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Le città sono fallite; ma allora perché la gente continua a viverci?

Quegli economisti, storici, sociologi — che poi sono la maggioranza — i quali pensano di aver sempre pronta una spiegazione perfettamente razionale per i grandi fenomeni sociali, politici, economici, dovrebbero spiegare come mai il modello della civiltà urbana, che è fallito ed imploso da almeno un secolo, continui a sventolare la propria bandiera sulle macerie di tutte le ideologie, di tutti gli imperi e di tutte le identità culturali; dovrebbero spiegare come mai le grandi folle urbane continuano a rimanere imprigionate nel cerchio stregato delle megalopoli, anche se la vita vi è divenuta intollerabile e anche se ciò non è più conveniente neppure dal punto di vista economico, mentre comincia ad essere indifferente dal punto di vista socioculturale.

Ciò che ha attirato grandi masse di popolazione dalle campagne alle città, nel corso della Rivoluzione industriale, è stata la necessità di trovare un posto di lavoro. Sarebbe più esatto dire che la popolazione è stata cacciata dalle campane, letteralmente espulsa da una serie di cambiamenti sopraggiunti nell’assetto della proprietà agraria, e specialmente nel nuovo modo di produzione capitalistico (in Inghilterra, ad esempio, con la pratica delle enclosures): una volta spazzata via l’economia di villaggio, anche la famiglia patriarcale, che ne era l’espressione sociale primaria, si è disgregata irreparabilmente, e gli ex contadini rimasti senza terra e senza salario sono stai obbligati a trasferirsi in città, nelle zone industriali e minerarie, offrendosi non più come lavoratori, ma come operai senza qualifica, insieme alle loro mogli e ai loro figli, cioè come proletari: atomi sradicati dal proprio villaggio, dalla propria comunità, dalle proprie tradizioni e dalle proprie competenze lavorative, costretti ad accettare qualsiasi lavoro per una paga qualsiasi, per quanto misera, e ad inurbarsi in condizioni miserevoli, nei quartieri periferici più a buon mercato, nelle abitazioni più scomode e anti-igieniche. E questo mentre la piccola e media borghesia trovava, anch’essa più o meno a fatica, i propri spazi commerciali e professionali, o dava l’assalto all’amministrazione pubblica e alle carriere impiegatizie, pubbliche e private; e mentre la grande borghesia e ciò che restava dell’aristocrazia celebravano i loro trionfi e si costruivano le ville col giardino nelle aree urbane migliori e più salubri, lontane dai rumori dei caseggiati popolari e dai fumi delle ciminiere, possibilmente in collina, lasciando i vecchi centri storici ai piccoli borghesi e i quartieri-dormitorio agli operai (sicché, in pratica, ogni città era formata da tre città distinte).

La convenienza di abitare in città si è rivelata solo nel corso del tempo, mano a mano che i salari degli operai miglioravano, insieme alla legislazione sul lavoro, e mentre la piccola e media borghesia consolidavano le loro posizioni, profittando della fase espansiva dell’economia europea e americana (dopo la depressione del 1873-95), che raggiunse l’apice tra la fine del XIX e l’inizio del XX: la cosiddetta belle époque. Vi sono molti elementi per pensare che, con la scoppio della Prima guerra mondiale, il momento magico della civiltà urbana sia arrivato allo zenit e che sia iniziata, subito dopo, una rapida discesa, causata anche, ma non solo, dallo sconvolgimento del 1914-18, e proseguita fin alla Grande depressione del 1929 e oltre. Di fatto, l’economia occidentale non si è più stabilmente ripresa fino alla Seconda guerra mondiale: un po’ prima in Europa, e specialmente in Germania (sissignori, nella Germania nazista: che fece il miracolo di azzerare la disoccupazione entro il 1939), un po’ dopo negli Stati Uniti, che ne uscirono davvero non con il tanto strombazzato New Deal rooseveltiano, che fu un sostanziale fallimento, ma proprio con le commesse per la produzione bellica e poi, dal 1945, con i prestiti alle altre nazioni, sia alleate che ex nemiche.

Ad ogni modo, dopo il 1945 il modello urbano conobbe una ulteriore fase espansiva, ma più per forza d’inerzia che per delle vere ragioni economiche e strutturali. La produzione industriale, sempre più meccanizzata, e, in seguito, informatizzata, non aveva più bisogno di aver luogo a breve distanza dai centri urbani; grazie a un sistema di trasporti sempre più rapido ed efficiente, e alla progressiva diffusione del mezzo di trasporto privato, venivano meno, in gran parte, le ragioni che avevano reso appetibile quel modello per la popolazione residente. In compenso, i fattori negativi tendevano a divenire sempre più massicci e invasivi, dall’inquinamento alla criminalità, spingendo le classi più abbienti ad una migrazione interna in senso inverso, cioè in direzione delle campagne o delle zone costiere, lontano dallo smog e dal sovraffollamento, dai rumori e dai pericoli di un sistema di vita sempre più anacronistico e fallimentare, con gli immensi ingorghi di traffico nelle due ore critiche del mattino e della sera, cioè al momento di recarsi al lavoro e al momento di rientrare.

Restavano i vantaggi di tipo culturale: i cinema, gli spettacoli, le biblioteche, le conferenze, le scuole superiori e le università, i laboratori artistici e scientifici, i premi letterari, i salotti, e, naturalmente, le sedi dei giornali e delle televisioni. Anche questi, operò, sono stati in buona parte superati dalla diffusione dell’informatica, che ha favorito la nascita di una rete di relazioni sociali, culturali e informative diffusa sul territorio, o addirittura "virtuale", come nel caso delle videoconferenze o in quello dei social network, per non parlare del decentramento delle sedi universitarie e dei laboratori di ricerca. Dal momento in cui non è più necessario abitare in città, ma basta possedere un buon computer, sia per vedere un film, sia per reperire un libro sul sistema bibliotecario on-line, sia per prenotare un biglietto aereo o ferroviario o per acquistare un pacchetto completo in una agenzia di viaggi, la città ha perso gran parte della sua appetibilità, e coloro che possono incominciano ad andarsene, in cerca di un ambiente meno caotico e meno insicuro, specialmente per crescere in serenità i propri figli più piccoli.

Negli ultimi tre decenni si è aggiunto un altro fattore a rendere poco desiderabile la vita nei centri urbani: l’immigrazione straniera sempre più massiccia, fuori controllo, e la presenza di numerosi immigrati clandestini, che hanno fatto lievitare i livelli del disagio sociale e della microcriminalità, con il moltiplicarsi delle rapine in casa e per la strada, dello spaccio di stupefacenti e con il dilagare del racket della prostituzione, al punto che interi quartieri, ormai quasi abbandonati dalla vecchia popolazione residente, sono stati occupati dai nuovi venuti e si sono praticamente trasformati in ghetti, o fortini, impermeabili al modello culturale dell’Occidente, veri e propri vivai di delinquenza e terrorismo, nei quali le stesse forze dell’ordine raramente osano penetrare, e, se lo fanno, magari per inseguire qualche spacciatore o qualche rapinatore, rischiano di essere a loro volta aggredite da una popolazione inferocita.

Scriveva, or è quasi mezzo secolo, Keith Reid, nel volume collettaneo Uomo, natura, ecologia (titolo originale: Man, Nature and Ecology, London, Aldus Books Ltd., 1969; traduzione dall’inglese di Elena Bona e Maria Vittoria Lorenzoni, Milano, Longanesi & C., 1974, pp. 22-23):

IL FALLIMENTO DELLE CITTÀ.

Ciascuno di noi conosce gli svantaggi delle città: i rumori, l’affollamento, il sudiciume, i tuguri… Fino a poco tempo la maggior parte della gente supponeva che gli svantaggi fossero ampiamente compensati dai vantaggi, cioè dalla vasta rete di rapporti culturali, dall’incoraggiamento all’invenzione, al commercio, alla scienza, a un gran numero d’altre attività che le comunità rurali tradizionali non potevamo favorire, e da un accumulo di ricchezze tale da finanziare ogni nuovo tipo d’impresa. In un campo più pratico, si era soliti sostenere che, dal momento che le città utilizzano in modo più efficiente risorse come l’energia elettrica, i trasporti e le comunicazioni, e che aumentano il gettito delle imposte, sono più economiche.

Queste generalizzazioni sono valide solo finché gli abitanti delle città si servono di mezzi di trasporto pubblici. L’automobile ha cambiato tutto. Con quel suo vorace appetito di superfici stradali pavimentate distrugge i centri cittadini e i sobborghi interni, separando l’una dall’altra le comunità e facendo del centro un luogo in cui non è più desiderabile vivere. Le classi ricche e medie se ne vanno. La struttura sociale è rovesciata: e lo sono anche tutti gi argomenti un tempo validi sulle città. Le comunicazioni moderne forniscono una rete internazionale di rapporti culturali; i governi e gli affari forniscono l’incoraggiamento necessario alle invenzioni, ai commerci, alle scienze… e così via. La città è superflua, è una zona di bassifondi stretta intorno a un centro di negozi e di cultura che va morendo.

Le città americane hanno fornito il modello, non deliberatamente, ma semplicemente perché vi sono maggiori la ricchezza privata e il numero di proprietari d’automobili. Ora esiste un rapporto diretto tra le dimensioni di una città, la densità della sua popolazione, la percentuale di delitti, il costo della protezione della polizia, e (con poche eccezioni) il gravame delle imposte sui cittadini. Rimangono ancora molti vantaggi, ma perdono importanza di fronte al grave aumento di costi sociali e finanziari.

Il modello urbano, dunque, è fallito: grande è bello non è più uno slogan verosimile; al contrario, ormai quasi tutti, a cominciare dagli urbanisti e dai pubblici amministratori, si sono convinti che piccolo è bello, per cui si assiste ad una sorta di rivincita del modello della piccola città, ordinata e a misura d’uomo, dove anche i prezzi immobiliari sono più ragionevoli e dove i bambini possono andare a scuola senza bisogno di essere accompagnati personalmente dai genitori. Squadre di calcio, società sportive e corsi di nuoto sono possibili, e perfino preferibili, anche nei piccoli centri, come pure la frequenza alle scuole di danza, o di musica, o di recitazione; i servizi pubblici sono migliori, lo smaltimento dei rifiuti procede senza i problemi di gigantismo, le lentezze e gli inconvenienti delle grandi metropoli (si pensi a cosa significa uno sciopero degli operatori ecologici in una città come Napoli, anche solo per pochi giorni, magari nel colmo dell’estate); le scuole, pubbliche e private, offrono spesso dei corsi di studio migliori, più attenti alle problematiche dei singoli alunni e delle loro famiglie (anche perché più interessati a non scontentare l’utenza, che viene in gran parte da fuori, entro il raggio di un bacino geografico relativamente ampio); insomma, la qualità della vita è decisamente migliore, anche se isole felici, nel vero senso del termine, ormai non ne esistono più, perché i grandi problemi nazionali e internazionali – dalla crisi economica all’immigrazione selvaggia – si ripercuotono, presto o tardi, in una serie di cerchi sempre più vasti, fino a raggiungere i centri più piccoli e le stesse aree rurali.

È indubbio che, nel complesso, gran parte della popolazione, e specialmente le classi medie, hanno sviluppato una nuova sensibilità e una nuova cultura, se non proprio ecologista nel senso forte della parola, certo più attenta alle questioni e ai problemi legati alla sostenibilità del progresso, all’impatto ambientale delle attività umane, ai contraccolpi negativi che uno sviluppo produttivo disordinato provoca nella qualità della vita umana. Il problema è che le classi medie sono in fase di contrazione costante, e che gran parte di quelle che, fino al 2008, erano la piccola e piccolissima borghesia, ora sono precipitate nell’area del disagio economico e dell’indigenza vera e propria: e lo testimoniano le migliaia di piccole aziende e attività commerciali che hanno dovuto chiudere, e le centinaia di migliaia di abitazioni e di locali rimasti vuoti, sfitti o messi in vendita, che segnano malinconicamente il paesaggio urbano di questi ultimi anni. La gravità del fenomeno è in parte mascherata, ma solo in senso visivo, dal subentrare di altre attività commerciali e imprenditoriali, per lo più a modello familiare, gestite da immigrati extra-comunitari, cinesi specialmente, poi nordafricani o mediorientali, e, da ultimo, dell’Europa orientale (negli Stati Uniti, giapponesi, cinesi e latino-americani); mentre l’invasione del capitale finanziario straniero è attestata dal sorgere di grandi centri commerciali di proprietà delle multinazionali, o dall’acquisto di alberghi, ville di lusso e società sportive, nonché di compagnie di navigazione aerea o quote di svariate holding, da parte di sceicchi del petrolio impazienti d’investire in ogni modo i loro enormi capitali.

Una cosa, crediamo, è certa: il modello della grande città è in crisi, ha perso smalto e credibilità e non tornerà a risplendere. Le gradi città occidentali, come Londra, Parigi, Berlino, New York, Chicago, Los Angeles, hanno raggiunto le loro possibilità massime di espansione, e, in futuro, non faranno altro che decrescere. Nessuno coltiva più il sogno di andare a vivere in un inferno di otto, dieci o quindici milioni d’abitanti, perché esso è divenuto un incubo. Speriamo di destarci presto…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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