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Gustave Thibon, il filosofo-contadino che indica la via della Speranza

Quello di Gustave Thibon (nato a Saint-Marcel-d’Ardèche, nella Occitania profonda, il 2 settembre 1903, e spentosi nel suo paese natio, il 19 gennaio 2001, alla bell’età di novantotto anni), conosciuto dai suoi conterranei e dai suoi estimatori come le philosophe paysan, "il filosofo contadino", è un nome che dice poco, fuori della Francia, e specialmente in Italia, benché faccia parte di quella schiera di spiriti eletti i quali, nelle tenebre della modernità, hanno visto e riconosciuto con estrema lucidità gli errori, metafisici e pratici, che stanno allontanando gli uomini dalla via della virtù e della felicità; e benché, nella sua giovinezza inquieta ed errabonda, prima di approdare definitivamente alla pace del cristianesimo, sia passato anche per il nostro Paese, proteso alla ricerca di quella verità superiore che conferisce un significato e trasfigura in un alone di luce anche gli aspetti oscuri o incomprensibili dell’esistenza umana. Il nome di Thibaut non si trova nella Enciclopedia Garzanti di Filosofia, che pure è, nel suo genere, una delle migliori opere di consultazione; proviamo allora a cercarlo, visto che le sue opere occupano un posto anche nella storia letteraria, sulla Enciclopedia Garzanti di Letteratura: ancora nulla. Proviamo allora a consultare la Enciclopedia Biografica Universale della Biblioteca Treccani: niente. Sempre più perplessi e un poco scoraggiati, proviamo a sfogliare i grossi volumi della Enciclopedia della Filosofia di Nicola Abbagnano (Utet, 1993; De Agostini/L’Espresso, 2006): troviamo solo due fuggevoli citazioni, in margine al capitolo dedicato a Simone Weil, ed entrambe velenosette: nella prima, si insinua che Thibon non ha pubblicato in maniera appropriata il manoscritto La pesanteur et la grace (La pesantezza e la grazia), che lei gli aveva affidato prima di morire di tubercolosi; nella seconda, si rimarca il fatto che non è il caso di parlare di una conversione della Weil al cattolicesimo, anche se i suoi migliori amici degli ultimi anni sono stati due cattolici, il domenicano Joseph-Marie Perrin e il Nostro, appunto.

Ora, senza a nulla voler togliere a Simone Weil come pensatrice, sommessamente ci permettiamo una domanda: non potrebbe darsi che il suo valore filosofico sia stato un tantino sopravvalutato, specialmente in grazia del fatto che ella non si convertì al cattolicesimo? Di pensatrici ebree convertite al cattolicesimo, ce n’è già stata una, e di non poco valore: Edith Stein, che si fece addirittura carmelitana scalza, prima di andare a morire nel campo di sterminio di Auschwitz; due, per certa cultura laicista e anticattolica, sarebbero un tantino troppe. E Thibon, viceversa, che fu amico della Weil fin dal 1941, quando la accolse a lavorare nella sua fattoria, potrebbe aver "pagato" alla cultura dominante una doppia penale: per essere stato apertamente cattolico e per aver "quasi" portato alla conversione l’amica. Ma lui, come pensatore, non è stato — a nostro parere — meno grande di lei: e il silenzio assordante che circonda la sua figura e la sua opera puzza di diktat massonico. Infatti quest’uomo prodigioso, questo genio solitario, che fu anche una persona semplice, è stato autore di una produzione saggistica e speculativa addirittura imponente: una trentina di libri, nei quali ha scandagliato, con acume estremamente penetrante, tutti i risvolti della crisi moderna, e ha indicato la possibile via d’uscita. Non si è limitato all’analisi negativa, ha voluto e saputo portare ai suoi lettori anche una parola di Speranza (con la lettera maiuscola, cioè come virtù teologale e non come sentimento generico, che non costa nulla perché non è fondato su niente di solido). E questo, per la cultura filosofica oggi dominante, non è un titolo di merito, ma poco meno di una colpa: come si permette, questo filosofo contadino, che non ha occupato cattedre universitarie e non apparteneva al bel mondo parigino, né girava per i boulevards e per i bistrots con l’impermeabile spiegazzato e la sigaretta accesa stretta fra le labbra, come prescritto dalla moda esistenzialista, e come i paggetti di Sartre facevano, di rispolverare parole obsolete come Essere e Fondamento, che sanno di tomismo e di cattolicesimo, e perfino parole "proibite", come Dio e la grazia? Non gliel’ha detto nessuno che i tempi della Verità assoluta sono finiti, e che si può parlare solo di ciò che è vero soggettivamente, ossia di ciò che sembra vero? E che non si può avere la pretesa di parlare dell’ontologia, di parlare delle cose, degli enti, ma solo del linguaggio, perché quel che conta non è il principio di realtà, ma la coerenza e la concatenazione logica delle parole? E queste, nella cornice culturale del secondo dopoguerra, sono pretese che si pagano care: con l’ostracismo e il silenzio tenace, in vita e dopo la morte. Bisogna cancellare simili presenze dall’orizzonte spirituale delle future generazioni: potrebbero offrire consolazione, e l’uomo moderno non vuole essere consolato. Perché ciò gli ricorderebbe il suo bisogno di Dio.

Thibon è stato un filosofo veramente atipico: e, per prima cosa, un perfetto autodidatta. Da ragazzo andava a scuola malvolentieri, avrebbe preferito lavorare la terra; rimasto orfano di madre alla fine della Prima guerra mondiale, dopo aver vagabondato fra la Gran Bretagna, l’Italia e il Nord Africa, senza appoggi e facendo persino la fame, rientra in patria nel 1926 e ritrova, grazie alla lettura di Léon Bloy e di Jacques Maritain la perduta fede cristiana; su invito di quest’ultimo collabora, dal 1931, con la Revue thomiste. A partire dal 1933, inizia a pubblicare libri; l’elenco completo sarebbe troppo lungo, ci limitiamo a ricordare i più significativi: Diagnostics, essai de physiologie sociale (1940), Destin de l’homme: reflexions sur la situation presente de l’homme (1941), Retour au réel: nouveaux diagnostics (1943), Nietzsche ou le dèclin de l’esprit (1948), La crise moderne de l’amour (1953), L’equilibre et l’harmonie (1976), Le voile et le masque (1985), L’illusion fèconde (1995).

Un efficace, sintetico schizzo della sua concezione filosofica è tracciato in un articolo di Corrado Gnerre, Gustave Thibon, filosofo della tradizione e della speranza, pubblicato sulla rivista Il Settimanale di Padre Pio, delle Francescane dell’Immacolata (n. 41 del 18 /10/2015, pp. 30-32):

Il Filosofo-contadino (così veniva chiamato) dice chiaramente che una delle caratteristiche della MODERNITÀ è l’idolatria; che consiste non solo nell’innalzamento a fine di ciò che è particolare e creaturale, bensì nella negazione di tutto, cioè del Fondamento. Scrive ne "Il pane di ogni giorno": "[…] l’idolo rappresenta la parte innalzata al tutto, ma soltanto distruggendo gli idoli si può ricostruire l’unità". Si tratta di un oblio del’essere e della Verità; un oblio causato appunto dal trionfo dell’idolatria. Il nostro tempo, segnato dall’oblio dell’Essere e delle verità supreme, è funestato dalla lotta feroce e senza quartiere tra gli idoli. Proprio perché segnata e organizzata sulla morte dell’Essere, la MODERNITÀ si propone su un palcoscenico di "assenza", cioè di smarrimento della dimensione valoriale. Se l’Essere non c’è e non deve esistere, allora il Fondamento stesso viene smarrito e si nullifica. Ma questa "assenza" non elimina il desiderio umano di ritrovarsi in qualcosa. Ed ecco l’insorgere degli idoli come pseudo-sostituzione del Fondamento. L’idolo però — ci tiene a precisare Thibon — non può che manifestarsi come menzogna e contraddizione: pretende l’assenso e l’adorazione, ma non può ergersi, per il suo intrinseco limite, al di sopra di tutto… come il Tutto.

Da qui un’altra importante convinzione di Thibon. La MODERNITÀ si sintetizza nel puro rapporto quantitativo. Né può essere diversamente se al Fondamento si sostituiscono gli idoli. Il riconoscimento di Dio come centro del reale e della vita fa divenire protagonista il mistero e il conseguente riconoscimento del limite. Invece, senza il Fondamento, il reale o si divinizza (è il caso del monismo panteistico) o si "cosifica". Thibon prende in considerazione questa seconda possibilità, affermando che la società moderna si è trasformata in una sorta di "megamacchina" in cui gli uomini sono ridotti a meri organismi artificiali. Il regno degli idoli è inevitabilmente il "regno della quantità", cioè un regno in cui sparisce l’armonia tra il reale e il mistero, tra vita e Dio. Un regno in cui l’"equilibrismo" si è sostituito all’"armonia". Scrive Thibon: "[…] l’equilibrismo ha fatto il suo tempo, non abbiamo che la scelta tra i due termini di questa alternativa: restaurare, mediante l’armonia, un ordine vivente o lasciarci imporre un ordine morto e mortale da una forza senz’anima che annichilirà tutte le altre". E ancora: "L’equilibrio concerne unicamente la quantità, la pesantezza, i rapporti di forza. L’armonia implica la qualità e la convergenza di qualità verso un fine comune"..

Ma allora cosa bisogna fare? Thibon lo fa capire chiaramente: bisogna ritornare all’unità, alla "reductio ad unum". Scrive: "Dio non ha creato che unendo". Il dramma dell’uomo moderno è consistito nel separare ciò che Dio ha unito: "La metafisica della separazione è la metafisica stessa del peccato". C’è una frase bellissima di Thibon: i "santi sono i visionari dei cieli e i prodigiosi operai sulla terra". I Santi sono i rappresentanti visibili dell’armonia di cui sopra. L’uomo moderno rincorre un patetico equilibrismo; il Santo no, il Santo realizza l’armonia, un’armonia tra terra e Cielo, dove ciò che germoglia nella terra , fiorisce nel Cielo. Ne "La scala di Giacobbe" Thibon scrive: "Le cose supreme non fioriscono che al di là della tomba. Ma esse cominciano quaggiù e la loro fragile semenza è nei nostri cuori, e niente fiorisce nel cielo, che non sia rima germogliato sulla terra".

La grandezza del pensiero di Thibon, se ci si consente il paradosso, è riconoscibile nella sua semplicità: nella sua linearità, nel rigore senza fronzoli della sua logica, nell’evidenza quasi plastica dei suoi ragionamenti. Certo non ha le sofisticate fumisterie di quello d’un Massimo Cacciari, né i raffinati sofismi di un Althusser, di un Derrida, di un Foucault, tutti maestri dal pensare difficile e compiaciuto di sé, instancabili ricercatori della originalità e del paradosso, più che della verità; desiderosi di mostrare quanto brillanti sono i loro ingegni, non di aiutare il lettore a trovare delle soluzioni ai problemi via via sollevati e messi in evidenza; tutti bravi nello scagliare le folgori delle loro accuse e della loro sacra indignazione contro la società, ma non altrettanto nel delineare credibili scenari di ricostruzione. E la cosa si spiega perfettamente: sono proprio loro i soldati dell’esercito che, distruggendo l’Essere, ha introdotto il caos. Il caos è il risultato di tale distruzione: per cui dovrebbero prendersela con se stessi, non con la società. La società moderna è tale quale essi l’hanno voluta: e ciò lo si vede in maniera sempre più netta in questo inizio del terzo millennio, quando molte delle loro teorizzazioni stanno trovando una applicazione pratica, sulla base di un individualismo assoluto, di un edonismo esasperato, d’un relativismo radicale e del rifiuto pregiudiziale di qualsiasi forma di autorità, di merito, di gerarchia, di spirito di sacrificio, di etica del dovere e non solo di quella dei diritti portati fino al limite estremo.

La semplicità del pensiero di Thibon non va scambiata per semplicismo. Egli è un pensatore che vede benissimo i problemi e vede anche la notevole complessità del reale, però non ne resta ipnotizzato, non ne subisce il fascino sinistro, paralizzante; è uno spirito attivo e pieno di buona volontà, che, con il senso pratico di chi è abituato a lavorare la terra con le sue mani, cerca soluzioni concrete, praticabili, e possibilmente migliorative. Non gli interessa il gioco del pensiero per il pensiero, per una brama narcisistica di mettersi in mostra, per un gusto un po’ macabro di demolire tutto, senza avere la minima idea di come ricostruire. Inoltre, a differenza di Sartre, Heidegger e gli altri esistenzialisti, Thibon ama la vita; la ama senza retorica e senza sdolcinatezza; ma la ama di un amore caldo, affettuoso, virile. Egli ha visto una grande verità, che sembra essere sfuggita a tanti pensatori moderni, da Kant ed Hegel in avanti: che, se volta le spalle a Dio, se nega Dio per farsi dio egli stesso, l’uomo perde il senso del limite, e, con ciò, introduce automaticamente nel mondo la contraddizione, la disarmonia, lo scompenso. Un mondo nel quale le creature vogliono farsi creatore è un mondo alla deriva verso le spiagge della follia. Il finito non genera altro che idoli: e tentar di costruire qualcosa di saldo sul finito è come voler innalzare una torre su delle fondamenta di sabbia o di argilla.

Thibon ha visto la malattia e ha indicato anche la via della guarigione: quella del ritorno a Dio. Solo tornando a Dio, e ritrovando il senso del limite e il senso del mistero, l’uomo riuscirà a ripristinare una società armoniosa. Senza illudersi, però, di poter realizzare il paradiso in terra, come hanno preteso di fare le tante, nefaste ideologie totalitarie della modernità; ma accontentandosi di piantare un seme nella terra, destinato a germogliare non in questa vita, ma nella dimensione dell’eternità. E Thibon non ha avuto paura di chiamare con il suo nome la virtù mediante la quale, sola, possiamo sperare di salvarci: la santità; anzi, la Santità con la "s" maiuscola, vocazione di tutti e di ciascuno…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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