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31 Maggio 2016Di Emmanuel Mounier (nato a Grenoble il 1° aprile 1905 e spentosi a Parigi, prematuramente, il 22 marzo 1950), padre del personalismo cristiano, ci eravamo già occupati dapprima nell’articolo L’unità dinamica della persona va "suscitata", per Mounier, attraverso l’amore e l’attività (pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 17/07/2008), in cui avevamo concordato sul giudizio di uno studioso italiano, Giuseppe Goisis, che ha definito il pensiero di Mounier come un cantiere tutt’ora aperto; indi con l’articolo Gioia di vivere e angoscia di vivere nel pensiero di Emmanuel Mounier (pubblicato sul medesimo sito il 07/01/2011), nel quale avevamo espresso alcune riserve circa la sua filosofia, che, a nostro parere, fanno sì che non sia possibile vedere in lui un vero maestro del pensiero cristiano.
Vogliamo qui precisare la ragione di fondo di questo giudizio: Emmanuel Mounier, oltre ad avere guardato un po’ troppo in direzione del modernismo, del progressismo e del democratismo di sinistra, contribuendo non poco a introdurre, sia pure involontariamente, queste false dottrine nel corpo sano della teologia e del pensiero cattolici, con effetti a lunga scadenza che sono arrivati (con la mediazione di Jacques Maritain) fino al Concilio Vaticano II ed oltre, ha criticato la cultura moderna per aver definito la persona come la coscienza che l’uomo ha di se stesso, ma, dopo aver rifiutato la definizione della metafisica classica, non ha saputo o voluto fornirne una, a sua volta, tale da costituire una base sufficientemente solida per la costruzione della sua filosofia. E ciò in un momento storico in cui l’unità della coscienza era criticata o posta in dubbio da molti esponenti della cultura laica, generando sconcerto, disagio, insicurezza in una intera generazione, e, pertanto, sarebbe stato quanto mai opportuno che un pensatore cristiano definisse il concetto di persona in maniera da offrire una valida alternativa a quelle concezioni esistenzialiste, vitaliste, relativiste, nonché tendenzialmente, o anche esplicitamene, nichiliste.
Di fatto, Mounier dichiara che è impossibile, e in fondo anche sostanzialmente inutile, dare una definizione vera e propria di persona, con la discutibile argomentazione che si può dare solo la definizione di un oggetto, mentre la persona, per l’uomo, non è un oggetto, ma è proprio la condizione per cui si attua la sua consapevolezza; e aggiunge, per buona misura, che essa si definisce solo mediante la relazione con l’altro, sicché, se non c’è la relazione, se ne dovrebbe dedurre che la persona scompare, oppure che non è mai esistita. Mounier è stato il tipico esponente di quella cultura francese ed europea della prima metà del Novecento, che, impregnata di vitalismo e quindi, direttamente o indirettamente, influenzata da Bergson, ma anche da Nietzsche, si è trastullata con l’idea che l’uomo esiste, all’atto pratico, solo là dove egli s’incontra con i suoi simili, perché, quanto a se stesso, egli è, a ben guardare — come sostenevano Luigi Pirandello e Miguel De Unamuno — "uno, nessuno e centomila". Insomma, un camaleonte, un fantasma, un ectoplasma, che, per manifestarsi, ha bisogno dell’altro. Ed è molto strano che un filosofo cristiano non abbia visto immediatamente quale deriva avrebbe comportato una simile impostazione dell’idea di persona. Un bambino autistico, dunque, non è persona? Un uomo in coma non è più persona? E un feto, non è ancora persona? Se così stanno le cose — e pare proprio che le premesse non lasciano adito a dubbi -, allora quel bambino, quell’uomo e quel nascituro, potrebbero, anzi, a rigore, dovrebbero, essere considerati delle non-persone, con tutto ciò che questo comporta, o può comportare.
Questo accade perché Mounier si è vergognato della metafisica classica, di Aristotele, di Boezio, ma anche della metafisica cristiana, del tomismo, e, in omaggio alle mode del suo tempo, ha voluto mettere in soffitta la vecchia definizione ontologica di persona e sostituirla con una definizione "giovane" e "moderna", relazionista e non sostanzialista. E ne è venuto fuori un gran pasticcio. Non sappiamo che cosa avrebbe detto Mounier a proposito di certi temi, oggi di grandissima attualità, scaturenti da una impostazione, per così dire, fenomenologica della bioetica: certo, non potrebbe esimersi o dal correggere le sue posizioni semi-esistenzialiste e antimetafisiche, oppure rivendicare la piena paternità di certo cattolicesimo progressista e di sinistra, il quale, sui temi etici e sui cosiddetti diritti civili, ha sviluppato al massimo, forzandola ulteriormente, l’impostazione "situazionista" ed "emozionalista" da lui data al fondamento della persona.
Se la persona, infatti, è l’insieme dei sentimenti e delle emozioni i quali, di volta in volta, come in un caleidoscopio, si succedono nella sfera della coscienza, allora quei contenuti acquistano un valore non più relativo, ma assoluto: diventano i veri protagonisti della vita morale, e prendono il posto del "vecchio" concetto sostanziale di persona. In altre parole, la persona non è più un soggetto, ma corrisponde ad un complesso di operazioni affettive e mentali in continua evoluzione e trasformazione. La verità dell’essere umano, a quel punto, non andrebbe più cercata nel suo fondamento ontologico, divenuto inafferrabile e pressoché evanescente, ma nel suo multiforme e fantasmagorico dispiegarsi al livello delle emozioni, dei sentimenti, eccetera. Fumo, come si vede: niente di certo, niente di stabile, niente di cui si possa affermare l’intrinseca verità. La persona, in un certo senso, diventa una opinione una ipotesi, un punto interrogativo; e quel che resta sono i singoli contenuti emozionali. Contenuti che appartengono a chi: alla persona? Difficile dirlo, e, soprattutto, troppo impegnativo. Probabilmente sì, ma a livello intuitivo; a livello razionale, in effetti, non avremmo più alcun diritto di affermarlo con sicurezza. In perfetto accordo con il concetto di "società liquida" di Zygmunt Bauman.
Così ha fatto il punto sul vicolo cieco del personalismo cristiano di Mounier, il saggista Corrado Gnerre, nel suo articolo Mounier, il personalismo e il concetto "liquido" di persona (sulla rivista Il settimanale di Padre Pio, edito dalle Suore Francescane dell’Immacolata, Ostra, Ancona, anno XV, n. 5 del 31 gennaio 2016, pp. 31-33):
Se Mounier conia il termine "personalismo" e se la sua filosofia è "personalista", è perché egli fa ruotare tutta la sua speculazione sul concetto di "persona". C’è però un problema che non è di poco conto: Mounier non riesce a dare una definizione precisa di "persona". O meglio, ci sono nella sua definizione elementi che definire ambigui è poco. […]
In realtà Mounier cosa vuol fare? Una cosa di per sé ottima: non solo dimostrare che la "persona umana", individualmente intesa, ha una dignità altissima, anzi è il massimo dei valori esistenti sulla faccia della terra per cui non può mai essere posposta(messa dopo) ad altro, per esempio: allo Stato, all’ideologia, alla razza… non solo questo — dicevo -, vuole anche evitare qualsiasi deriva "libertaria" ed "individualista", proprio perché la persona non è solo corpo, non è solo istinti, ma è anche volontà, libertà e responsabilità. Ma per questo non sa utilizzare argomenti corretti. […] Dire infatti che la persona è grande solo perché "ha" qualcosa e non perché "è" qualcosa, rende la persona stessa estremamente vulnerabile. […]
Secondo la metafisica classica, la persona è: "Sostanza individuale di natura razionale" (secondo la celebre definizione di Severino Boezio). Prima di tutto la persona è "sostanza completa": a differenza per esempio del sangue che per esistere ha bisogno di un coro animale, la persona sussiste in sé. È inoltre "sostanza individuale", dunque è persona l’uomo Mario, Giovanni, Pietro… non l’uomo astrattamente inteso come genere. Infine è "sostanza razionale", cioè autocosciente, libera e intelligente. Infatti, è "persona" l’uomo, è "persona" l’Angelo, è "persona" Dio. Non è "persona" l’animale o l’oggetto inanimato. Questo per la metafisica classica. Per Mounier e i personalisti le cose non stanno proprio così. Mounier dice che non si può dare alcuna definizione della persona, poiché essa sarebbe ineffabile, cioè inesprimibile. […] Mounier afferma questo perché pensa in tal modo di rendere più grande e inalienabile la persona umana, e non si accorge, invece, che la rende molto più debole e fragile. Perso lo statuto ontologico, la pèrsona diventa miseramente un fascio di evanescenti potenzialità, di tensioni, di emozioni, di sentimenti che lo stesso Mounier definisce come "l’universo personale". Insomma, altro non è che una concezione"fluida", "liquida" della persona. […]
Proprio perché la persona viene ridotta a un insieme di elementi fluidi, indefinibili e soprattutto emotivi e sentimentali, la persona stessa è ritenuta qualcosa che per essere se stessa debba necessariamente rapportarsi agli altri. Anche in questo caso l’intenzione di Mounier è buona. Egli vuol far capire che l’uomo non può individualisticamente chiudersi nell’egoismo, avendo il filosofo francese capito molto bene i danni che già stava compiendo un certo tipo di ipercapitalismo. Ma per seguire questa buona intenzione argomenta in maniera tutt’altro che corretta. […] Infatti, un cono è dire che l’uomo è "un essere naturalmente sociale" come aveva ben detto il buon Aristotele e ribadito l’ottimo San Tommaso d’Aquino, altro è dire che l’uomo se non si apre agli altri è come se non fosse uomo. Se dico questo, sostituisco la "sostanza" con la "relazione", anzi implicitamente ammetto che è "sostanza" la "relazione", rendendo estremamente vulnerabile e cangiante la persona stessa. Mounier dice chiaramente sempre nel suo "Il personalismo": "(la persona) non esiste se non in quanto diretta verso gli altri, non si conosce che attraverso gli altri, si ritrova soltanto negli altri". Si potrebbe però obiettare: ma dove sta il pericolo in tutti questo? Il pericolo c’è eccome. Facciamo un esempio concreto e più che mai attuale: il cosiddetto (solo "cosiddetto") amore omosessuale. Ormai anche molti Cattolici la pensano in questo modo: "Ma se due uomini (o due donne) si vogliono bene, si ‘amano’, che male c’è? Anzi, il male ci sarebbe se si pretendesse che questo ‘amore’ dovesse essere represso, annullato, moralmente condannato". Insomma, l’amore non dovrebbe più essere giudicato dalla verità, bensì si dovrebbe giudicare con l’amore stesso. Ebbene, vediamo che c’entra in tutto questo il Personalismo. Se la "persona" perde il suo statuto ontologico, fatto di sostanza individuale razionale, ma si riduce invece in un "universo" di emozioni, tensioni, sentimenti e passioni, allora l’amore stesso, che è una passione, viene svincolato dalla verità per divenire il criterio primo dell’agire umano. Faccio parlare ancora Mounier nel suo "Il personalismo": "[…] l’atto di amore è la più salda certezza dell’uomo, il cogito esistenziale irrefutabile: IO AMO QUINDI L’ESSERE È, e la vita vale (la pena di essere vissuta)".
Sì, c’è poco da girarci intorno: se oggi esiste una così grande confusione, nella società occidentale, e perfino nella cultura cattolica e dentro la stessa Chiesa, a proposito di quel che è giusto o sbagliato, lecito o illecito, da un punto di vista morale, specialmente di fronte alle sfide inaudite di una scienza e di una tecnica totalmente sfuggite alla progettualità razionale, e divenute fini "razionali" esse stesse – sfide ad andare sempre più lontano, ad osare sempre di più -, ciò lo si deve anche alla distruzione del vecchio concetto sostanzialista di persona ed alla sua sostituzione con una fenomenologia ridotta all’epifania del frammento, al culto del singolo istante, all’adorazione della scintilla vitale. Cioè, lo si deve anche al personalismo "cristiano" fondato da Emmanuel Mounier. Egli è il legittimo precursore — insieme a molti altri, si capisce; e, per la maggior parte, non cristiani o anticristiani – di questa tendenza filosofica, che si inscrive nella più ampia reazione antimetafisica iniziata con Kant e proseguita per tutto il corso del XIX e XX secolo, caratterizzandosi come il filone principale del pensiero. La rivolta antimetafisica ha portato alla svalutazione e, da ultimo, al pensionamento anticipato dell’ontologia: a nessun importa più sapere cosa sono gli enti, basta sapere che cosa non sono, e, più precisamente, basta sapere che si identificano per mezzo delle relazioni reciproche. Un curioso modo di filosofare: non si dà una definizione di questa o quella cosa (qui, della persona); però si dice che quella tale cosa è la manifestazione di un intreccio di relazioni; non solo, ma che è il fondamento di ogni intellegibile. Ma se di quel certo ente non si può dir nulla, né della sua essenza, né della sua natura, di quali relazioni stiamo parlando? Di relazioni tra fantasmi, tra allucinazioni, tra sogni inafferrabili? Eppure, anche un fantasma deve pur essere il fantasma di qualcosa: bisogna pur cercare di definirlo. Se la persona non è sostanza, le sue emozioni di chi sono? Chi è il soggetto che le prova? Qui si rischia di cadere nel pirandellismo più scontato…
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