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Generalmente siamo tutti dell’idea che le lotte politiche siano un male per la società; tanto è vero che in tutte le utopie politiche, da Platone a Campanella, che hanno delineato il migliore dei mondi possibili, i loro autori si sono sforzati di rimuovere le cause di conflitto e di appianare in partenza, per così dire, ogni possibile contrasto fra le classi e gli individui.
Vale però la pena di farsi una piccola domanda: è proprio così? Le lotte politiche sono un male in se stesse? È auspicabile, quand’anche fosse possibile, che, in una determinata società, viga una "pacificazione" equivalente alla radicale soppressione dei conflitti? I conflitti sono un male, sempre e comunque? Come sarebbe una società nella quale i conflitti sociali venissero sistematicamente intercettati e rimossi fin primi sintomi, ossia prima di potersi effettivamente manifestare?
Bisogna ammetterlo: sarebbe una società orribile; sarebbe un immenso campo di concentramento, dove la "pace" sociale sarebbe ottenuta al prezzo di sopprimere lo stesso istinto della libertà: perché, là dove esiste la libertà, si manifesta anche il conflitto. Il conflitto, in quanto tale, non è necessariamente un male; lo è solo a certe condizioni. Lo è, quando degenera in una conflittualità malata, permanente, ottusa, che funge da paravento allo scatenarsi delle fazioni, dei loro interessi personali, dei loro appetiti selvaggi, del loro cieco egoismo; non lo è, dove rappresenta la normale e necessaria valvola di sfogo alla sovrabbondanza di energie vitali in una società fondamentalmente sana, nella quale i singoli membri, come pure i gruppi e le classi, sanno che esiste un bene che va difeso sempre e comunque, e che precede il bene degli individui e dei gruppi: il bene generale, il bene di tutti, la società nel suo insieme, lo Stato.
Si prenda l’esempio di una famiglia qualsiasi. Nelle famiglie, esistono delle dinamiche conflittuali che niente e nessuno potrebbero rimuovere alla radice: quella fra uomo e donna, dunque fra marito e moglie; quella fra genitori e figli, e tra figli e genitori; quella tra fratelli e sorelle; quella generazionale, fra giovani e adulti; quella fra persone responsabili e mature da un lato, e persone irresponsabili e immature dall’altro. Sbaglierebbe, ad esempio, il genitore che volesse intervenire sempre e comunque, ogni qual volta si manifesta il conflitto tra i figli: finché si tratta di un conflitto "sano", cioè di un conflitto di crescita, legato alle normali dinamiche della dialettica interpersonale, è bene che esso si esprima, che venga in superficie, e che conduca ad un chiarimento e a una definizione dei ruoli, delle situazioni, delle responsabilità di ciascuno. Il conflitto aperto, quando è di natura benigna, deve sempre essere preferito alla dissimulazione del conflitto medesimo, alla sua soppressione forzata, alla sua normalizzazione artificiale. Perché i conflitti repressi, prima o poi, esplodono; e ciò accade con forza tanto più devastante, quanto più sono stati trattenuti, o addirittura negati. E ciò vale anche per la conflittualità interna a ciascun individuo, vale a dire fra le sue diverse e — talvolta – opposte pulsioni, i suoi desideri, i suoi obiettivi; a maggior ragione è cosa buona che il conflitto emerga nei rapporti fra i membri di uno stesso gruppo sociale. Finché le ragioni ultime dello stare insieme non vengono messe in discussione, e finché il conflitto non si trasforma in aggressione senza regole contro il modo di essere delle persone, ma in una contestazione di singoli comportamenti e atteggiamenti, esso è benefico, e, laddove stenti a manifestarsi, bisogna semmai sospettare che vi sia qualcosa d’anormale.
Se, invece, ci si torva in presenza di un conflitto di natura maligna, cioè non a un conflitto di crescita e di consapevolezza, ma a un conflitto puramente distruttivo, la cui unica sorgente è costituita dall’odio, dal rancore, dall’invidia e dalla gelosia, allora sì che bisogna fare la massima attenzione per comprendere le dinamiche delle quali è espressione e per fare in modo, per quanto umanamente possibile, d’incanalarlo e orientarlo in maniera che sfoghi la sua carica distruttiva in forma innocua, su obiettivi neutri, e lasci spazio sufficiente per medicare le ferite dell’anima che lo hanno originato e che tendono incessantemente ad alimentarlo. Ammesso, ripetiamo, che una simile strategia sia ancora possibile: perché, a nostro giudizio, quando si ha a che fare con un conflitto maligno, là si rivela una personalità profondamente malata, demoniaca, la quale vorrebbe trascinare tutti gli altri nel proprio malessere, e, pazza di rabbia impotente, vorrebbe distruggere tutto ciò che le sta intorno: per cui è impresa difficilissima quella di agire positivamente su una tale anima persa — quanto meno, è difficilissima sul piano puramente umano, poiché, sul piano della fede religiosa, tutto diventa possibile.
Pertanto, pur disapprovando profondamente la brutalità, il cinismo, l’amoralità di cui è impregnata la concezione politica di Niccolò Machiavelli, nondimeno su un punto bisogna riconoscere che egli aveva ragione: per valutare i fattori della politica, bisogna partire dalla verità effettuale della cosa; in altre parole, bisogna partire da una valutazione realistica dell’uomo, che non confonda il piano della realtà con quello del desiderio. L’errore di Machiavelli è stato quello — come accade sovente agli autori di una svolta epocale del pensiero — di assolutizzare la propria "scoperta", ossia che la politica va studiata e considerata a partire dalle circostanze concrete e reali, per cadere in una cieca adorazione dell’esistente: poiché le cose evolvono incessantemente, e la verità effettuale di oggi non sarà più tale domani; e l’uomo, in particolare, evolve sempre, ogni giorno della sua vita, e sarebbe illusorio fissare una volta per sempre i suoi caratteri essenziali, come se dovessero restare perennemente bloccati. In altre parole, Machiavelli ha ignorato lo spirito, perché ha ignorato le dinamiche spirituali e l’evoluzione spirituale; in compenso, ha avuto ragione nel dire che non si può parlare della politica se non si è capaci di guardare all’uomo come effettivamente è, e non solo come si vorrebbe che fosse, o come dovrebbe essere.
Ora, su questo Machiavelli era nel giusto: l’uomo non è una creatura angelica; se lo fosse, non avrebbe smarrito le chiavi dell’Eden: è una creatura decaduta, più incline al male che al bene. Nel mondo degli angeli non vi è conflitto, perché in loro non vi è alcuna distanza fra l’essere e il dover essere, fra il realizzare se stessi e l’obbedire totalmente alla volontà di Dio. Eppure, la Bibbia ci insegna che persino fra di essi c’è stato un conflitto, e un conflitto assai grave, in seguito al quale gli angeli ribelli si sono trasformato in demoni, e sono precipitato all’Inferno, vale a dire che hanno perso la loro natura luminosa e son divenuti creature delle tenebre. A maggior ragione, sarebbe non solo irrealistico, ma pericolosissimo, immaginare che l’uomo, tanto meno perfetto degli angeli quanto a intelligenza, volontà e amore, possa evitare i conflitti con i propri simili, a cominciare dalle persone più vicine e più care, per finire con l’intera società. Davanti a questa prospettiva, Platone e Campanella hanno fatto ricorso ai metodi totalitari e concentrazionari: hanno preteso d’imporre la virtù, come Robespierre e il suo maestro, Rousseau, a colpi di decreti, e, se non basta, a colpi di mannaia. Sia la Repubblica del filosofo greco, sia la Città del Sole del frate calabrese, hanno qualcosa d’inquietante, di asfittico: non prevedono il conflitto, anzi, lo demonizzano; pretendono d’imporre la pace preventiva come valore assoluto e non negoziabile. Crediamo che nessuno di noi si troverebbe bene a vivere in una società del genere.
Il merito di Machiavelli, in questo caso, è stato quello di vedere che, essendo il conflitto inevitabile, quel che importa, dal punto di vista dell’azione politica, è di evitare che esso si trasformi in conflitto maligno, ma che s’indirizzi, per quanto possibile, in senso costruttivo: che produca delle crisi di crescita e non delle crisi di dissoluzione. Come in una sana squadra sportiva, alla vigilia della gara decisiva, è normale che vi sia tensione fra gli atleti: per cui l’allenatore intelligente non dovrà sprecare tempo ed energie nel tentativo di spegnerla o sterilizzarla, ma, semmai, dovrà fare di tutto affinché la tensione, e i conflitti che inevitabilmente ne derivano, offrano una utile via di sfogo al sovrappiù di energia che la tensione stessa ha fatto accumulare. Insomma, il bravo allenatore non tenta di soffocare i conflitti, ma si sforza di trasformarli in una maggiore competitività dei membri del gruppo e in un loro più deciso agonismo, in vista della vittoria.
Scriveva dunque, il Segretario fiorentino in un passo notevole di una delle sue opere considerate "minori", le Istorie fiorentine (VII, 1, pagg. 561-62):
… coloro che sperano che una republica possa essere unita, assai di questa speranza s’ingannono. Vera cosa è che alcune divisioni nuocono alle repubbliche e alcune giovono. Quelle nuocono, che sono dalla sètte e da partigiani accompagnate; quelle giovono, che sanza sètte e sanza partigiani [uomini faziosi] si mantengono. Non potendo adunque provvedere uno fondatore di una republica, che non sieno inimicizie in quella, ha a provvedere almeno che non vi sieno sètte. E però è da sapere come in due modi acquistono riputazione i cittadini nelle città: o per vie publiche o per modi privati. Publicamente si acquista, vincendo una giornata, acquistando una terra, facendo una legazione con sollecitudine e con prudenza, consigliando la republica saviamente e felice,ente. Per modi privati si acquista, beneficando questo e quell’altro cittadino, defendendolo dà magistrati, suvvenendolo di denari, tirandolo immeritamente agli onori, e con giuochi e doni publici gratificandosi la plebe [cfr. anche i "Discorsi", I, 33, pagg. 100-102; I, 52, pagg.122-123]. Da questo modo di procedere nascono le sètte e i partigiani; e quanto questa reputazione così guadagnata offende, tanto quella giova, quando ella non è con le sètte mescolata; perché la è fondata sopra un bene comune, non sopra un bene privato. E benché ancora tra i cittadini così fatti non si possa per alcuno modo provvedere che non vi sieno odii grandissimi; nondimeno, non avendo partigiani che per utilità propria gli seguitino, non possono alla republica nuocere; anzi conviene che giovino, perché è necessario, per vincere le loro pruove, si voltino alla esaltazione di quella, e particolarmente osservino l’uno e l’altro, acciò che i termini civili non si trapassino…
Tutte le filosofie buoniste hanno questo in comune: che negano il conflitto, o lo ritengono una inutile zavorra, di cui bisogna trovare il modo di sbarazzarsi; ma il buonismo è il contrario della bontà: è la bontà senza la giustizia e senza la verità; è la bontà dei deboli, degli ipocriti, dei collaboratori del male, dei pigri e dei vili, che si rifiutano di guardare le cose come stanno, perché preferiscono piagnucolare sulle vittime delle ingiustizie piuttosto che rimboccarsi le maniche e lavorare duramente per la buona causa, ma senza fare sconti a nessuno e senza accettare la tendenza delle vittime a trasformare il loro stato in una sorta di redditizia professione, basata sul ricatto a tempo indefinito dell’intera società, per vendicare i torti subiti, reali o immaginari che siano.
Dal punto di vista religioso, il buonismo è il pervertimento maligno del cristianesimo, la sua contraffazione diabolica; di fatto, il Diavolo si serve di esso per scusare il male, per incoraggiare scrupoli eccessivi, per fomentare irragionevoli sensi di colpa, per suscitare l’ipocrisia e la tendenza a dissimulare da parte degli uomini, e specialmente di quelli che vanno in cerca di qualche pretesto per giustificare la loro pochezza o la loro pusillanimità. Dove c’è un buonista in azione, il cristianesimo è stravolto, negato, capovolto: Gesù era un maestro buono, non un buonista; non scusava tutto e tutti: perdonava, sì, i peccatori, ma, al tempo stesso, raccomandava la conversione e ammoniva circa gli effetti disastrosi dell’egoismo. Va’ in pace, e non peccare più, era la sintesi della sua pedagogia; non ignorava affatto il male e il peccato, ne era anzi pienamente consapevole, dato che fin dal’inizio della sua vita pubblica dovette, per prima cosa, affrontare le tentazioni del Diavolo nel deserto, anticipazione di quelle che lo avrebbero assalito dopo, fino all’ultimo, fino a quella notte tremenda nell’Orto degli olivi, e poi anche oltre, fin sulla croce.
Ignorare, sottovalutare o negare l’esistenza del male non è da cristiani, ma da pagani. Per il cristiano, la natura non è buona; lo era, prima del peccato: poi, essa è irrimediabilmente decaduta, insieme all’uomo, responsabile della ribellione al volere del Creatore. Il politico, così come chiunque altro, ha a che fare con questa realtà decaduta: con questa natura corrotta, con quest’uomo debole e incline alla malizia più che alla bontà. Come evitare, allora, che i conflitti degenerino sistematicamente, che divengano strumento micidiale della lotta per il potere tra le fazioni, del tutto indifferenti al bene comune? Ecco, qui appare tutta l’insufficienza della filosofia di Machiavelli; qui appare la necessità della conversione. Senza l’amore e il timor di Dio, l’uomo è perduto; sia come anima, che come cittadino della polis. Senza Dio, la polis diventa l’Inferno: come fu ad Hiroshima…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash