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La svolta dell’arte nel XIII secolo preannuncia l’avvento della modernità

Quando incomincia la modernità?

Prima di tentar di rispondere a questa domanda, proviamo a darne una definizione: la modernità è quel processo storico, o quell’insieme di processi — spirituali, intellettuali, materiali — che registrano un progressivo distacco della società civile dal modello religioso, e una crescente fiducia, da parte dell’uomo, di poter divenire egli stesso l’artefice del proprio bene, mediante lo strumento della ragione, la creazione di macchine, il dominio sulla natura e l’abbandono delle forme del sapere precedenti, fondate su strutture conoscitive non solamente logico-razionali, ma anche intuitive, simboliche, mitiche e sovra-razionali: cioè sull’apertura al sacro, alla trascendenza, al soprannaturale. In altre parole, la caratteristica fondamentale della modernità è l’emancipazione da ciò che è superiore all’umano, la rivolta contro di esso, e, infine, la sua radicale negazione; viceversa, sulla affermazione recisa, sempre più energica, sempre più orgogliosa, della condizione umana, sentita come natura che si auto-trasforma, si auto-perfeziona e si auto-redime. Anche se, nella modernità, sono frequenti, e senza dubbio strutturali, le crisi di scoraggiamento, i momenti di delusione e ripiegamento, i contraccolpi dei fallimenti delle ideologie nelle quali, volta a volta, essa ha creduto e ha trasferito tutta la sua fiducia in sé — il progresso, la ragione, la scienza, la tecnica, il benessere, la felicità, la libertà, la giustizia, i diritti universali, eccetera -, nondimeno il sottofondo di essa permane e non si smentisce: la modernità continua a credere in se stessa, a dispetto di tutto; qualora la sua fiducia in sé dovesse incrinarsi e crollare definitivamente, non vi sarebbe altra possibilità che il nichilismo e l’auto-dissoluzione, perché l’essenza del moderno è il motto: indietro non si torna.

Impostata così la questione, va da sé che la Rivoluzione scientifica del XVII secolo, e, in seguito, il movimento illuminista del XVIII, non sono l’inizio della modernità, ma, semplicemente, il momento in cui la modernità incomincia a prendere il sopravvento sui modi di vita precedenti. Sui modi di vita, non solo sulla cultura: infatti, la modernità è quasi esclusivamente un insieme di atteggiamenti culturali, nel senso più ampio del termine, e dei loro effetti pratici; mentre le società pre-moderne sono caratterizzate da un orientamento complessivo ed organico di tutta la vita spirituale, intellettuale e culturale. Tanto è vero che il tipico esponente della cultura moderna è l’intellettuale, nuova figura di sedicente savant, "sapiente", che sa solo di libri e che scrive e parla per una élite; se si rivolge alle masse, è per blandirle e carezzarle, insomma per manipolarle, non certo per educarle e meno ancora per mostrar loro la verità. Il tipico esponente della cultura pre-moderna, invece, è l’uomo di cultura, al livello delle éites; e l’uomo di buon senso, il pater familias, il contadino avanti negli anni, saggio, stimato, prudente, autorevole, al livello delle masse. Dai loro rispettivi ruoli nasce una società gerarchicamente ordinata, dove il sapere, sia quello teorico, sia quello pratico, è in funzione della tradizione, della stabilità, della coesione sociale. Viceversa, dal sapere, o dal supposto sapere, del cosiddetto intellettuale, nascono le teorie audaci, ma eterodosse; le critiche corrosive, incessanti, demolitrici dell’esistente; e quindi il disorientamento e la confusione generale, senza che codesto intellettuale sia mai capace di proporre qualcosa di positivo, di costruttivo, di stabile e di durevole: qualcosa che aiuti la vita, che incoraggi le persone, che consoli gli afflitti, che corrobori i deboli e gl’incerti.

Ora, se la modernità è soprattutto un insieme di atteggiamenti culturali, non c’è bisogno di aspettare Francis Bacon, o Galilei, o Cartesio, per attribuirle una data d’inizio; lo si può vedere altrettanto bene in altri ambiti, che precedono la rivoluzione scientifica e il razionalismo filosofico. Uno è quello della politica: e qui il vero iniziatore è Machiavelli, che rompe, per primo, il tradizionale legame fra essa e la morale, facendone una scienza autonoma. Un altro, che precede di molto il Rinascimento, è quello dell’arte: perché è proprio nell’arte medievale che si può osservare il passaggio dall’uno all’altro atteggiamento culturale, da quello pre-moderno a quello moderno: il primo fondato sulla tradizione, il secondo di aperta rottura con essa. Precisamente, la svolta si colloca intorno al XIII secolo, che corrisponde — in Italia – all’apogeo e all’inizio della crisi della civiltà comunale; e il "luogo" dove la si può meglio osservare è la rappresentazione della natura, in particolar modo nella scultura e nella pittura di soggetto sacro.

In verità, quasi tutta l’arte medievale è arte sacra: essa ruota introno alla chiesa e alla cattedrale, al convento e all’abbazia; è glorificazione, lode e ringraziamento al Signore, rappresentazione del suo splendore e, nello stesso tempo, educazione del popolo dei fedeli, attraverso la narrazione della storia sacra: dalla creazione al Giudizio finale, passando per il Peccato originale, il diluvio universale, la storia del popolo d’Israele, l’Incarnazione, la Passione, Morte e Resurrezione di Cristo, l’Ascensione, la Pentecoste, le vite dei santi, l’Apocalisse, con la venuta dell’Anticristo, la battaglia finale e la conclusione della storia. La rappresentazione della natura, in questa cornice generale, risponde al duplice scopo d’illustrare le meraviglie e la sapienza della creazione, da un lato, e di rinviare, per mezzo delle sue valenze simboliche, alla verità profonda, invisibile, soprannaturale, che è lo scopo e la meta finale della vita umana. Ora, fino al XIII secolo la natura risponde quasi sempre, in maggiore o minior misura, a questi due scopi fondamentali: dal paleocristiano al bizantino, dall’altomedievale al romanico, le sculture delle cattedrali, i mosaici dei pavimenti, le vetrate dei finestroni, le decorazioni dei battisteri, delle acquasantiere, dei pulpiti, dei capitelli, i rilievi del coro, i fregi del transetto e dell’ambone, tutto è organizzato nella duplice direzione di fare della natura un inno di lode a Dio (come nel Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi) e una espressione del linguaggio allegorico e sapienziale con cui Dio parla agli uomini.

Ma ecco che, a partire dal secolo XIII, anzi, da circa un secolo prima nella Francia settentrionale (l’epicentro è Parigi, con la circostante Île-de-France) si diffonde una nuova corrente artistica, il gotico, che supera la concezione antinaturalistica fino ad allora prevalente; e se, in architettura, lo slancio magnifico delle cattedrali gotiche, fatto di pure linee ascensionali e di estrema leggerezza degli elementi strutturali, quasi in chiave di dissoluzione della materia — si pensi alla vastità delle superfici vetrarie rispetto a quelle in muratura — nella scultura e nella pittura, nonché nell’arte della miniatura, si assiste ad un recupero dello studio del corpo umano e ad una rilettura in chiave realistica dei fenomeni e della creature del mondo naturale. Il "manifesto" del nuovo stile, in effetti, è rappresentato dal coro dell’abbazia di Saint Denis, a Parigi, consacrata nel 1144: a partire da quel momento, nel resto della Francia, nei Paesi tedeschi, in Italia, in Spagna,in Inghilterra, dilaga la nuova concezione dell’arte, basata su un ritorno al realismo e al naturalismo e sulla chiusura definitiva della maniera "greca", astratta, simbolica, permeata di ascetismo e misticismo, di rappresentare la realtà.

Contemporaneamente, cominciano a svilupparsi vigorosamente espressioni artistiche rivolte al mondo profano: è col XIII secolo che l’arte, prima quasi esclusivamente fenomeno religioso, incomincia a diventare un fenomeno laico, celebrante le realtà della dimensione terrena. Ciò avviene nella fase del consolidamento delle grandi monarchie nazionali e dei comuni italiani e fiamminghi, e coincide con una svolta spirituale che subisce i contraccolpi della nuova economia commerciale pre-capitalista. Mentre il fiorino dilaga in Europa e si formano le grandi fortune dei banchieri, cade gradualmente la condanna della Chiesa nei confronti del prestito a usura, nella misura in cui l’usura stessa viene assorbita e perfezionata, nonché istituzionalizzata e "spersonalizzata", espandendosi su di una scala molto più ampia, da un nuovo ramo dell’economia che sfrutta le potenzialità del prestito di denaro e del suo investimento "virtuale": il nuovo sistema bancario e assicurativo, appunto, basto sulla spregiudicatezza e sulla fortuna, nonché sul fattore tempo (nasce qui il concetto che tempo è denaro), più che sul lavoro e sul risparmio.

Scriveva Roberto Salvini (Firenze, 1912-ivi, 1985), ordinario di Storia dell’arte presso l’Università di Firenze, nel breve ma efficace saggio L’arte nel pensiero medioevale (in: L’arte nel Medioevo. Il Duecento e il Trecento, a cura di Giovanni Lorenzoni e Roberto Salvini, Torino, Touring Club Italiano, 1965, pp. 64-65):

IL CONCETTO DELL’ARTE PRIMA DEL SECOLO XIII.

Il periodo di cui trattiamo non fu tra i più fecondi nel pensiero sull’arte. Qualche idea nuova albeggia tuttavia, pur nella perdurante continuità della tradizione, durante il secolo XIII, e nel Trecento le vecchie concezioni sono spesso ripetute con accenti nuovi, attraverso i quali va facendosi strada il principio, che si affermerà più chiaramente nell’età successiva, dell’autonomia dell’arte.

Il primo Medioevo aveva generalmente assegnato all’arte una funzione ancillare rispetto alla religione e al culto: l’architettura era considerata l’arte di costruire la casa di Dio, la scultura e la pittura avevano una funzione didattica, sostituendo per gli illetterati la lettura dei sacri testi, ed erano spesso definite come "Biblia pauperum". In tal modo esse erano considerate come un surrogato e più volte i teologi insistono sul concetto che l’immagine non può dare che un’idea impallidita e talvolta inesatta di quelle verità che soltanto lo scritto può esprimere appieno. Né erano rari gli ecclesiastici che guardavano alle arti figurative con malcelato sospetto. Ma non si deve credere per questo che l’arte languisse durante il Medioevo a causa dell’"oscurantismo estetico" della Chiesa; abbiamo anzi ragione di credere che quelle tendenze rigoristiche abbiano ben di rado prevalso: le ari figurative e segnatamente la pittura, a mosaico o a fresco, risposero ai sospetti dei teologi con la fedeltà alle tradizioni iconografiche. Ogni nuovi ciclo narrativo o allegorico seguì nella struttura e nello svolgimento iconografico cicli più antichi e pertanto autorevoli, costituendo così una ininterrotta catena che avendo come primi anelli figurazioni risalenti ai primi secoli del cristianesimo e pertanto relativamente prossime ai fatti narrati, poteva vantarsi di possedere un contenuto di autenticità storica.

E quanto all’architettura, la persistente influenza del pensiero estetico antico continuò dall’altra arte a porre accanto alle esigenze pratiche e liturgiche la ricerca di una "bellezza" attraverso la quale potevano liberamente esprimersi gli ideali artistici degli architetti.

L’ARTE COME IMITAZIONE DELLA NATURA.

Un profondo rinnovamento del pensiero sull’arte cominciò a manifestarsi nel secolo XIII sulla scia della filosofia scolastica: S. Tommaso riaprì in certo modo all’arte il regno della natura, poiché nel suo sistema la natura e le cose materiali ritrovarono cittadinanza in quanto frutto della creazione e parte integrante dell’Essere. L’orientamento aristotelico dell’Aquinate rimise inoltre in onore il concetto dell’arte come "mimesi", che il neoplatonismo aveva oscurato. Mimesi significa imitazione, ma l’imitazione del reale è concepita da Aristotele come strumento di conoscenza; l’estetica aristotelica quindi conteneva un principio razionale e un orientamento verso il mondo della natura che giovarono a nutrire la poetica dell’arte gotica.

È indubbio infatti che col Trecento toscano le idee tradizionali andarono acquistando accenti e significato più moderni. Dante per esempio si ricollega certamente all’estetica tradizionale del Medioevo più antico quando sovrappone alla lettera del proprio poema significati più alti, ma quando paragona nella Commedia l’opera dell’artista a quella della natura, poiché questa, come quello, crea in modo imperfetto, egli pone l’accento sul carattere creativo dell’arte, interpretando in un senso assai pregnante l’aristotelica mimesi. E che si debba intendere davvero così ce lo conferma il Boccaccio, per il quale l’artista imita dunque la natura sforzandosi di creare con proprio artificio quel che la natura crea per propria insita forza. Nasce nel trecento anche il concetto, che sarà fecondo di sviluppi nell’estetica del Rinascimento, del carattere razionale dell’arte. Ce lo dicono il Petrarca e il Boccaccio a proposito della pittura di Giotto: merito del maestro è per il Boccaccio di aver riportato alla luce un’arte che "compiace all’intelletto de’ savi", superando quella precedente, che era invece intesa "a dilettar gl’occhi degl’ignoranti". Alla grande, innovatrice pittura di Giotto spettò certamente, in buona parte, come alla grande poesia di Dante, il merito di aver rimesso in moto il pensiero estetico del tempo.

Dante Alighieri, vissuto a cavallo fra XIII e XIV secolo, vive personalmente questo grande fenomeno di trasformazione, lo osserva, ne resta fortemente colpito, fa le sue deduzioni: si può dire che il suo poema, cui han posto mano e cielo e terra, è un supremo, sublime monito contro la tendenza della società e della cultura tardo-medievali ad allontanarsi dalla matrice cristiana, spirituale, ascetica, che vede la vita umana come pellegrinaggio e preparazione all’eternità, ed un richiamo appassionato affinché gli uomini non si lascino sedurre dalle nuove prospettive di facile arricchimento, di materialismo e d’indifferentismo religioso: cioè dalla lonza della lussuria, dal leone della superbia e dalla lupa della cupidigia.

Dante non è semplicemente l’ultimo grande esponente della cultura medievale: è un profeta, tragico e inascoltato, che tuona con sdegno veemente, che supplica, che minaccia, come Giona per le strade di Ninive, affinché gli uomini si convertano e ritornino ai sentieri di Dio. È talmente proiettato in avanti, e vede con tale lucidità gli effetti dissolventi della nuova mentalità affaristica e utilitaristica, che molti lo scambiano per un nostalgico del passato: ma la sua visione non appartiene al passato o al presente, bensì all’eternità, e risuona come un monito ancora e sempre attuale, anche per noi uomini del terzo millennio.

Così, mentre l’arte consuma la rottura con la dimensione morale e religiosa della natura, si creano le premesse per quella opacità della natura stessa, che culminerà nella Rivoluzione scientifica e nella concezione riduzionista, meccanicistica e quantitativa di Newton e della fisica moderna. La natura diviene "cosa"; le creature divengono oggetti staccati, passibili di studio scientifico, ma non più di comprensione profonda; il cielo stellato, vivo e palpitante di spiritualità, si trasforma in una volta inerte, matematicamente determinabile, che l’astronomo classifica e i cui movimenti possono essere previsti, ma il cui significato sfugge al filosofo e si sottrae alla riflessione del teologo. La natura diventa sempre più prevedibile, non stupisce più, non sorprende, non meraviglia; eppure diventa anche più misteriosa, elusiva, aliena. Quanto più l’uomo moderno è capace di dominarla, tanto meno essa appare disposta a rivelargli il suo intimo segreto. E la cifra di questa svolta, di questo cambiamento, è espressa proprio in quella osservazione di Boccaccio: cioè che la nuova arte della civiltà umanistica compiace all’intelletto de’ savi, piuttosto che dilettar gl’occhi degl’ignoranti. Ma si è trattato davvero d’un progresso? Lo scopo dell’arte è dilettare l’intelletto delle élites culturali, trascurando con disprezzo le masse ignoranti? Che cosa accade del fenomeno artistico, una volta che ne siano recise le radici popolari e la prospettiva universale, e che essa sia trapiantata in serra, per la gioia egoistica e altezzosa di pochi dotti?

Eppure, indietro non si torna, ammoniscono i cantori del Progresso illimitato. Non importa se l’arte, la politica, la scienza, la tecnica, distaccandosi dalla morale, cioè dall’idea del Bene, cominciano a girare a vuoto, producendo cattedre e stuoli di specialisti, ma quasi più nessun vero uomo di cultura. E non importa nemmeno se l’uomo moderno, pur con tutti i suoi apparenti trionfi sulla natura e sul destino, si sente sempre più svuotato, solo e infelice. Vale però la pena di porre una domanda: tutto questo non è forse il prezzo che egli sta pagando per il fatto di essersi allontanato da Dio, smarrendo, con ciò, anche le chiavi per comprendere il mondo da Lui creato, e legato con amore in un volume (Dante, Paradiso, XXXIII, 86)?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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