dalla luce abbagliante dell’esterno, circondato dalla verde campagna, alla fresca penombra dell’interno, si prova una sensazione assai piacevole, come di ritorno ai luoghi dell’infanzia: nella piccola chiesa di paese, silenziosa, appartata, rallegrata dai raggi del sole che piovono smorzati dai finestroni, ci si sente partecipi di un’atmosfera quieta e raccolta, come se il tumulto della società moderna, i suoi ritmi convulsi, le sue abitudini sbagliate, fossero rimasti fuori. Il pavimento, i banchi, le vetrate, ogni cosa è pulitissima e ordinata; una signora cordiale, di una certa età, che evidentemente si occupa di aprirla e di tenerla in ordine, lamentava che il prete non si facesse mai vedere e che avesse tempo solo per i giovani; chiedemmo se venisse almeno a dire Messa la domenica, ma rispose di no. La semplicità delle linee e la sobrietà quasi spartana degli arredi creano un senso di raccoglimento mistico, tanto che si stenta a credere che, a poche centinaia di metri, scorre una strada piuttosto trafficata, percorsa da migliaia di veicoli frettolosi. Ciò che balza subito all’occhio sono le due statue lignee, addossate ai pilastri che sostengono l’arco trionfale, bordati di tessuto rosso: la statua di San Valentino sulla destra, e quella della Madonna, col Bambino in braccio, sulla sinistra. Sono statue moderne, del XX secolo; l’autore è ignoto, ma s’intuisce lo stile degli scultori in legno della Val Gardena, che tante opere simili hanno realizzato per decine di chiese dell’area veneta: in ogni caso, s’ineriscono benissimo nell’insieme dell’edificio tardo medievale e gli conferiscono una nota di vivacità fresca e schietta, di sapore quasi popolare. Al di sopra dell’altar maggiore, un trittico parimenti anonimo, con il sacri Cuore di Gesù al centro e i due Santi titolari della chiesa, ai lati. Affisse ai due pilastri del presbiterio, all’altezza dell’altare nuovo, ci sono due tele del pittore opitergino Giulio Ettore Erler (1876-1964), rispettivamente San Giuseppe e Sant’Antonio col Bambino Gesù. Così la descrive la Breve guida della Chiesa dei SS. Filippo e Giacomo, pubblicata dalla associazione Fratta Unita e curata dalla dottoressa Irene Samassa (Oderzo, 2016, pp. 5-6):
A semplice aula, con il tetto a due falde e facciata dal profilo a capanna, la Chiesa di Fratta presenta nella parte più antica, ancora oggi visibile nella zona prossima all’argine del fiume Monticano, degli elementi decorativi propri del XV secolo. La facciata, un tempo rivolta ad ovest, e quindi opposta a quella attuale (ad est), risulta partita da quattro sottili lesene (elemento decorativo a fusto e pianta rettangolare addossato alla parete) terminanti in una cornice composta da due archi a sesto acuto che seguono il profilo del tetto. All’interno delle tre specchiature (porzione di muro tra una lesena ed un’altra) si aprivano n quella centrale il portale d’ingresso — oggi murato — e il rosone, elemento decorativo tipico delle chiese romaniche e gotiche, oggi nascosto da uno spesso strato d’intonaco che ricopre l’intera superficie muraria, ma documentato nei disegni del 1689 e del 1734. Nella cornice di sottogronda, lungo i fianchi della chiesa, si dispongono una serie di archetti pensili trilobati arricchiti da elementi fitomorfi e floreali affrescati di cui oggi rimangono solo alcuni lacerti. Come l’antica facciata anche i fianchi laterali (quello a nord oggi risulta intonacato e quello a sud con i soli mattoni faccia vista) presentano la stessa partizione a sottili lesene terminanti a nord con il motivo a doppi archi a sesto acuto a doppio intradosso, poggianti nella parte centrale su picco peducci, mentre nella fiancata posta a sud nella specchiatura tra le lesene vi sono due archi singoli a tutto sesto. Entrambi i fianchi presentavano delle aperture oggi tamponate — due finestre e una porta centrale (quest’ultima solo sul lato sud) — documentate nei disegni del 1689 e del 1734. La chiesa poi era chiusa ad est del presbiterio che terminava con un’abside poligonale a cinque lati, come testimonia un disegno del 1811, che presentava delle monofore sui lat lunghi.
Usciamo da questa piccola oasi di pace e di bellezza, ripercorriamo la strada secondaria in senso inverso, torniamo sulla provinciale e proseguiamo avanti per poche centinaia di metri, poi giriamo a sinistra ed eccoci arrivati alla "nuova" Fratta, Fratta Alta (mentre la vecchia, automaticamente, è diventata la "Bassa"). Un intero paese si direbbe che sia slittato di un paio di chilometri, da un lato all’altro della strada provinciale, così come si potrebbe trapiantare un albero, un vivaio, un vigneto: che cosa è mai successo, dunque? Semplice: le teste fine degli anni Cinquanta e Sessanta, gli amministratori e gli urbanisti degli anni del boom economico, avevano previsto chi sa quale esplosione demografica e, quindi, una immensa fame di abitazioni, e avevano individuato nella zona a nord della Postumia il luogo adatto per offrire una adeguata capacità residenziale. Furono costruiti alcuni piccoli condomini, furono aperti alcuni esercizi commerciali, e, naturalmente, venne edificata una nuova parrocchiale, che sostituì la vecchia, e una nuova casa canonica, ove immediatamente si trasferì il parroco, per non più ritornare. Adesso, come si è detto, nella chiesa vecchia non si celebra più neanche la Messa della domenica. Questa fu la ciliegina sulla torta, e venne posta nel 1973. La popolazione residente veniva da fuori, ma il previsto assalto alle case non c’è mai stato: e così Fratta Alta, che non ha niente a che fare con il paese di Fratta, quale è esistito per secoli e secoli, si è semplicemente affiancata alla vecchia, senza che le due comunità s’integrassero. Non sappiamo in base a quali calcoli qualcuno avesse previsto una poderosa esclation nelle richieste di unità abitative: la popolazione del comune di Oderzo è passata, assai gradualmente, dai 12.800 abitanti del 1951, ai 12.100 del 1961 (crescita zero, quindi, proprio nel decennio centrale del boom), ai 14.400 del 1971, ai 16.300 del 1981, ai 16.600 del 1991, ai 17.300 del 2001, ai 20.000 del 2011. Un aumento più che contenuto, quindi, che si spiega con la perdurante vocazione agricola del territorio e con il modello delle piccole industrie diffuse, che non attirano certo una gran popolazione esterna. Ci si chiede se valeva la pena di creare una nuova Fratta, visto che non è mai decollata, è stata un flop totale, e visto che è servita quasi solo a sottrarre servizi alla "vecchia".
Ah, c’è un’ultima cosa da dire. La chiesa nuova è semplicemente orrida: la tipica chiesa post-conciliare, di una bruttezza architettonica assoluta, oltretutto anonima, sciatta, banale, per cui non possiede nemmeno la spiccata personalità dei brutti "interessanti", ma solo la misera piattezza conformista di cento e cento altri simili edifici "religiosi" (le virgolette sono d’obbligo), dai volumi squadrati, geometrici, di uno pseudo-funzionalismo d’accatto, tanto di moda in quegli anni, quanto ridicolo e insulso dopo che l’onda progressista è passata. Che cosa ci stia a fare quello scatolone di cemento, in un angolo così bello della Marca trevigiana, con quel portone che pare l’ingresso di un campo di concentramento, con quelle poche e avare finestre che lasciano l’interno sempre in ombra, con quella spirale dello spazio sacro che pare un fortilizio in stato d’assedio, laddove ci sarebbe tutta la superficie edificabile che si vuole e un paesaggio ameno, che invita all’apertura e alla convivialità, davvero non si capisce. Oscar all’architetto per la peggior chiesa del circondario.
Quella di Fratta di Oderzo è, come dicevamo, una perfetta parabola visiva dell’Italia e dell’Europa di questi nostri anni: un Paese disarticolato, appiattito, omologato, decerebrato, cui è stata strappata l’anima, per sostituirla con qualche cubo di cemento e qualche chilometro d’asfalto in più. E come ci son due chiese e due paesi, ci sono pure due mondi che s’ignorano a vicenda: della tradizione e del Progresso. Il secondo era dato da tutti per vincente: ma come mai, allora, zoppica sempre di più?
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