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Le crisi finanziarie nascono dalla mentalità chiusa?

Chi è il vero responsabile delle crisi finanziarie che, di tempo in tempo, prostrano l’economia e gettano sul lastrico milioni di famiglie?

Per capire che aria tira nella nostra società, è interessante vedere che tipo di risposta viene data ai giovani riguardo a questa domanda, per esempio attraverso l’insegnamento che ricevono sui banchi di scuola.

Citiamo da un testo scolastico molto diffuso un paio di decenni fa, La storia e l’ambiente, di Giulio Mezzetti (Firenze, La Nuova Italia, 1999, vol. 2, p. 7):

Su questo drammatico scenario [quello delle carestie dell’inizio del 1300] è sopraggiunta una crisi economica di vaste proporzioni.

1. Ricordiamo che nella prima metà del Trecento a Firenze c’erano delle grandi compagnie di mercanti.-banchieri che facevano capo a potenti famiglie, come quelle dei Peruzzi, dei Bardi e degli Acciaiuoli. Le compagnie aveva o filiali in tutta Europa — da Bruges a Costantinopoli, da Londra a Siviglia e a Gerusalemme — e provvedevano non solo a una vasta rete di commerci, ma giungevano a prestare ingenti somme di danaro anche ai re di Francia o di Inghilterra.

2. Ebbene, a partire dal 1341, e nell’arco di soli sei anni, quasi tutte le compagnie fiorentine fallirono una dopo l’altra. Ad innescare la crisi fu il diffondersi della sfiducia, forse dovuta alla Guerra dei Cent’anni iniziata nel 1337 tra Francia e Inghilterra. Fatto sta che coloro che avevano investito i soldi nelle compagnie fiorentine si presentarono sempre più numerosi agli sportelli a ritirarli; ma le compagnie non riuscivano a coprire le richieste, perché a loro volta non riuscivano a farsi restituire il denaro dai creditori, oppure perché avevano investito il denaro in alcune operazioni rischiose, dalle quali non potevano recuperarlo. La ripercussione del fallimento delle banche fiorentine si trasmise a catena tra i banchieri e i mercanti di tutta Europa.

3. La crisi era finanziaria,non economia, ossia non dipendeva dall’insufficienza di fattori produttivi ma dal funzionamento dei prestiti, e soprattutto dalla capacità di suscitare fiducia. I sistemi messi in atto nelle città italiane e fiamminghe erano infatti molto avanzati per l’epoca e richiedevano un atteggiamento molto più aperto e moderno della mentalità che invece a quei tempi era normalmente diffusa in Europa. In definitiva, la crisi finanziaria era dovuta al fatto che le città italiane e fiamminghe erano troppo all’avanguardia rispetto a un’Europa che era rimasta in larga pare feudale. La crisi finanziaria quindi non dipendeva dalle carestie, ma ne ha aggravato drammaticamente gli effetti.

Ora, un ragazzo di scuola media che legge questa pagina è portato a ricavarne l’impressione che la crisi finanziaria del 1341, così come, in genere, un po’ tutte le succesive crisi finanziarie che hanno caratterizzato la storia moderna, sia stata favorita da un quadro politico ed economico sfavorevole e preoccupante — la guerra dei Cento Anni, le carestie dei primi decenni del XIV secolo — ma che in definitiva il fattore decisivo sia stato l’impreparazione culturale e psicologica del pubblico, vale a dire dei produttori e dei risparmiatori, i quali non avevano sviluppato una mentalità sufficientemente "aperta" e " moderna" capace di supportare in maniera adeguata il modus operandi audace e spregiudicato, cioè aperto e moderno, dei grandi finanzieri. Se tutti quei piccoli e medi risparmiatori non si fossero affollati agli sportelli delle banche per recuperare i loro capitali, mostrando sfiducia in quello che oggi si chiama il mercato azionario – questo almeno è quanto si ricava in maniera non troppo velata dal brano -, la crisi non ci sarebbe stata perché, osserva l’autore, i fondamentali dell’economia erano sani e quindi non c’era una vera ragione per cui una crisi di panico al livello degli investimento finanziari si trasformasse in una catastrofe economica. Dunque, se ciò accadde, fu in buona sostanza perché i risparmiatori non mantennero i nervi saldi ma mostrarono una deplorevole tendenza a voler rivedere il colore del proprio denaro, dopo averlo depositato presso le grandi banche.

Indirettamente, perciò, la morale di questa storia, che si può applicare anche alla crisi del 1929 o a quella del 2007-2009, è che non c’è nulla di male se i grandi banchieri prestano ai potenti della terra denari che non hanno, né se investono i capitali in operazioni finanziarie piuttosto rischiose, perché, se poi le cose si mettono male, le banche falliscono ed i risparmiatori perdono tutti i loro risparmi, ciò è dovuto essenzialmente al comportamento irrazionale di questi ultimi, i quali dovrebbero ben sapere che non è possibile esigere la riscossione dei capitali tutti nello stesso tempo, perché le banche si reggono su un giro d’affari che presuppone la "fiducia nei mercati", ossia il fatto che i risparmiatori se ne stiano buoni e tranquilli e lascino fare tutto alle banche, le quali sanno come investire i loro capitali. Ossia in operazioni delle quali i comuni mortali non capiscono nulla, per cui è meglio che non ne sappiamo nulla.

Se ci è lecito fare una paragone, diremmo che nelle operazioni dei grandi banchieri vige la stessa regola che si è instaurata fra il primario di un ospedale e il paziente che deve essere operato: quest’ultimo non sa nulla ed è bene che non sappia nulla, deve solo fidarsi e rimettersi docilmente nelle mani dei medici: loro soltanto sanno quel che va fatto e come va fatto. Se per caso il paziente si agita e si mette in testa di essere adeguatamente infornato, o addirittura avanza l’incredibile pretesa di decidere lui se e come sottoporsi a un certo intervento, magari dopo aver sentito il parere di altri medici, un simile atteggiamento viene letto come un segno di sfiducia e c’è il caso che le cose non si mettano bene per quel paziente, perché i medici, infastiditi dalla sua diffidenza, potrebbero anche non saper fare del loro meglio per conservare la sua salute. E se questa immagine dovesse parere eccessiva a qualcuno, vorremmo invitare costui a riandare con la memoria a quando si è trovato con un congiunto in procinto di essere operato, e ha provato a domandare spiegazioni su quel che il primario intendeva fare: a molte persone è capitato di andare a sbattere contro un muro di presunzione, irritazione e insofferenza, come se il primario avesse considerato quelle domande una forma di sfiducia e quasi d’insubordinazione. Come osa, un semplice profano, interpellare in una questione di merito il solo titolato a capire e a decidere quel che va fatto? Anzi basta anche meno, basta domandare notizie del paziente, chiedere qualcosa sul decorso del male, per trovare un viso accigliato, un’espressione superba che fa cadere dall’alto, come fosse una grazia concessa dagli dei, ogni singola parola, sempre col sottinteso: «e non chiedere altro, perché ti è già stato concesso fin troppo del mio prezioso tempo». Non vogliamo dire che sia sempre così, ma questa che abbiamo descritto è una situazione frequente, per non dire normale. E chi lo nega, forse non ha mai avuto a che fare con un congiunto ricoverato in serie condizioni in una struttura ospedaliera, specie se pubblica.

Ad ogni modo, non vorremmo essere fraintesi: qui non si fa questione di cortesia personale o di modestia del singolo individuo. L’analogia fra il sistema sanitario e quello finanziario e creditizio non consiste nella psicologia degli operatori, ma nella forma anonima del sistema stesso, e nella standardizzazoine di operazioni che passano sopra la conoscenza e la condivisione del singolo, sia egli un ricoverato ospedaliero, sia un risparmiatore che affida i suoi denari a un istituto bancario. In entrambi i casi, il sistema è fatto in modo da riservare esclusivamente ai tecnici, agli specialisti, la decisione riguardante un bene primario del singolo cittadino: la salute individuale nel primo caso, i risparmi personali nel secondo. Così come vengono scoraggiate le domande del paziente, del pari non si ritiene necessario informare il risparmiatore dell’uso che verrà fatto del suo denaro: ed è un bene che sia così, naturalmente, dal punto di vista delle banche. Se queste ultime dovessero giustificare dettagliatamente le operazioni che si accingono a fare con il denaro dei risparmiatori, diverrebbe impossibile costruire quel castello di carte che è la speculazione finanziaria, e in particolare quel gioco delle matrjoske che sono i cosiddetti derivati, ossia azioni-spazzatura che perpetuano una grande finzione, ossia che si possa fare denaro dal nulla, semplicemente acquistando certi prodotti "rischiosi" e fingendo d’ignorare che dal nulla non nasce nulla, e che quanto più potrebbero essere grandi i vantaggi, ossia i profitti, tanto maggiori saranno i rischi, vale a dire il ricorso a operazioni d’investimento altamente spregiudicate, per non dire irresponsabili. Tanto, se poi le cose vanno male, chi si addosserà le perdite? Naturalmente i risparmiatori, non certo le banche, le quali, grazie al sistema di complicità e connivenze di cui godono nel sistema statale, potranno sempre ricevere una ciambella di salvataggio e rimanere a galla, nonostante le gravissime perdite subite. Si tratta solo di addossare tali perdite sui più ignari e indifesi, cioè i singoli risparmiatori: cosa che è divenuta facilissima da quando le banche centrali sono di fatto divenute private e continuano ad avvantaggiarsi del sostegno statale, anche se lavorano per conto di interessi che non sono affatto pubblici, né funzionano come casse di risparmio, ma sono istituti privati specializzati nella speculazione di borsa. Inoltre, il fatto che in questa fase storica il grande potere finanziario sia riuscito a piazzare i suoi uomini di fiducia nei settori vitali dei principali stati, compresi i capi di stato e di governo e i principali ministri e membri dei parlamenti, fa sì che ai cittadini non abbiano praticamente alcuna speranza di ottenere trasparenza sull’uso dei loro risparmi da parte delle banche, e che non posano sperare in alcun risarcimento in caso di fallimento nominale di queste.

In questo senso, il sistema finanziario della metà del XIV secolo era ancora molto arretrato e approssimativo rispetto a quello odierno. I banchieri-mercanti correvano effettivamente qualche rischio, e non solo i loro clienti; il fatto stesso che fossero mercanti, oltre che banchieri, li teneva almeno parzialmente ancorati all’economia reale, cioè alla produzione effettiva di beni e servizi, alla circolazione virtuosa dei capitali, ossia agli investimenti produttivi e alla creazione di posti di lavoro. Oggi le cose sono molto diverse perché i grandi finanzieri giocano in regime di monopolio, non corrono il più piccolo rischio ed è stabilito, anche legalmente, che eventuali cadute sono a carico del risparmiatore, non delle banche. Proprio come, nel sistema sanitario, il paziente è obbligato ad assumersi la responsabilità di un farmaco sperimentale, la cui somministrazione è stata decisa dai tecnici e imposta, di fatto, dalle autorità dello stato, anche se si sa benissimo che vi sono effetti collaterali avversi che peseranno sulla salute delle persone, così nel sistema finanziario le grandi banche si cautelano in via di principio ottenendo dal risparmiatore tutta una serie di firme che autorizzano in anticipo, e praticamente a scatola chiusa, una serie d’investimenti dei quali egli non sa praticamente nulla e che deve fingere di conoscere per poter ottenere che il suo denaro venga accettato dalla banca. Insomma. Nessun rischio per i padroni del sistema, e tutti i rischi a carico del singolo cittadino.

C’è poi un altro fattore che contraddistingue la raffinatezza del sistema finanziario odierno: la colpevolizzazione preventiva del risparmiatore rispetto a possibili esiti negativi. Ciò che nella pagina sopra citata viene adombrato, in questi ultimi venti anni è divenuto parte della cultura ufficiale: la nozione, cioè, che responsabile delle crisi finanziarie è la scarsa "apertura" e la scarsa "modernità" dei cittadini rispetto al livello avanzato e sofisticato delle operazioni condotte dalle grandi banche. Insomma: chi è causa del suo male, pianga se stesso. E nella "responsabilità" del pubblico rientra anche quel fattore di rischio costituito dal debito pubblico, anche se questo si è creato grazie ad un’alleanza perversa fra politica e affari, con i governi infeudati alla finanza o addirittura creati direttamente alla finanza, i quali addossano ai cittadini un debito in realtà inesistente, costruito sugli interessi progressivi dei prestiti ottenuti dai governi per la spesa pubblica, e ripianati a carico dei contribuenti, i quali però non riescono a rompere la spirale del debito stesso e finiscono per trasmetterlo alle generazioni successive. In questa prospettiva viene costruita la leggenda di una popolazione poco virtuosa, che vive al di sopra dei propri mezzi e spende più di quanto riesce a produrre e a guadagnare: leggenda del tutto funzionale agli interessi delle grandi banche, che serve a far sentire i cittadini colpevoli; proprio come, nell’ambito sanitario, si è diffusa un’altra leggenda nefanda, quella della pandemia causata, o ingigantita, dal comportamento poco virtuoso di una parte della popolazione, rea di non volersi sottoporre alle inoculazioni di massa "per il bene comune".

Il concetto è sempre lo stesso: privatizzare i profitti e scaricare sul pubblico i rischi e i passivi, aggiungendo, per buona misura, l’idea che il pubblico è responsabile dei propri mali e pertanto che i cittadini devono abituarsi all’idea di rinunciare a una parte dei loro diritti e delle loro libertà, visto che non sanno farne buon uso. Ecco perché i nostro dirigenti attuali prendono a modello la Cina e vorrebbero ottenere dai cittadini lo stesso grado di sottomissione della popolazione, facendole scordare un "pericoloso" passato nel quale essi erano soggetti di diritti e lo stato doveva rispettare, a norma della costituzione, le loro libertà. Ora questo bagaglio è visto come un’eredità negativa della quale occorre sbarazzarsi, perché i fini e la natura della globalizzazione hanno reso diritti e libertà individuali una moneta fuori corso. In altre parole, il cittadino che vuol essere tenuto presente dai suoi governanti, il paziente che vuol ricevere risposte dai suoi medici e il risparmiatore che vuole trasparenza dalla sua banca rappresentano un modello negativo, un intralcio e un fastidio dal punto di vista della globalizzazione. Devono essere sostituiti da una mentalità nuova, per l’appunto più "aperta" e più "moderna", nella quale i gruppi dirigenti (vedi il Forum di Davos) hanno il controllo totale della popolazione, della salute pubblica e del mercato azionario, quindi considerano l’economia come cosa di loro esclusiva pertinenza, rispetto alla quale il lavoratore-produttore è un elemento di disturbo. Meglio fare in modo che questo relitto del passato venga eliminato; che la gente perda il lavoro e sia costretta a sopravvivere col reddito di cittadinanza elargito graziosamente dal governo. Ovviamente, solo ai cittadini "virtuosi". Il modello dell’Emilia-Romagna, nel sistema italiano, farà ben presto scuola: il cittadino gode solo di quei diritti che gli vengono riconosciuti in base alla sua docilità e obbedienza.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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