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31 Maggio 2016Romain Rolland (1866-1944) non è stato un grande scrittore, ma è stato uno scrittore grande, nel senso di vistoso, appariscente, ingombrante: ha fatto molto parlare di sé, non alla maniera di un D’Annunzio o di un Oscar Wilde, cioè attirando l’attenzione sulla sua persona e sulle sue azioni, ma, al contrario, ponendosi come l’alfiere d’una sorta di crociata umanitaria, pacifista, democratica, filantropica, anzi, addirittura rivoluzionaria. In compenso, il suo personale narcisismo non era inferiore, ma solo di segno differente da quello di un D’Annunzio o di un Oscar Wilde: e le buone, anzi, le ottime intenzioni di cui era addirittura imbottito, e delle quali ha fatto lo scopo della sua vita e della sua carriera, rendono la sua figura più imbarazzante, ma non più originale delle loro. Il fondo comune, in ultima analisi, era lo stesso: il decadentismo; solo che Rolland ne ha sviluppato gli aspetti progressisti, altruistici, solidaristici, non senza fumisterie e velleità perfino grottesche, come quando ha mescolato insieme la sua ammirazione per la nonviolenza del Mahatma Gandhi e quella per Lenin e Stalin; mentre D’Annunzio e Oscar Wilde hanno sviluppato la dimensione dell’estetismo, dell’individualismo esasperato, del gesto eccezionale, della "vita inimitabile".
Rolland non è passato alla storia per la qualità delle sue opere, inversamente proporzionale alla loro quantità (ha scritto moltissimo, ma nulla che sia rimasto davvero nella storia letteraria), ma per le sue buone intenzioni: eterna e patetica figura d’intellettuale europeo buonista e democratico, nemico di ogni totalitarismo (ma soprattutto se di destra) e genericamente amico del "popolo", vero erede dello spirito del 1789. Le sue concezioni politiche e filosofiche erano prive di sostanza e di coerenza, però erano confezionate con tanto pathos, con tale sfoggio di buoni sentimenti, da commuovere anche i cuori di pietra: chi non avrebbe condiviso, almeno nelle linee generali, la sua sincera e profonda aspirazione alla pace, alla giustizia, alla libertà, alla fratellanza, al progresso, per tutti gli uomini della terra? Chi non avrebbe riconosciuto che egli aveva saputo schierarsi sempre dalla parte giusta, cioè dalla parte della ragione e del buon diritto, in tutte le grandi controversie del suo tempo, dall’affare Dreyfus, quando si era schierato risolutamente, come Émile Zola, fra gli "innocentisti", allo scoppio della Prima guerra mondiale, quando si era trovato fra i pochi a non condividere l’entusiasmo per i tamburi della mobilitazione generale, e a spezzare una lancia in nome della pace? A dire la verità, parlar male di uno come Romain Rolland significa fare la figura di chi si mettesse a sparare sulla Croce Rossa: una cosa semplicemente inconcepibile.
Poi c’era stato l’Ottobre: quel che parve il secondo tentativo del popolo lavoratore (il primo, era stato quello della Comune di Parigi, soffocato nel sangue) di prendere il potere e sostituire alla barbarie della guerra fra le nazioni, un nuovo ordine sociale, fondato sulla giustizia e sull’uguaglianza. Rolland ci aveva creduto, ma con crescenti riserve: le notizie che giungevano dalla Russia, per quanto vaghe e confuse, non deponevano a favore della democraticità del nuovo regime. Ancora nella seconda metà degli anni venti, Rolland dichiarava pubblicamente di disapprovare i metodi bolscevichi, pur ammettendo che "il fine era buono". Le autiorità sovietiche, però, si stavano impegnando in un’abile e spregiudicata "campagna acquisti" nel Gotha dell’intellettualità progressista europea, il cui scopo era rompere l’isolamento internazionale della "patria del socialismo", specialmente dopo l’avvento al potere di Hitler in Germania e il profilarsi di uno scontro decisivo tra fascismo e comunismo. In questa prospettiva, con la svolta della Terza internazionale e la politica dei Fronti popolari, diventava di cruciale importanza, per l’Unione Sovietica, ancor alle prese con i postumi traumatici della collettivizzazione forzata delle campagne, e in vista delle "grandi purghe" staliniane, che almeno una parte degli intellettuali democratici e di sinistra, ma non comunisti, dell’Europa occidentale, prendessero posizione a favore di essa, accordassero almeno un supplemento di fiducia e diffondessero nei rispettivi Paesi l’idea che, senza l’Unione Sovietica, qualunque resistenza contro il fascismo dilagante sarebbe risultata vana e inefficace. Fra la barbarie nazista e l’utopia comunista, bisognava che un certo numero di prestigiosi intellettuali democratici si esprimesse a favore della seconda, aiutando così l’autocrazia staliniana a uscire dal totale isolamento internazionale in cui si trovava, e contribuendo a dissuade i governi democratici da qualsiasi ipotesi di collaborazione, o anche solo di "coesistenza pacifica", con il fascismo e il nazismo: perché, se tale eventualità si fosse verificata, Hitler sarebbe stato libero di sferrare il colpo a Oriente, senza doversi preoccupare di guardarsi alle spalle, e l’Unione Sovietica sarebbe venuta a trovarsi n una situazione disperata.
C’era poi il "fattore Trotzkij", che, per il solo fatto di esistere, costituiva una sfida allo stalinismo e una perenne denuncia della involuzione burocratica e repressiva in atto nell’Unione Sovietica, gettando discredito sugli sforzi della Terza internazionale per auto-legittimarsi e per legittimare quel Paese alla direzione del movimento comunista mondiale. Peraltro, il "fattore Trotzkj" svolgeva anche, suo malgrado, una funzione utile per la propaganda di Stalin: finché l’immondo "traditore" viveva e schizzava veleno contro la grande patria dei lavoratori, era possibile addebitargli tutti i fallimenti economici, politici e sociali della politica staliniana, accusandolo di complottare con il fascismo e di sabotare i Piani quinquennali, ordendo una fitta rete di spionaggio e di terrorismo per colpire alle spalle i lavoratori e l’eroico popolo sovietico. Comunque, Trotzkij o non Trotzkij, Stalin, con il fiuto quasi inesplicabile che lo guidava, si rendeva conto di aver bisogno che scrittori come André Gide, André Malraux e Romain Rolland visitassero l’Unione Sovietica e riportassero in Francia e in Europa un giudizio, se non del tutto favorevole, almeno amichevole e possibilista circa la bontà dei risultati che la costruzione del socialismo stava incontrando in quel Paese.
Fu così che nel 1935, dopo aver ricevuto ripetuti inviti, specialmente per il tramite del suo amico Maksim Gorkij — il quale, a sua volta, si era fatto convincere da Bucharin a rientrare in patria, dopo anni di esilio — Rolland, a quasi settant’anni di età, prese il treno per Mosca e visitò a lungo l’Unione Sovietica, fatto oggetto di attenzioni e manifestazioni di considerazione che andarono ben oltre il limite dell’adulazione. Per un intellettuale di quell’età, vedersi ricevuto, con tutti gi onori, in udienza privata dallo stesso Stalin, e sentirsi apostrofare come "il più grande scrittore del mondo", non deve essere stata un’esperienza di poco conto. L’uomo non era insensibile al richiamo della vanità; e sarebbe bastato assai meno per far perdere la bussola anche ad uno scrittore più giovane e inesperto. Rolland, però, che non era giovane, né inesperto, avrebbe dovuto fiutare il marcio; e, per dire il vero, si può dire che lo fiutò, stando a ciò che avrebbe poi riferito nel libro Viaggio a Mosca. Eppure, ad onta di questo, anche Rolland subì il fascino del grande dittatore e, soprattutto, anche lui si lasciò incastrare nel classico ricatto morale ordito dai comunisti negli anni Trenta del ‘900: vale a dire che parlar male dell’Unione Sovietica, criticare lo stalinismo, denunciarne le violenze gratuite e gli errori, sarebbe stato la stessa cosa che favorire il fascismo e il nazismo, rafforzando Mussolini e Hitler e aggravando la già cupa prospettiva di un’Europa, e, forse, di un mondo, fascistizzati entro un breve volgere d’anni.
Rolland, per la verità, quel ricatto lo aveva subito fin da prima di recarsi in Unione Sovietica. Alla fine degli anni Venti, aveva cercato di convincere lo scrittore greco-romeno Panaït Istrati, reduce da un secondo, deludente viaggio in Unione Sovietica, a non pubblicare il suo grosso libro-denuncia in tre tomi, intitolato Vers l’autre flamme, confession pour vaincus. Il libro uscì ugualmente e valse a scatenare una fortissima campagna denigratoria contro il suo autore da parte dei cani da guardia dell’ortodossia staliniana, a cominciare da Henri Barbusse, che, in Francia, si era conquistato un posto da scrittore in prima fila dopo aver pubblicato il libro Il Fuoco (1916), una violenta requisitoria antimilitarista e contro i massacri della Prima guerra mondiale. Fu un episodio sordido, con un Istrati depresso, povero, tubercolotico, lasciato solo come un lebbroso alla mercé dei mastini marxisti; e Rolland, che aveva "scoperto" lo scrittore romeno, lo aveva incoraggiato e lo aveva aiutato a pubblicare i suoi libri, decidendo di consigliare il "silenzio" proprio a lui, in nome della causa antifascista internazionale, aveva già mostrato, sin da allora, di essere l’uomo giusto per il tipo di propaganda, o almeno di benevola neutralità, che Stalin si riprometteva di ottenere tra le file dell’intellighenzia progressista europea.
Così lo storico François Furet ha rievocato il viaggio di Rolland in Unione Sovietica, con le sue notevoli conseguenze culturali, psicologiche e diplomatiche, nel suo celebre saggio Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo (titolo originale: Le passé d’une illusion, Paris, Editions Robert Laffont, 1995; traduzione dal francese a cura di Marina Valensise, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1995, pp. 313-317):
… Nel 1935, è il turno di Romain Rolland.
L’autore di "Au dessus de la melée" non è, come Barbusse, un amico incondizionato dell’URSS, sebbene sia stato uno dei primi scrittori a salutare la Rivoluzione d’ottobre. Dopo la guerra, nei primi anni del regime sovietico, è rimasto uno dei grandi nomi della sinistra intellettuale europea, pacifista, internazionalista, impegnata in grandi cause, ma proclive più alla non violenza tipo Gandhi che al leninismo. Del regime sovietico apprezza il progetto, ma ne detesta i mezzi. Nel giugno 1927 scrive per esempio a uno dei suoi lettori: "Sul bolscevismo, non ho cambiato affatto. Portatore di idee elevate (o piuttosto, visto che il pensiero non è mai stato il suo forte, rappresentante d’una grande causa) il bolscevismo ha distrutto questa e quelle per il suo gretto settarismo, un’inetta intransigenza e il culto della violenza. ha generato il fascismo, che è un bolscevismo alla rovescia". Eppure, lo stesso anno, su sollecitazione di Barbusse, Rolland accetta di firmare un appello contro "l’ondata di barbarie del fascismo", mettendo da parte le primitiva sua esigenza d’unire a esso la condanna d’ogni tipo di Terrore. L’anno seguente, stringe di nuovo i rapporti con l’amico Gor’kij, proprio nel momento in cui questi s’è lasciato convincere di tornare in patria da Bucharin e Stalin, il quale ultimo lo utilizzerà senza pietà. S’informa, legge, l’URSS rientra nel suo orizzonte. Nel 1929, sconsiglia a Panaït Istrati di pubblicare il suo libro, per non fornire armi alla reazione: è il sintomo d’un passo decisivo compiuto in direzione del bolscevismo.
Ormai è un compagno di strada, protetto dal partito, pubblicato in maniera massiccia nell’URSS, il più illustre – con Barbusse, poi Gide, infine Malraux – della pleiade d’intellettuali che a partire dal 1932-1933 darà lustro al’Associazione degli scrittori e degli artisti rivoluzionari, la rivista "Commune", l’antifascismo del gruppo Amsterdam-Pleyel, e l’insieme delle vetrine allestite da Munzenberg. Ne è anche abbastanza rappresentativo, nonostante l’età. […]
Il viaggio di Romain Rolland a Mosca, a lungo rinviato per ragioni di salute, avviene finalmente nel luglio del 1935. Periodo fasto per i rapporti franco-sovietici, in quanto è appena stato firmato il patto Laval-Stalin, ma terribile per i cittadini dell’URSS, poiché è iniziata l’impresa di liquidazione di decine di migliaia di vecchi quadri bolscevichi. Per lo scrittore, sarà un soggiorno regale: Rolland verrà coperto d’attenzioni, assalito da una delegazione di adulatori, sommerso di elogi prefabbricati, che pure toccano la sua vanità. Il punto culminante della visita sarà l’incontro che per due ore avrà da solo con Stalin, il quale non si risparmia l’enfasi, accogliendo il visitatore con queste parole: "Sono felice di parlare con il più grande scrittore del mondo". La conversazione comunque è interessante proprio per quello che rappresenta, in quanto riunisce due stereotipi del pantheon antifascista, l’intellettuale umanista e il dittatore secondo ragione.
Ognuno recita la sua parte. Romain Rolland l’assume con naturalezza, poiché è il ruolo che ha nella vita. Ha lottato per Dreyfus, contro la guerra del 1914, e quel giorno ha fatto un passo supplementare: è il testimone del comunismo al tribunale della Storia, l’uomo universale attraverso il quale la Rivoluzione di ottobre ottiene, una generazione dopo, un rinnovo del contratto. Barbusse era stato da sempre troppo amico del regime sovietico, per essere utile in questo senso. Gide non era ancora famoso per il suo amore delle grandi cause. Stalin ha scelto la persona giusta. […]
Romain Rolland ha preso cura di dare smalto al dialogo con i casi critici destinati a dar più peso al suo personaggio, manifestandone l’indipendenza: il caso Victor Serge (che a Parigi fa scalpore), poi la pena di morte per i bambini minori di dodici anni, di recente instaurata dopo l’assassinio di Kirov, o l’alleanza dell’URSS con la Francia borghese. Sono tanti interrogativi sui mezzi, che distinguono il compagno di strada dal militante. Stalin li soddisfa con molto buon senso, in nome della lotta di classe esacerbata dal fascismo. Si prende anche il lusso di darsi un ruolo da moderato, di fronte all’opinione sovietica che gli chiede la testa di Zinov’ev e Kamenev, responsabili, a sentir lui, della morte di Kirov. I due si congedano con una professione di fede umanistica. Lo scrittore ha riconosciuto la nuova via.
Malgrado tutto, il "Voyage à Moscou" di Romain Rolland resta una delle opere migliori di questo genere un po’ monotono, in quanto è stranamente percorso da lampi di lucidità. Il vecchio signore leggermente vanesio che respira l’incenso sovietico si rende conto di essere sbarcato in un microcosmo attraversato da una crisi politica profonda, in preda alla paura e sotto sorveglianza poliziesca. Non capisce il film che gli si svolge davanti agli occhi, ma sospetta che ce ne sia uno. Ha trascorso metà del soggiorno nella dacia di Gor’kij e osserva che il suo grande amico sovietico, "riconquistato" dal potere nel 1928, non gode d’alcuna autonomia: sta invecchiando tristemente in una prigione dorata; il segretario ne controlla tutte le comunicazioni con il mondo esterno. Con troppa facilità il viaggiatore salvaguarda la propria fede da queste pericolose osservazioni, perché è già entrato in un inizio di culto di Stalin, nuovo tratto dell’epoca nella storia del comunismo. Nessun dubbio lo sfiora sugli errori di Trockij, sui crimini di Zinov’ev o sui misfatti dei fascisti, né sulla saggezza del Capo. Non un Capo di tipo carismatico, che trascina le folle con l’incantesimo delle emozioni collettive, come è il caso per i fascisti, ma un "primus inter pares", saggio e solido, padrone delle proprie passioni, insomma una figura della ragione. Romain Rolland aureola Stalin d’un potere razionale: tradizionale figura del pensiero europeo, ambigua per definizione, poiché può nascondere l’amore della ragione, ma anche il fascino del potere. In ogni caso, da allora in poi quella figura è sempre stata parte del bagaglio degli amanti dell’URSS. Lo stesso Romain Rolland, qualche anno più tardi, dopo che sarà intimamente guarito dall’illusione e il suo amico Bucharin sarà stato processato e condannato, non oserà affrontare in pubbliche dichiarazioni la forza pura del regime staliniano.
Il viaggio del 1935 dà quindi, per tramite suo, la benedizione dell’universalismo democratico all’Unione Sovietica. Attraverso di lui, la patria del comunismo cessa di essere un paese eccentrico e violento in cui gli intellettuali rivoluzionari in segreto continuano a darsi furiosamente battaglia per il potere. è un grande paese in cui, sotto la direzione d’una guida illuminata, un regime politico ha ripreso la fiaccola della Rivoluzione francese, col progetto di rigenerare l’uomo. è un ordine postrivoluzionario rimasto fedele al progetto rivoluzionario, un sistema provvidenziale di cui i francesi della fine del XVIII secolo non avevano trovato la ricetta, e che permette di sommare i fedeli riunendo le tradizioni della sinistra europea intorno a un comune denominatore: la democrazia senza il capitalismo.
Lo ripetiamo: la vanità di un signore settantenne, che si è visto oggetto di adulazioni sperticate nel corso della sua visita in Unione Sovietica, ha fatto, certamente, la sua parte, ma – come nota lo stesso Furet — non spiega interamente il fenomeno. Dopotutto, stiamo parlando di un intellettuale personalmente onesto e, soprattutto, pieno di sentimenti filantropici e umanitari; la vanità non sarebbe stata sufficiente ad addomesticare il suo giudizio sul comunismo. Egli, infatti, fiutò il marcio: ma preferì non insistere. Preferì credere a quanto gli veniva detto da Stalin, da Bucharin (un altro morto vivente, in attesa di fare la fine di tutti gli altri oppositori, sia interni, come Zinov’ev e Kamenev, che esterni, come Trotzkij e gli anarchici di Barcellona) e da tutti gli altri funzionari di partito, che lo portavano attorno perché ammirasse i portentosi risultati del regime sovietico. E il motivo è più semplice, per lui e per tanti altri, di quel che si potrebbe immaginare, anche se la vanità e la debolezza morale di certi intellettuali ha reso le cose ancora più facili. In buona sostanza, si tratta di questo: per un intellettuale progressista — sia egli liberale, o socialista, o comunista, o radicale, o genericamente democratico – il Progresso è, per definizione e per atto di fede, il metro di giudizio fondamentale, nonché la meta suprema, il cui perseguimento giustifica tutto, o quasi. Ora, i totalitarismi "rossi" e "neri" degli anni Venti e Trenta, pur presentando alcune notevoli analogie esteriori, nascevano da una radice totalmente differente: il comunismo era un figlio del socialismo, che era il figlio legittimo del liberalismo, e, dunque, dell’idea di Progresso e della mistica rivoluzionaria nata nel 1789; il fascismo, e, in misura diversa, il nazismo, erano una reazione contro il liberalismo, la democrazia, il socialismo e il comunismo. Pertanto, l’uno si presentava come la tipica ideologia del Progresso; gli altri, come le tipiche ideologie nemiche del Progresso e nostalgiche del passato (ruralismo contro urbanesimo; tradizione contro modernità; spiritualismo contro materialismo; nazionalismo contro internazionalismo; famiglia tradizionale contro femminismo e disordine sessuale). Dunque, per un intellettuale convintamente progressista, era logico, e pressoché inevitabile, giungere a una scelta di campo come quella che fece Rolland, o, quanto meno, subire un ricatto come quello che consisteva nel tacere sui crimini di Stalin e del comunismo sovietico, per non favorire la marcia di Hitler verso il potere mondiale.
È un copione che si è ripetuto dopo la Seconda guerra mondiale, e poi ancora, più e più volte, monotono, praticamente sempre uguale, fin quasi ai nostri giorni, ogni volta che la coscienza degli intellettuali progressisti ha dovuto scegliere fra la denuncia dei crimini del comunismo ("rivoluzione culturale" cinese; politiche di genocidio dei Khmer rossi in Cambogia; repressioni liberticide nella Cuba di Castro) e il timore, vero o supposto, di favorire, così facendo, "il fascismo", "la reazione", "i colonnelli", il "clericalismo", e via sproloquiando. Ed è un copione che ha falsato fino ai nostri giorni la percezione dei crimini di Stalin rispetto a quelli di Hitler (come se lo sterminio di milioni di persone potesse nascere da "buone" o da "cattive" intenzioni, a seconda del simbolo ideologico da apporre sulle rispettive bandierine, e quindi essere soggetto a opposte valutazioni di carattere etico); dei crimini perpetrati nel 1943-45, e anche a guerra finita, dai partigiani comunisti rispetto ai repubblichini e alle truppe tedesche; e perfino del terrorismo delle Brigate Rosse e di altre organizzazioni di estrema sinistra, rispetto al terrorismo dei Nuclei Armati Rivoluzionari e delle altre organizzazioni d’estrema destra. Due pesi e due misure, sempre, immancabilmente; e con perfetta "buona" coscienza. Gli intellettuali progressisti e democratici, si sa, sono fatti così; e rivendicano per sé soli il diritto di essere giudici e parte lesa nello stesso tempo, cosa che negano risolutamente ai loro avversari, cioè ai "fascisti", ai "populisti", ai "razzisti", eccetera. Comodissima posizione: essi giudicano tutti e assolvono se stessi e i loro amici; me nessuno può permettersi di giudicare né loro, né i loro amici e "compagni". Per più di mezzo secolo hanno goduto di questa posizione privilegiata, con l’aggiunta di una auto-conferita laurea di superiorità morale. Gli altri sbagliano sempre, perché sono mossi da sordidi motivazioni di egoismo e d’interesse; loro non sbagliano mai, tuttavia, se per caso sbagliassero, bisogna capire (non diciamo perdonare: essi non chiedono mai perdono, perché ignorano il significato del verbo "scusarsi"): le loro intenzioni erano rette ed oneste.
Ai nostri giorni, poi, la loro auto-referenzialità e la loro arroganza si sono fatte ancora più rocciose, ancora più categoriche. È successo che hanno trasbordato definitivamente dalla nave che stava affondando, il marxismo, su quella che galleggia ancora benissimo, almeno in apparenza, il cattolicesimo; ne hanno preso, di fatto, il controllo; la dirigono dove vogliono loro, facendosi forti di una investitura morale ancora più forte, ancora più assoluta di quella ricevuta a suo tempo dalle vecchie divinità (che hanno fallito), Lenin, Stalin, Mao, Pol Pot, Castro, eccetera: cioè quella di Domineddio. Hanno "scoperto" che Gesù era venuto a predicare il comunismo, e ne hanno dedotto che Dio è l’equivalente del loro caro, vecchio, mai scordato Marx. Ne hanno dedotto che il Vangelo conferma le loro dottrine; che l’investitura divina rende ancor più sacrosanta l’idea di liberazione che essi rappresentano. È vero che non si tratta più di una liberazione sociale, tant’è che si son persi per strada la classe operaia: ma che importa?; in compenso hanno raccolto massoni, banchieri, tecnocrati, capitani d’industria, monsignori, azionisti delle multinazionali. Ed è anche vero che non parlano più di abolire la proprietà privata, né dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e neppure dei poveri (i quali, anzi, fan loro comodo: ah, se non ci fossero le cameriere filippine, o le donne indonesiane che portano avanti la gravidanza surrogata per conto delle loro mogli!); in compenso, si battono come leoni per la "civiltà": ossia l’aborto, la droga libera, le unioni civili, le adozioni omosessuali, la fecondazione eterologa, l’utero in affitto. Attualmente hanno anche la benedizione del papa, del presidente della Repubblica e di quello del Consiglio. Che altro potrebbero desiderare?
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels