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14 Maggio 2016La scolaresca è giunta, dopo un viaggio in corriera, al piccolo museo di scienze naturali che è stato realizzato, qualche decennio or sono, sulla base di alcuni lasciti prestigiosi, e, soprattutto, sull’onda dell’emozione e dell’entusiasmo per il ritrovamento, in una località vicina, di un mammut, risalente all’epoca in cui questi grandi proboscidati lanosi si aggiravano per la Pianura Padana, durante l’ultima era glaciale, più di 10.000 anni or sono.
I bambini di terza, quarta e quinta elementare sono adesso tutti all’interno, e si accingono a visitare le varie sale, accompagnati dalle maestre. Pendono tutti dalle labbra della loro guida, che deve illustrare i materiali geologici, paleontologici, archeologici e storici, contenuti nelle varie bacheche e sparsi come a delineare un ideale percorso attraverso i secoli, i millenni e i milioni di anni, a ritroso nel tempo, verso quella misteriosa epoca in cui la nostra fantasia si addentra con fatica sempre più grande, e la nostra curiosità si pone interrogativi sempre più ardui.
Ma non vi è traccia d’imbarazzo, di dubbio, di problematicità nelle parole e nel tono del discorso di questa guida torrenziale, che arringa — è l’unico termine possibile — bambini e maestre, in uno sproloquio che abbraccia filosofia, storia e scienze biologiche, partendo dal "brodo primordiale", o magari dal "big bang", e arrivando fino ai nostri giorni, e passando ovviamente per Darwin e per la sua teoria evoluzionista, che, nelle sue parole, da teoria diventa una certezza assoluta, non solo, ma una teoria che si estende all’ambito della società, della politica, della storia, della psicologia, della cultura, dell’arte, del sapere.
Non è facile seguire questo fiume inarrestabile di parole, ma il senso complessivo, senza dubbio, è chiaro: l’uomo è un animale solo un po’ evoluto, cugino degli scimpanzé e votato a divenire sapiens dalla sua alimentazione carnivora (ah, se solo gli uomini primitivi avessero avuto a disposizione un cuoco più intelligente o più lungimirante…). Ogni specie, infatti, è ciò che mangia; però si vede che l’uomo non ha mangiato abbastanza, o non ha mangiato i cibi giusti, per cui non è vero che sia diventato Homo sapiens sapiens ("sapientissimo"), il secondo "sapiens" se lo deve ancora guadagnare: per adesso è "sapiens" una volta sola, e forse anche troppo, dato che si mostra non abbastanza intelligente da capire che il suo comportamento distruttivo nei confronti dei suoi simili e della natura finisce inesorabilmente per ritorcersi contro di lui.
A un bambino che protesta, e che afferma di non credere che l’uomo sia solo un animale, per giunta piuttosto stupido, il Cicerone tuttologo prontamente ribatte, con pungente ironia: «Ah, no? E allora che cos’è, dimmelo tu: forse un vegetale?». Evidentemente, per lui non vi sono che due tipi di esseri viventi: gli animali e le piante. E, dal momento che l’uomo non produce la clorofilla… Sulla base di queste raffinate deduzioni e di questi complessi ragionamenti, il nostro bravo ometto, complice la grande pazienza, e forse, l’eccessiva educazione delle maestre, viene lasciati libero di sproloquiare tutta la mattina: più che una visita al museo, si tratta di una lunghissima conferenza, senza contraddittorio, nella quale i rudimenti dello scientismo materialista più becero e del più grossolano evoluzionismo positivista, vengono ammanniti alle tenere menti dei fanciulli, in attesa che siano rincretinite abbastanza (pardon, volevamo dire: in attesa che esse siano evolute abbastanza) da poter accogliere cibi intellettuali più sostanziosi, ma pur sempre del medesimo tenore. Perché questa è la cultura "scientifica" oggi imperante, sia chiaro, di qua non si scappa: quella imposta, nel corso di qualche decennio, da menti sopraffine, come quelle di Piero Angela o di Margherita Hack, o, magari, di Piergiorgio Odifreddi.
Il caso del museo di scienze e della scolaresca di bambini delle elementari è un episodio tipico, una scenetta addirittura paradigmatica: così vanno le cose, oggi, specialmente in Italia. Qualunque cretino si sia impadronito di un sia pure minuscolo brandello di verità, dell’uno per cento di verità, subito pensa di aver capito tutto, di aver compreso i misteri dell’universo mondo, e quel che è peggio, e più esiziale, si auto-promuove alla missione d’infaticabile propagatore del Nuovo Verbo della Verità, dall’alto della sua sublime altezza, che lo pone nell’obbligo morale di non gustare da sé solo le delizie del sapere, ma di spartirle con il pubblico più ampio possibile.
Ed ecco che un signore di provincia, forse laureato in Scienze naturali, forse no, divenuto curatore di un museo, trova il modo di gratificarsi ammaestrando ogni giorno frotte d’ignari bambini e d’inconsapevoli adolescenti, e di convertitore al suo credo, forse, anche un numero non indifferente d’insegnanti, il che produrrà di certo un benefico effetto domino, propagando le meraviglie della conoscenza come i cerchi sull’acqua d’uno stagno. Grazie a lui e alla sua irresistibile facondia, ogni giorno decine di famiglie ricevono il messaggio trasmesso dagli ignari pargoletti: che l’uomo è un animale, nient’altro che un animale; che si è evoluto un po’ alla volta, tirandosi su due zampe (cioè, due gambe), dopo aver razzolato su quattro; che, nutrendosi del cervello delle sue prede, è diventato intelligente, ma non troppo; che i suoi cugini scimmieschi sono rimasto tali, perché la loro dieta era solamente frugivora; che il midollo osseo di cui si nutriva, banchettando sulle carogne degli animali uccisi dai grandi predatori, è la chiave del suo successo evolutivo; che tutto quello che è scritto sui libri è sbagliato e andrebbe riscritto; ma che presto anche la scuola prenderà atto degli ultimi sviluppi delle scienze biologiche e, finalmente, la nascita dell’uomo sarà conosciuta nei suoi veri tratti, mentre attualmente non si fa altro che ripetere e copiare gli errori l’uno dell’altro.
La sindrome del cretino che si crede un Aristotele, infatti, è di tal natura, che costui sarebbe disposto a prodigarsi anche per uno stipendio inferiore, e, se necessario, perfino gratis, pur di godere di siffatte condizioni ideali: un pubblico docile, paziente, volonteroso, che digerisce tutto, o quasi, e uno statuto ufficiale di "autorità" competente in materia (ma quale materia?), grazie al quale potersi sbrigliare nel passatempo preferito da milioni e milioni d’italioti: quello di sproloquiare per ore, su qualsiasi argomento dello scibile umano, con il tono apodittico e con la sicurezza invidiabile di un provetto specialista in ciascuna delle tre, o cinque, o dieci discipline, che costui non si perita di toccare e di sviscerare, riservando però la preferenza, come è giusto, alla regina di esse: la filosofia, nella quale, come è noto, qualunque asino si può auto-nominare detentore di un sapere speciale, originale, indistruttibile e a prova di qualsiasi critica, sia perché critiche non ne verranno mai da un pubblico di quel tipo, sia perché costui è ampiamente soddisfatto di poter parlare, indipendentemente dal risultato e dall’effetto, così, per il piacere di udire la propria voce, per l’intima soddisfazione di fare lezione a qualcuno, fossero pure (come in una celebre novella di Pirandello) non già degli esseri viventi, ma gl’impermeabili appesi sull’attaccapanni, in una giornata di pioggia, in fondo ad un’aula vuota.
Il cretino non può tacere, non può tenere per sé le meraviglie del sapere; la sua missione sociale è la propalazione della Verità; e non può nemmeno accontentarsi di fare il mestiere o la professione per cui è pagato, specialmente se si tratta di un dipendente pubblico, cioè di un signore che ha la quasi matematica certezza di conservare il posto, qualunque cosa faccia o dica, qualsiasi sproposito compia e qualunque balordaggine gli venga il ghiribizzo di ammannire agli utenti. Del resto, si può immaginare una condizione più felice della sua? Intellettuale mal compreso, arca di sapere non riconosciuta, genio leonardesco indegnamente lasciato a vegetare in un buco di provincia, a dispetto dei suoi evidenti meriti universali, si rifà della sorte matrigna propinando senza posa le pillole ineffabili del suo sapere, e ciò non fra quattro amici al bar, i quali, probabilmente, finirebbero per non sopportarlo e per piantarlo in asso, senza neppur pagargli il bicchiere di vino, ma davanti ad un pubblico attento e desideroso d’apprendere, venuto apposta per ascoltarlo e, dunque, mentre è nell’esercizio delle sue funzioni, tralasciando il dettaglio che le sue predicazioni logorroiche travalicano di molto la sfera dei suoi compiti, e che si è preso la trascurabile libertà di auto-promuovesi ad una funzione lievemente più ardua e complessa di quella per cui riceve lo stipendio.
Cosa c’è di più gratificante che poter far coincidere, o quasi, la propria vocazione con la propria professione? Che andare al lavoro non per dovere, ma con autentica passione, avendo la consegna di convertire alla propria scienza quanta più gente possibile? Che vedere sui visi stupiti e ammirati degli ascoltatori l’effetto notevole prodotto dai propri torrenziali discorsi?
Ci è capitato di doverci sorbire degli elettricisti che non vedevano l’ora, con la scusa di aggiustare un vecchio televisore, di rifilarci lunghi discorsi sulla natura della scienza, prendendo a pretesto il cambio di una valvola o l’aggiustamento di un’antenna, discorsi ammanniti con generosa dovizia di riferimenti e sottolineati dall’enfasi dei gesti e dallo scintillio compiaciuto dello sguardo; e ci è capitato anche di dover pazientemente sopportare interminabili dissertazioni sulla tecnologia, sulle politiche industriali, sulla finanza, sulla legislazione e, naturalmente, sulla politica, da parte di meccanici sempre immersi nel lavoro di officina, peraltro bravissime persone, mentre controllavano il motore della nostra automobile, alla ricerca dell’origine di un misterioso rumore o del perché si è accesa una spia di emergenza sulle luci del cruscotto.
In entrambi i casi, e in altri ancora del medesimo genere, si tratta di lavoratori affidabili che hanno la passione per i lunghi discorsi in ambiti di non stretta loro pertinenza, difetto, se tale vogliamo considerarlo, abbastanza lieve e, comunque, facilmente scusabile, dal momento che non reca danno ad alcuno e serve, dopo tutto, a fare un po’ di conversazione e a riempire i lunghi silenzi di un lavoro nel quale si sta a contatto col cliente e nulla impedisce di accompagnare la ricerca e la soluzione dei guasti, elettrici o meccanici, con un po’ d’innocente conversazione, in un mondo tendenzialmente freddo e asettico, dove ciascuno tende a fare il suo lavoro restando chiuso nella propria bolla di vetro.
Ma la verbosità incontenibile del cretino è di un’altra natura: è di natura maligna. Egli non vuole riempire i silenzi, forse imbarazzanti, di una forzata vicinanza col cliente, nello svolgimento del proprio lavoro; egli ha fatto della logorrea gratuita e dello sproloquio pseudo-scientifico la sua stessa professione, e, fortemente persuaso di dover illuminare le tenebre dell’ignoranza mediante i lumi della (sua) "ragione", impone con petulanza incontenibile e con una dose non piccola di aggressività ideologica quella che, per lui, è la Verità tout-court; anche se, bontà sua, ammette che essa non viene ancora riconosciuta come tale sui libri di storia, né su quelli di scienza, ma, in compenso, ci rassicura che tale lacuna verrà presto colmata, vale a dire non appena il mondo della cultura accademica sarà arrivato, finalmente, allo stesso livello che lui, geniale precursore solitario, ha raggiunto da un pezzo, intrepido esploratore di una terra nondum cognita, nonché messaggero di civiltà e di vera conoscenza in questo oscuro Medioevo post-moderno, che stenta ad arrendersi ai raggi del sole.
La loquacità eccessiva, irrefrenabile, patologica, è la tipica manifestazione del frustrato che non si rassegna a un’esistenza anonima, ma che vorrebbe emergere, essere ammirato, vedere riconosciuta la sua eccellenza e che, pertanto, non si dà pace fino a quando le sue parole straripanti non avranno scalfito il grigio muro d’indifferenza e d’inconsapevolezza che il mondo gli oppone e dietro il quale tenta di resistere alla chiara evidenza della sua genialità. La società odierna è letteralmente pullulante di codesti frustrati: ciascuno con la sua bella scorta di rancore accumulato, d’invidia sociale, di amarezza professionale; ciascuno con l’immenso fardello, che deve portare sulle spalle, del mancato (o ritardato) riconoscimento della propria eccellenza; ciascuno gravato dal travaglio di un parto che stenta a compiersi, perché la sua verità è pronta per venire alla luce, ma le levatrici scarseggiano e troppi medici, inaudita arroganza, si rifiutano di collaborare alla nascita prodigiosa, destinata a inaugurare una nuova età dell’umano sapere. Ah, se tutti i piccoli filistei si rendessero conto di quali portentosi cervelli giacciono, poco valorizzati, in qualche angolino male illuminato, mentre meriterebbero di risplendere in tutto il loro fulgore, con immenso vantaggio dell’universo mondo! Ma tant’è: bisogna portare pazienza, anche se – come dice il sommo Poeta — perdere tempo, a chi più sa, più spiace.
Ci troviamo in presenza, in siffatti casi, di un duplice, e deprecabile, ordine di fenomeni: lo scambiare una piccola verità parziale per la verità tutta intera, e l’abusiva trasformazione di semplici teorie, per quanto ingegnose, in rocciose certezze e in evidenze paradigmatiche; ai quali si aggiunge un difetto caratteristico del mezzo sapere e del mezzo comprendere: la smania di comunicare a tutti la "scoperta" di una verità definitiva e universale. A tale proposito, parafrasando Dante, potremmo dire: parlare troppo, a chi più sa, più spiace. Chi sa davvero, è parco e quasi avaro di parole: parla solo se interrogato, quasi controvoglia. Non vuol convertire proprio nessuno…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels